Publio Elio Adriano nacque nel 76 d.C., forse in Baetica, a Italica (come Traiano, di cui era cugino, sebbene non sia certa la parentela; la madre Domizia Paolina o la madre del nonno paterno erano in qualche modo imparentati con Ulpia, zia di Traiano), forse a Roma. Tuttavia Traiano, ammalatosi, decise solo nei suoi ultimi giorni di adottare Adriano e quindi designarlo come suo erede. La lettera che procedeva all’adozione di Adriano era tra l’altro firmata da Plotina, moglie di Traiano e datata 9 agosto del 117. L’imperatore, ammalato, avrebbe infatti designato il giorno precedente Adriano come suo successore, e soltanto l’11 agosto, giorno della morte di Traiano, il suo pronipote sarebbe venuto a conoscenza di essere il suo erede. 

Il nuovo imperatore era infatti in quel momento in Siria come governatore della provincia e tornò a Roma solo nel 118. Sebbene avesse combattuto per molto tempo, l’indole di Adriano era diversa: decise di abbandonare le conquiste oltre l’Eufrate, che sembravano impossibili da mantenere a meno di un forte dispendio di uomini e risorse e dedicò la sua attenzione al mantenimento delle frontiere: tra queste opere può ricondursi il celebre vallo di Adriano, in Britannia. Adriano a differenza di Traiano ama l’arte, l’oriente, la filosofia: si fa costruire una splendida villa a Tivoli, dove può vivere al meglio il suo otium, e viaggia ovunque; raramente staziona in Italia e quando lo fa sta nella sua villa di Tivoli. Gira l’impero in lungo e in largo, per dodici dei suoi ventuno anni di regno, dove cura l’amministrazione delle province e si dedica totalmente alla cultura greca.

Un imperatore giusto e amante dell’arte

Adriano invitò Lucio Salvio Giuliano, consolare e giurista, a raccogliere gli editti dei pretori, formando un primo corpus legislativo romano. Le iniziative che toglievano potere ai padroni nei confronti degli schiavi, che non potevano più condannare senza un processo, né vendere liberamente come gladiatori, uniti ai dubbi di molti senatori sulla successione (restii alle politiche meno espansionistiche), portò ad alcuni complotti, che Adriano risolse mandando a morte quattro consolari, tra cui Lusio Quieto, consolare e comandante della cavalleria maura sotto Traiano e uno dei fautori delle sue vittorie militari, già nel 118, condannati in absentia:

«Riuscì a sfuggire ad un complotto che Nigrino – che pure Adriano aveva designato come proprio successore – aveva ordito, con la complicità di Lusio e di molti altri, per assassinarlo mentre stava compiendo un sacrifìcio. A motivo di esso, per ordine del senato ma contro il volere di Adriano (come dice egli stesso nella sua Autobiografia), furono soppressi Palma a Terracina, Celso a Baia, Nigrino a Faenza e Lusio mentre si trovava in viaggio. Allora Adriano, per cancellare la pessima fama che si era fatto per aver permesso che in una sola volta fossero messi a morte quattro consolari, si recò immediatamente a Roma, dopo aver affidato il governo della Dacia a Turbone, insignito – perché fosse accresciuta la sua autorità – del rango proprio della prefettura d’Egitto; e, onde far tacere le voci negative che circolavano su di lui, appena arrivato concesse al popolo un congiario doppio, dopo che già, quando era ancora lontano, aveva fatto distribuire a ciascun cittadino tre aurei. Volle anche scusarsi in senato di quanto era avvenuto, e giurò che mai avrebbe in futuro punito un senatore se non dopo un voto espresso dal senato stesso.»

Historia Augusta, Adriano, 7, 1-4

Adriano cercò di togliersi di dosso l’immagine di imperatore anti-senatorio, senza tuttavia riuscirci del tutto; promise anche che non avrebbe mai più reso alcun danno a un senatore, ma nel 137 fece uccidere il cognato Lucio Giulio Urso Serviano e il nipote Fusco, rei di aver ordito una congiura nei confronti del principe adottato, Lucio Elio Cesare. Inoltre il rapporto col senato venne incrinato dalla divisione in quattro zone dell’Italia, affidata a quattro consolari, che ne amministravano la giustizia, sottraendola di fatto ai senatori. Adriano amava particolarmente la cultura greca, tanto da farsi nominare arconte di Atene, città cui diede anche alcuni monumenti come l’arco e il foro. Ma soprattutto amava Antinoo, che portò con sè nei suoi viaggi, e che trovò la morte tragicamente in Egitto, annegato nel Nilo. Gli avrebbe poi dedicato una città, Antinoopoli.

