Il 19 agosto del 14 d.C. moriva l’imperatore Augusto a Nola, in Campania. Adottato dal prozio Giulio Cesare per testamento, Gaio Ottavio divenne Gaio Giulio Cesare Ottaviano, rivendicando le azioni del padre adottivo. In seguito alla formazione del triumvirato e alla vittoria contro i cesaricidi a Filippi, riuscì ad avere il controllo dell’occidente per poi dichiarare guerra a Cleopatra (e quindi Antonio), rea di aver donato per testamento beni appartenenti alla repubblica (come sia entrato in possesso del testamento è tuttavia ignoto).

Fine di un principe

Rimasto unico padrone della res publica, dopo aver collezionato diversi consolati rimise infine la carica nel 27 a.C. (la dittatura era stata abolita dopo la morte di Cesare) e il senato, per riconoscere il suo ruolo, gli diede il titolo di Augusto e una serie di poteri, come l’imperium proconsulare maius, che gli dava il comando supremo sull’esercito. Infine nel 23 a.C. ottenne anche la tribunicia potestas, divenendo dunque inviolabile e avendo diritto di veto; ottenne anche il pontificato massimo alla morte di Lepido e il titolo di pater patriae. I poteri gli venivano rinnovati periodicamente ma di fatto aveva svuotato la repubblica per creare una forma di governo monarchica che si giustapponeva alle strutture repubblicane, formalmente intatte (continuavano a esistere i consoli).

«Due volte Augusto pensò di restaurare la repubblica: una prima volta sùbito dopo aver fiaccato Antonio, ricordando che da questo gli era stato ripetutamente rinfacciato che dipendeva proprio da lui il fatto che essa non fosse restaurata; poi, di nuovo, perché stanco di una lunga malattia. In questa occasione, anzi, convocate le autorità e il Senato in casa sua, consegnò loro un rendiconto finanziario dell’impero. Ma, considerando che come privato cittadino egli sarebbe stato sempre in pericolo, e che era rischioso affidare lo Stato all’arbitrio di più persone, continuò a tenerlo in pugno lui. Non si sa se con migliore risultato o con migliore intenzione. Questa intenzione egli non solo la sbandierò di tanto in tanto, ma una volta giunse a proclamarla in un comunicato ufficiale: «Vorrei proprio che mi fosse possibile rimettere al suo posto sana ed indenne la repubblica, e godere il frutto che io cerco di questa restaurazione, di essere detto cioè fondatore di un ottimo Stato, e di portare con me, morendo, la speranza che rimangano salde le fondamenta dello Stato, quali io avrò gettato». Ed egli stesso fu realizzatore del suo voto, sforzandosi in ogni modo a che nessuno avesse a dolersi della nuova situazione. La città non era adorna in proporzione della sua maestà, ed era esposta a inondazioni e ad incendi: ebbene, egli la abbellì a tal punto che giustamente si potè gloriare di lasciarla di marmo, mentre l’aveva ricevuta di mattoni. E, per quanto una mente umana poteva prevedere, la rese sicura anche per l’avvenire.»

Svetonio, Augusto, 28

Unica battuta di arresto del suo fortunato principato fu la sconfitta di Teutoburgo, nel 9 d.C., che fece arretrare la frontiera romana al Reno e che vide l’anziano imperatore vagare per il palazzo sbattendo la testa contro le porte e urlano “Varo, rendimi le mie legioni!”. L’imperatore morì il 19 agosto del 14 d.C., qualche anno dopo aver adottato il suo figliastro Tiberio, a Nola. In punto di morte, stando a Svetonio, Ottaviano avrebbe detto: “Acta est fabula. Plaudite!” (“È finito lo spettacolo. Applaudite!”). Nelle ore precedenti Livia si chiuse in stanza con Augusto e nessuno seppe cosa accadde, se ne forzò la dipartita per favorire il figlio o altro, tanto che Tiberio riuscì ad arrivare giusto in tempo per vedere il padre adottivo morire. Il corpo fu riportato a Roma; Tiberio e suo figlio Druso minore fecero un’orazione funebre, poi le ceneri vennero poste nel mausoleo di Augusto.

