Il 7 gennaio del 49 a.C. il senato inviava un senatus consultum ultimum, un vero e proprio ultimatum, a Cesare. Quest’ultimo avrebbe dovuto deporre il comando dell’esercito gallico e rientrare a Roma come privato cittadino, dove lo attendeva con ogni probabilità un processo. Gli veniva anche negato di concorrere per il consolato in assenza. Nei giorni precedenti Marco Antonio, tribuno della plebe, aveva tentato in ogni modo di osteggiare la decisione del senato, finendo per dover scappare da Roma e rifugiarsi da Cesare in Emilia. Il senato infatti aveva preso la decisione di affidarsi completamente a Pompeo, considerato tutore della libertà repubblicana, mentre Cesare tergiversava nei pressi del Rubicone con la sola legio XIII, al confine del pomerium, il confine sacro e inviolabile in armi, esteso per l’ultima volta pochi anni prima da Silla.

Dopo alcuni giorni di tentennamenti Cesare decise infine di attraversare il Rubicone e dichiarare guerra al senato, pronunciando la celebre frase: “Alea iacta est”.

«Egli [Cesare] dichiarò in greco a gran voce a coloro che erano presenti: ‘sia lanciato il dado’ e condusse l’esercito.»

(Plutarco, Vita di Pompeo, 60 2.9)

La frase latina, tramandata da Svetonio, è probabilmente muta della o finale, andata persa nei manoscritti medievali. Sarebbe stata infatti: “iacta alea esto”, ossia “che si lanci il dado” e non “il dado è tratto”. L’ipotesi, già azzardata da Erasmo da Rotterdam, converrebbe con il passo di Plutarco “ἀνερρίφθω κύβος” (anerrìphtho kybos), ovvero “sia lanciato il dado”. Sarebbe stata una citazione di una commedia di Menandro, l’Arreforo.

« […] pretendere che [Cesare] tornasse nella sua provincia, mentre [Pompeo] manteneva le sue province e le legioni che non gli appartenevano; imporre che Cesare congedasse l’esercito, e continuare invece per sé gli arruolamenti; promettere che Pompeo si sarebbe recato nella sua provincia, senza però fissare la data della partenza, in modo tale che, se non fosse partito una volta terminato il proconsolato di Cesare, non si poteva accusarlo di non aver mantenuto la promessa. »