« Adriano indossava spesso vesti molto dimesse, portava la cintura senza finiture d’oro, usava come fermaglio una fibbia senza gemme, aveva l’impugnatura della spada a malapena d’avorio; andava a visitare i soldati malati nei loro quartieri, sceglieva il luogo adatto per l’accampamento, concedeva il grado di centurione solo a uomini gagliardi e di buona reputazione, né creava uno tribuno se non avesse già una folta barba o un’età tale da poter essere all’altezza, per maturità e per anni, del duro impegno richiesto dal tribunato, e vietò che i tribuni accettassero alcunché dai soldati; bandì da ogni parte ogni forma di rilassatezza, e infine rinnovò l’armamento e l’equipaggiamento dei soldati. »

HISTORIA AUGUSTA, ADRIANO, 10, 5-7

Durante i suoi viaggi, dal 121, al 132, che ricoprirono la grossa parte del suo principato, ispezionò gli accampamenti e le esercitazioni militari nei confini di ogni angolo d’impero, dalla Germania alla Britannia, dall’Africa all’Egitto, al Danubio. Fece edificare anche un vallo di 80 miglia in Britannia per regolare la frontiera:

«Successivamente, attraverso l’Asia Minore e l’arcipelago, navigò alla volta dell’Acaia e, sull’esempio di Ercole e Filippo106, si fece iniziare ai misteri Eleusini, fu largo di donazioni nei confronti degli Ateniesi e sedette, ai giochi, in qualità di agonoteta. E dicono che in Acaia non passò inosservato il fatto che, nonostante la presenza ai sacrifici di molte persone munite di coltello, Adriano vi partecipava senza alcuna scorta armata. Poi si recò per mare in Sicilia, e là salì sull’Etna per vedere il sorgere del sole che, a quanto si dice, vi appare in una varietà di colori, come un arcobaleno. Di lì si recò a Roma, donde passò in Africa e fu prodigo di benefici a favore delle province africane. Né forse alcuno degli imperatori ebbe a viaggiare con tale rapidità per tanta parte del mondo. Ritornato infine, dopo l’Africa, a Roma, immediatamente partì per l’Oriente passando per Atene, ove inaugurò le opere che aveva iniziato presso gli Ateniesi, come il tempio di Giove Olimpio e un altare dedicato a se stesso, e, analogamente, proseguendo il viaggio attraverso l’Asia, consacrò dei templi intitolati al suo nome. Poi prelevò di tra i Cappadoci degli schiavi per utilizzarli nel servizio agli accampamenti. Invitò ad incontri amichevoli i governatori e i re, e tra essi anche Osdroe, il re dei Parti, a cui liberò la figlia, fatta prigioniera da Traiano, promettendogli anche la restituzione del trono che parimenti era caduto in mano romana. Ed avendo alcuni re accolto l’invito di recarsi da lui, egli fece loro un’accoglienza tale da far sì che quelli che non erano voluti andare ebbero a pentirsene, spinto a ciò dall’atteggiamento di Farasmane, che con sprezzante superbia aveva ignorato il suo invito. E nel corso di questo suo giro per le province, inflisse punizioni così severe a procuratori e presidi colpevoli di reati, che si era giunti a pensare che egli stesso istigasse gli accusatori.»

HISTORIA AUGUSTA, ADRIANO, 13, 1-10

L’imperatore si fece anche costruire, a partire dal 118, un’enorme villa 28 km a est di Roma, nei pressi di Tivoli, nota come Villa Adriana, e completata solo nei suoi ultimi anni di principato. Adriano stesso non potè abitarci stabilmente prima del 134, alla fine dei suoi lunghi viaggi che caratterizzeranno il suo principato. La villa fu la più grande mai realizzata nell’Antica Roma. Aurelio Vittore narra che «sull’esempio delle legioni dell’esercito, aveva riunito in coorti operai, scalpellini, architetti e tutti i tipi di lavoratori specializzati per la costruzione e la decorazione delle mura» (Epit. de Caes. 14, 5). D’altra parte l’imperatore aveva viaggiato in lungo e in largo anche per ripristinare l’antica disciplina militare, come sottolinea l’Historia Augusta.

Architettonicamente la villa rappresentava le più moderne concezioni dell’epoca, prese dai lavori di Apollodoro di Damasco, autore della Colonna Traiana e del Pantheon, con un uso spinto di cupole, tanto da far dire al famoso architetto che Adriano aveva una passione per le zucche. Oltre a questo si fece un grande uso di marmi policromi e affreschi, denotando un lusso superiore alla media dei tempi.

«Adriano fece costruire con eccezionale sfarzo una villa a Tivoli dove erano riprodotti con i loro nomi i luoghi più celebri delle province dell’impero, come il Liceo, l’Accademia, il Pritaneo, la città di Canopo, il Pecile e la valle di Tempe; e per non tralasciare proprio nulla, vi aveva fatto raffigurare anche gli inferi.»

Historia Augusta, Vita Hadriani, XXVI, 5

Cassio Dione narra di forti screzi tra l’imperatore e l’architetto Apollodoro, che avrebbe partecipato alla costruzione della villa; quest’ultimo gli contestava le decisioni troppo ardite e l’uso eccessivo di cupole. Anzi, i diverbi sarebbero sfociati nella decisione di Adriano di eliminarlo. Tuttavia questo racconto, che è narrato dal solo Dione, appare agli storici moderni sostanzialmente privo di fondamento, non essendo corroborato da altre fonti, e inquadrabile più che altro in una narrazione di Adriano “antisenatoria”. D’altra parte l’imperatore non aveva avuto rapporti idilliaci con i padri coscritti: tra i suoi primi atti mise a morte alcuni consolari.