«Nell’ultimo giorno di vita Augusto domandò di tanto in tanto se fuori ci fosse già agitazione per lui; chiese uno specchio e si fece acconciare i capelli e aggiustare le guance cadenti. Fece poi entrare i suoi amici e ad essi domandò se sembrasse loro che avesse recitato bene la commedia della vita, e aggiunse la consueta conclusione: Se dunque va bene, date alla commedia il plauso e tutti accompagnateci con gioia. Poi, fatti uscire tutti, mentre chiedeva notizie, a chi veniva da Roma, della figlia di Druso, che era malata, improvvisamente finì tra i baci di Livia e con queste parole: «Livia, vivi ricordando la nostra unione. Addio!». Ebbe dunque una fine agevole, quale si era sempre augurato. Infatti, di solito quando sentiva che qualcuno era morto senza alcuna sofferenza, augurava per sé e per i suoi una simile εὐθανασίαν (proprio questa parola adoperava). Prima di esalare l’ultimo respiro diede un unico segno di mente ottenebrata: improvvisamente, spaventato, si lamentò che quaranta giovani lo trascinassero via. Ma anche questo fu più un presagio che segno di alienazione mentale: in effetti quaranta pretoriani portarono fuori la sua salma per esporla al pubblico.»

«E non ignoro nemmeno che, secondo alcuni, Augusto acconsentì ad adottarlo solo per le preghiere di sua moglie, e anche spinto dal desiderio di farsi maggiormente rimpiangere, dandosi un simile successore. Non posso però credere che quel principe tanto circospetto e prudente abbia agito alla leggera in un caso di così grande importanza; credo piuttosto che abbia accuratamente pesato le virtù e i vizi di Tiberio e trovato maggiori le virtù, soprattutto tenendo conto che aveva giurato in assemblea di adottarlo nell’interesse dello stato, e che in molte sue lettere lo celebrò come un grande comandante militare e l’unico sostegno del popolo romano.»

«Mentre si parlava di queste cose e di altre simili, le condizioni di salute di Augusto si aggravavano e alcuni sospettavano la moglie di assassinio. Poiché s’era sparsa la voce che pochi mesi prima Augusto, confidatosi con pochi e accompagnato dal solo Fabio Massimo, si fosse recato a Pianosa per incontrare Agrippa; ivi, tra lacrime e dimostrazioni reciproche d’affetto, era sorta la speranza che il giovane potesse esser reso alla famiglia dell’avo. Fabio Massimo avrebbe riferito il fatto alla moglie Marcia, questa a sua volta a Livia. Cesare ne sarebbe stato informato. E non molto tempo dopo, spentosi Fabio – non si sa se di morte volontaria – ai funerali si sarebbe udita Marcia accusare piangendo se stessa d’esser stata la causa della morte del marito. Comunque sia andata, Tiberio era appena arrivato nell’Illirico, quando fu richiamato precipitosamente da una lettera della madre. E non è stato mai chiaro se abbia trovato Augusto in fin di vita, nei pressi di Nola, o già spirato. Livia infatti teneva il palazzo e le vie sbarrate con rigorosa custodia sì che di tanto in tanto correvano voci d’un miglioramento; fino a che, presi i provvedimenti che il momento esigeva, si seppe nello stesso momento che Augusto era deceduto e che Tiberio assumeva il potere.»

Svetonio, Augusto, 99; TIBERIO, 21; TACITO, ANNALI, I, 5

Ironicamente Augusto aveva preso il potere proprio a Nola, luogo in cui sarebbe morto. Tiberio si sbarazzò subito di Agrippa Postumo, unico suo possibile concorrente, mentre a Roma si piangeva Augusto e tra i senatori crescevano i sospetti verso il nuovo principe, dall’aspetto e il carattere ben più ritroso:

«Il primo avvenimento del nuovo principato fu l’assassinio di Agrippa Postumo; benché preso alla sprovvista e inerme, non fu facile al centurione, che pure era uomo d’animo fermo, sopprimerlo. Tiberio in Senato non fé cenno dell’accaduto, fingendo che fosse un ordine del padre, il quale avrebbe ordinato al tribuno incaricato della custodia di non indugiare a uccidere Agrippa, non appena egli fosse giunto al giorno estremo. Senza dubbio Augusto aveva deplorato amaramente l’indole selvatica del giovane per ottenere che il Senato ne sancisse con un decreto l’esilio, ma non s’era mai spinto fino alla condanna capitale per uno dei suoi, né si poteva credere che avesse voluto spento il nipote per la sicurezza del figliastro; piuttosto che Tiberio e Livia, il primo per paura, la seconda per odio di matrigna, avessero affrettato l’omicidio del giovane, sospetto all’uno, inviso all’altra. Al centurione che, conforme all’uso militare, gli annunziò d’aver eseguito l’ordine, Tiberio disse di non averglielo ordinato affatto e che si doveva render conto del fatto al Senato. Al che Crispo Sallustio, che era a parte dei segreti era stato lui a mandare l’ordine scritto al centurione – temendo d’esser ritenuto responsabile, sia che mentisse sia che deponesse la verità, cose egualmente pericolose, ammonì Livia «che non era opportuno mettere in piazza i segreti di famiglia, i pareri degli intimi, gli ordini impartiti ai militari, né svigorire l’autorità del principato di Tiberio con il deferire ogni cosa al Senato. La logica del potere è questa: i conti tornano soltanto se si rendono a uno solo». A Roma intanto consoli, senatori, equestri si precipitarono a prestare ossequio, ciascuno quanto più altolocato, tanto più pronto a simulare; atteggiato il volto a non mostrarsi né lieto per la morte del principe né troppo spiacente per l’avvento del nuovo, esprimevano al tempo stesso lacrime ed esultanza, rammarico e adulazione. I consoli Sesto Pompeo, Seio Strabone e Sesto Apuleio giurarono per primi fedeltà a Tiberio; dopo di loro Caio Turrano, quello Prefetto delle coorti pretoriane, questo dell’Annona. Subito dopo il Senato, l’esercito e il popolo. Tiberio intanto non prendeva una iniziativa se non attraverso i consoli, come al tempo della repubblica, quasi fosse insicuro del suo potere; persino l’editto con il quale convocò i padri nella curia lo promulgò con la sola intestazione dell’autorità tribunicia che aveva ricevuta da Augusto. Breve l’editto e molto misurato: intendeva consultare i senatori a proposito delle onoranze da rendere al padre; quanto a lui, non si sarebbe allontanato dalla salma: questa sola, tra le funzioni pubbliche, si assumeva. Ma, non appena Augusto ebbe chiuso gli occhi, egli dettò la parola d’ordine ai pretoriani da imperatore, pretese sentinelle, armi e tutto ciò che si addice a una corte; si fece accompagnare da armati, sia che si recasse al foro o al Senato. Inviò messaggi agli eserciti come chi è in possesso del principato, mostrandosi esitante solo quando parlava in Senato. La ragione principale consisteva nel timore che Germanico, al comando di tante legioni e immense forze ausiliarie nonché estremamente amato dal popolo, preferisse aver subito il potere, anziché aspettarlo e Tiberio cercava di apparire chiamato ed eletto dalla repubblica, anziché per le manovre d’una moglie e l’adozione d’un vecchio. In seguito fu chiaro che s’era mostrato incerto per indagare le intenzioni dei notabili; e conservava nella mente espressioni dei volti e parole, interpretandole a loro danno. Il primo giorno non permise si parlasse d’altro che delle esequie di Augusto, il cui testamento, recato dalle Vergini Vestali, designò eredi Tiberio e Livia; questa, adottata nella famiglia Julia, assumeva il titolo di Augusta; come secondi eredi, i nipoti e pronipoti, in terzo luogo i cittadini più eminenti, che per la maggior parte gli erano invisi, ma per ostentazione e gloria presso la posterità. Lasciò poi legati all’uso dei privati, tranne che settantacinque milioni di sesterzi alla plebe e al popolo, mille nummi ciascuno ai militari delle coorti pretoriane, cinquecento ciascuno a quelli delle coorti urbane, trecento ai legionari e alle milizie dell’Urbe. Poi si parlò delle onoranze funebri. Le più solenni parvero quelle proposte da Asinio Gallo, che il feretro passasse sotto l’arco trionfale e, secondo Lucio Arrunzio, lo precedessero i titoli delle leggi emanate e i nomi dei popoli vinti. Valerio Messalla aggiunse la proposta che si rinnovasse ogni anno il giuramento a Tiberio, al che questi gli chiese: te l’ho forse suggerito io? e quello a protestare d’averlo detto di testa sua, ché anzi per tutto ciò che riguardava lo Stato non si sarebbe mai valso d’altra opinione che della propria, anche a rischio di offendere: la sola forma di adulazione che mancava. I senatori poi a una voce gridarono che il corpo doveva esser portato al rogo su le loro spalle. Cesare