Cesare, De bello civili, I, 11

«Quando dunque gli fu riferito che si era ignorato il veto dei tribuni e che questi avevano lasciato Roma, Cesare, mandate avanti immediatamente alcune coorti – in sordina perché non sorgessero sospetti -, per darla ad intendere presenziò ad uno spettacolo pubblico, esaminò il progetto di una scuola di gladiatori che intendeva costruire, e, secondo il solito, partecipò ad un affollato convito. Poi, dopo il tramonto del sole, aggiogati ad un carro due muli presi da un vicino mulino, si avviò nel massimo segreto, con piccola scorta. Anzi, dato che, a luci spente, aveva perso la strada, dopo aver vagato a lungo, finalmente, all’alba, trovato uno che gli fece da guida, continuò la marcia a piedi per stretti sentieri. Raggiunte le sue coorti al fiume Rubicone, che segnava il confine della sua provincia, per un poco indugiò, e, meditando quanto gravi eventi stesse preparando, si rivolse ai suoi e disse: «Possiamo ancora tornare indietro: se attraverseremo quel piccolo ponte, si dovrà decidere tutto con le armi». Mentre egli esitava, gli capitò questo prodigio: improvvisamente gli apparve un uomo di eccezionale corporatura e bellezza, seduto lì accanto, che sonava il flauto; ad ascoltarlo accorsero dei pastori, ma anche moltissimi soldati, tra cui dei trombettieri; quello, allora, pigliato a uno di questi lo strumento, balzò verso il fiume, diede gran fiato alla tromba in segno di guerra, e si avviò verso la riva opposta. Allora Cesare: «Andiamo dove ci chiamano i segni celesti e l’iniquità degli avversari». E aggiunse: «Il dado è tratto». Così, fatto passare l’esercito, ricevuti i tribuni della plebe, che, cacciati da Roma, lo avevano raggiunto, in un’adunata generale, piangendo e stracciandosi la veste sul petto, fece appello alla lealtà dei soldati. Si crede addirittura che abbia promesso ad ognuno il censo di cavaliere; ma ciò ebbe origine da un equivoco. In realtà, mentre parlava e li esortava, mostrò ripetutamente il dito della mano sinistra e dichiarò che, per compensare tutti quelli grazie ai quali egli potesse difendere la sua dignità, senza rimpianti si sarebbe privato anche dell’anello; ma i soldati più lontani, che più facilmente potevano vederlo parlare che sentirlo, presero per veramente detto quello che immaginavano basandosi sulla vista; e si diffuse la voce che Cesare avesse promesso il diritto all’anello, con quattrocentomila sesterzi. La cronologia e la sintesi delle imprese che dopo di allora compì, sono queste. Occupò il Piceno, l’Umbria e l’Etruria; ridotto in suo potere Lucio Domizio, che frettolosamente era stato nominato suo successore e teneva Corfinio con una guarnigione, lo lasciò libero di andarsene; poi, lungo il mare Adriatico, puntò su Brindisi, dove si erano rifugiati Pompeo e i consoli per passare al più presto al di là del mare. Dopo avere invano tentato di impedirne l’imbarco con tutti i possibili ostacoli, ripiegò su Roma. Qui convocò i senatori per puntualizzare la situazione politica; poi attaccò le più agguerrite truppe di Pompeo, che erano in Spagna sotto i tre luogotenenti Marco Petreio, Lucio Afranio e Marco Varrone: aveva prima dichiarato ai suoi che andava contro un esercito senza capo e che sarebbe ritornato contro un capo senza esercito. E, sebbene ne rallentassero l’azione l’assedio di Marsiglia – che, lungo il viaggio, gli aveva chiuso le porte in faccia – e la gravissima scarsezza di viveri, ciò nonostante in breve sistemò ogni cosa. Dalla Spagna tornò a Roma, passò poi in Macedonia, bloccò per quasi quattro mesi Pompeo con opere d’assedio formidabili, e infine lo sbaragliò nella battaglia di Farsàlo e lo inseguì ad Alessandria dove quello si era rifugiato. E come apprese che era stato ucciso, affrontò una difficilissima guerra contro il re Tolomeo, da cui egli vedeva che si tendevano insidie anche contro di sé. La posizione e la stagione erano avverse: era inverno ed egli si trovava, privo di ogni mezzo e impreparato, entro le mura di un nemico attrezzatissimo e ingegnosissimo. Vittorioso, lasciò il regno d’Egitto a Cleopatra e a suo fratello minore, non azzardandosi a farne una provincia romana, per timore che, quando avesse un governatore troppo audace, divenisse esca di rivoluzione. Da Alessandria passò in Siria e di là nel Ponto: lo sollecitavano certe notizie su Farnace, figlio di Mitridate il Grande: approfittando delle circostanze, quello si era messo in guerra ed era ormai imbaldanzito da molteplici successi. Cesare, entro il quinto giorno da quando era arrivato, quattro ore dopo averlo affrontato, lo debellò in una sola battaglia; e spesso ricordava la fortuna di Pompeo, a cui la massima gloria militare era venuta da una così imbelle categoria di nemici. Poi sbaragliò Scipione e Giuba – che in Africa rianimavano i resti del partito pompeiano – e i figli di Pompeo in Spagna.»

Svetonio, Cesare, 31-35

Pompeo, incredibilmente, decise di ritirarsi e non affrontare Cesare in Italia. Aveva infatti molte conoscenze e clientele in oriente dopo la guerra contro i pirati, trasformatasi ben presto in una spedizione di annessione di molte province orientali, a cui poteva chiedere aiuto. Era semplicemente convinto che le enormi risorse che possedeva in denaro e uomini avrebbero vanificato ogni tentativo di Cesare, ma si sbagliava. Già l’anno seguente Cesare vinceva a Farsalo e Pompeo, in fuga in Egitto, veniva ucciso per ordine del faraone Tolomeo XIII.

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Alea iacta est – Il dado è tratto
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