La villa aveva bisogno di un grande numero di schiavi per funzionare: per questo una rete di quasi 5 km di cunicoli scorre al di sotto, permetteva alla servitù di svolgere i suoi compiti; gli schiavi avevano poi stanze alte fino a 12 metri dove riposavano, separati dalla villa principale e più in basso. Ma nonostante questo sono state rinvenute tombe di schiavi lungo il perimetro della struttura, come quella di Germana, balia di Adriano, denotando dunque una considerazione per la condizione schiavile superiore a quanto ci si aspetterebbe (d’altra parte Adriano aveva anche abolito la possibilità di condannare a morte uno schiavo se non attraverso un processo pubblico).

Completata la splendida villa Adriana, nuovi problemi si profilavano all’orizzonte: una terza rivolta giudaica. La guerra, svoltasi tra il 132 e 135, aveva alla sua origine l’avversione per alcune pratiche ebraiche come la circoncisione, che non era conciliabile con gli ideali di bellezza greci. A capo della rivolta c’era Simone Bar Kochba, cioè “il figlio della Stella”, (ovvero il “Messia“, mentre i suoi oppositori lo chiamavano “bar Koziba“, cioè “il figlio della menzogna”). La guerra fu durissima, la legio XXII Deitoraiana sparì (e anche la IX Hispana, che stazionava in Britannia, ma non si sa se ci siano collegamenti con la guerra giudaica). L’ultima battaglia, nei pressi di Gerusalemme, in cui perse la vita Simone, fu un massacro; il Talmud ricorda che i romani uccisero moltissimi giudei e che i cavalli annegavano nel sangue, che arrivava fino alle narici. Cinquanta fortezze rase al suolo, quasi 1.000 villaggi distrutti e centinaia di miglia di morti, sono i dati riportati. Gerusalemme fu distrutta e ricostruita come Colonia Elia Capitolina, con un cardo e un decumano e un tempio di Giove, e iniziò la diaspora del popolo ebraico.

«Aveva una grande passione per la poesia e la letteratura, ed era espertissimo di aritmetica, geometria, pittura. Dava inoltre apertamente saggio della sua perizia nell’arte di suonare e cantare. Nei piaceri sensuali non conosceva misura: e molti componimenti in versi scrisse sulle persone oggetto dei suoi amori. Aveva poi una grande perizia nel campo delle armi e una profonda competenza nell’ambito della strategia militare: e sapeva pure maneggiare le armi da gladiatore. Era ad un tempo serio e gioviale, affabile e contegnoso, sfrenato e controllato, avaro e generoso, schietto e simulatore, crudele e mite, e sempre in ogni cosa mutevole.

Adriano aspirava a tal punto a raggiungere una vasta fama che consegnò ai suoi liberti provveduti di un’istruzione letteraria i libri in cui aveva scritto la sua autobiografia, dando loro disposizione perché li pubblicassero sotto i loro nomi; ché, a quanto si dice, anche i libri di Flegonte, sarebbero in realtà di Adriano. Scrisse ad imitazione di Antimaco un’opera molto oscura intitolata Catacannae. Al poeta Floro, che gli scriveva:

«Io non voglio essere Cesare

vagolare tra i Britanni

〈appiattarmi……….,〉

scitico gelo patire».

rispose: «Io non voglio essere Floro

vagolare tra i tuguri

appiattarmi nelle bettole

grasse zanzare patire».

Amava inoltre lo stile arcaico. Declamò controversie. Preferiva Catone a Cicerone, Ennio a Virgilio, Celio a Sallustio, e con la stessa iattanza trinciava giudizi su Omero e Platone. Si considerava tanto esperto nell’astrologia che al più tardi al primo di gennaio aveva già scritto ciò che gli sarebbe accaduto nel corso di tutto l’anno: fu così che l’anno in cui morì aveva messo per iscritto tutto ciò che avrebbe fatto, sino all’ora della sua morte. Per quanto egli fosse sempre pronto a criticare i musici, i tragici, i comici, i grammatici, i retori, gli oratori, tuttavia conferì onori e ricchezze a tutti i maestri di tali arti, pur non mancando di provocarli continuamente sollevando nuove questioni. E, mentre proprio lui faceva sì che molti lasciassero la sua presenza mortificati, diceva che gli dispiaceva profondamente vedere triste qualcuno. Fu in rapporto di grande amicizia con i filosofi Epitteto e Eliodoro e, tralasciando di fare il nome di ciascuno, con grammatici, retori, musici, geometri, pittori, astrologi: fra tutti gli altri, a quanto dicono in molti, aveva un posto particolare Favorino. I maestri che apparivano non all’altezza del loro compito, li esonerava dall’esercizio della loro professione, non senza aver prima dispensato loro ricchezze ed onori. »

HISTORIA AUGUSTA, ADRIANO, 14, 8-11; 16, 1-11

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Adriano, l’imperatore filoelleno
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