acconsentì con misurata alterigia e con un editto ammonì il popolo che non si avventurasse, com’era accaduto per eccessiva devozione, ai funerali del divo Giulio, a voler cremare la salma di Augusto nel Foro anziché in Campo Marzio, luogo deputato a quest’uso. Il giorno dei funerali si vide uno schieramento di forze a presidio dell’ordine. Ridevano quelli che avevano assistito personalmente – o l’avevano sentito raccontare dai genitori – a quel giorno di servitù ancora acerba o di libertà recuperata in modo infausto, quando l’assassinio del dittatore Cesare era parso ad alcuni un avvenimento nefasto, ad altri invece estremamente fausto: e ora, ci voleva davvero un servizio d’ordine per far sì che si svolgessero senza incidenti le esequie d’un vecchio principe, che governava già da tanto tempo, con gli eredi già al potere! Si fece un gran parlare di Augusto, i più meravigliandosi di cose futili: che fosse morto lo stesso giorno in cui aveva assunto il potere e proprio a Nola, nella stessa casa, nella stessa camera in cui s’era spento suo padre Ottavio. Alcuni celebravano il numero dei suoi consolati, tanti quanti quelli di Valerio Corvo e Caio Mario messi assieme, la potestà tribunicia esercitata ininterrottamente per trentasette anni, il titolo d’imperatore ottenuto ventuno volte e altri onori, ripetuti e nuovi. Le persone di giudizio lodavano o criticavano in vario modo la sua esistenza: per alcuni era stato spinto alla guerra civile dalla devozione verso il padre e dalla situazione della repubblica, nella quale in quel momento non c’era legge che vigesse e, del resto, le guerre civili non si possono né preparare né combattere con mezzi legali. Dicevano che aveva fatto molte concessioni sia ad Antonio sia a Lepido pur di vendicarsi su gli assassini del padre. Mentre questo invecchiava nell’inerzia, quello degenerava nei piaceri, non vi fu altro rimedio alle discordie della patria se non il governo di uno solo. E tuttavia non aveva retto la repubblica da re o da dittatore, ma con il solo titolo di principe; l’impero aveva avuto per confini l’Oceano e fiumi lontani; legioni, province, flotte, composta insieme ogni cosa, regnava il diritto verso i cittadini, la moderazione verso gli alleati; l’urbe stessa splendidamente abbellita; raramente s’era fatto ricorso alla forza, al fine di assicurare la tranquillità di tutti. Alcuni al contrario dicevano che la devozione verso il padre e la situazione della repubblica erano state un pretesto; che per avidità di potere mediante largizioni aveva sollevato i veterani, ancora adolescente e semplice privato aveva adunato un esercito, corrotto le legioni del console, simulando d’esser sostenitore del partito di Sesto Pompeo. Poi, quando – a seguito d’un decreto del Senato – aveva usurpato i fasci e i diritti del pretore, caduti Irzio e Pansa, uccisi dal nemico, oppure Pansa per un veleno iniettato nella ferita, Irzio per mano dei suoi soldati per una trama ordita da chi si era impadronito degli eserciti di entrambi. Estorse il consolato, benché il Senato fosse contrario, volse contro la repubblica le armate tolte ad Antonio; la proscrizione dei cittadini, le spartizioni dei campi non furono lodate neppure da quelli che le eseguirono. Fossero pure Cassio e i due Bruti immolati all’odio del padre, benché sia sacro dovere rinunziare agli odii privati per il bene pubblico, ma Pompeo fu ingannato con una parvenza di pace, Lepido sotto il velo dell’amicizia; quanto poi ad Antonio, adescato con l’accordo di Brindisi e di Taranto e le nozze con la sorella, pagò con la morte quella insidiosa parentela. Indubbiamente, dopo questi fatti vi fu pace, ma grondante sangue: le sconfitte di Lollio e di Varo e a Roma le uccisioni di Varrone, Egnazio e Julo. Né ci si asteneva dai fatti privati: la moglie portata via a Nerone e consultati per ischerno i pontefici, se potesse sposarsi secondo il rito una donna che aveva concepito ma non ancora partorito; le dissipazioni di Q. Tedio e di Vedio Pollione; e infine Livia, madre funesta per la repubblica, matrigna funesta per la casa dei Cesari. Non aveva lasciato nulla per le onoranze agli dèi, mentre aveva voluto esser adorato nei templi da flàmini e sacerdoti nell’aspetto d’un dio. Tiberio, inoltre, non l’aveva assunto a successore per affetto o sollecitudine verso la repubblica, ma avendone intuito la boria e la crudeltà, aveva voluto procurarsi gloria attraverso un paragone ignobile. Pochi anni prima, infatti, quando aveva chiesto al Senato di conferire la potestà tribunicia a Tiberio per la seconda volta, benché nel suo discorso gli facesse onore, s’era lasciato sfuggire qualche allusione alle maniere, alla condotta e ai costumi di lui che sembrava volerlo scusare, ma in realtà lo riprovava. Comunque, celebrate le esequie secondo il costume, ad Augusto furono decretati un tempio e culto divino.»

TACITO, ANNALI, I, 6-11

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