«Dopo l’uccisione di Vario Eliogabalo (così infatti preferiamo chiamarlo piuttosto che «Antonino», dal momento che quella peste non mostrò alcuna delle qualità proprie degli Antonini, e questo nome gli fu cancellato, per volere del senato, dagli Annali), salì al trono, per la salvezza del genere umano, Aurelio Alessandro, nato ad Arca Cesarea, figlio di Vario, nipote di Varia e cugino dello stesso Gabalo, il quale già in precedenza – cioè dopo la morte di Macrino – aveva ricevuto dal senato il titolo di Cesare; ricevette dunque l’appellativo di Augusto, e, in aggiunta, gli fu concesso da parte del senato di assumere in un solo giorno il titolo di padre della patria, l’autorità proconsolare e la potestà tribunizia, nonché il privilegio di proporre in senato all’ordine del giorno fino a cinque argomenti.»

(Historia Augusta, Alessandro Severo, 1, 1-3)

Alessandro era nato a Arca Cesarea (nel Libano), il 1 ottobre del 208. Era figlio di Giulia Mamea, sorella di Giulia Soemia, ed era dunque cugino diretto di Eliogabalo. Associato a lui come Cesare, gli successe dopo il suo assassinio. Il senato, in via straordinaria, visti i disastri combinati dal cugino, gli concede in un’unica soluzione tutti i poteri imperiali.

Imperatore amato dal senato

«Vietò che lo si chiamasse «signore». Ordinò che gli si scrivesse allo stesso modo che ad un privato, mantenendo solo l’appellativo di imperatore. Abolì dalle calzature e dalle vesti le gemme di cui aveva fatto uso Eliogabalo. Indossava, così come viene raffigurato, una veste bianca senz’oro, e mantelli e toghe comuni. Con gli amici viveva in un tale rapporto di familiarità, che spesso si fermava a sedere con loro, andava ai loro pranzi e alcuni, poi, li riceveva a casa sua ogni giorno, anche senza invito; riceveva le visite di saluto come uno qualsiasi dei senatori, a tende aperte e senza personale di cerimonia o solo alla presenza di quello che faceva servizio alle porte; ai ladri, però, non era concesso di salutare il principe, giacché non ne sopportava la vista.»

(Historia Augusta, Alessandro Severo, 4, 1-3)

Alessandro si dispose fin da subito con animo benevolo nei confronti del senato, da cui fu molto amato, per i suoi modi sobri e rispettosi. Prima di prendere ogni decisione consultava inoltre un collegio di sedici padri coscritti, e non la ratificava mai se non mancava il consenso unanime. Tuttavia l’influenza della madre, Giulia Mamea, sul giovane Alessandro, si fece sentire:

«Quando Alessandro ascese al trono, ebbe soltanto il titolo imperiale e le forme esteriori del potere, ma l’amministrazione dello stato e l’iniziativa di ogni decisione erano in mano alle donne. Queste, in verità, cercavano di seguire in ogni campo criteri saggi e onesti. In primo luogo scelsero sedici senatori, eminenti per l’età veneranda e la vita intemerata, affinché fossero collaboratori e consiglieri del principe; né alcuna deliberazione veniva promulgata e applicata senza che costoro l’avessero in precedenza vagliata e accolta. Il nuovo governo era gradito al popolo e ai soldati, ma soprattutto al senato, in quanto si allontanava dall’assolutismo tirannico, ispirandosi ai principî aristocratici.»

(Erodiano, Storia dell’impero romano dopo Marco Aurelio VI, 1, 1-2)

Le donne a corte avevano un potere immenso, in continuità con quanto avvenuto sotto Eliogabalo; la famiglia siriana aveva preso le redini del governo, senza tuttavia riuscire a comprendere che il potere a Roma si fondava sull’esercito, e che il suo supporto non era evitabile. Tuttavia, il governo di Alessandro fu moderato, e in ambito civile fu il migliore dai tempi di Marco Aurelio:

«Governò infatti per ben quattordici anni senza versare sangue innocente; anche quando giudicava su colpe gravissime, egli non comminava la pena di morte, comportandosi in ciò molto diversamente da tutti gli altri successori di Marco, fino ai nostri tempi. Nessuno potrebbe ricordare, sotto il governo di Alessandro, che pure durò tanti anni, un uomo ucciso senza processo.»

(Erodiano, Storia dell’impero romano dopo Marco Aurelio VI, 1, 7)

Le campagne militari

Ben diversamente si comportò Alessandro in guerra. Non aveva alcuna esperienza militare e l’influenza materna ebbe effetti deleteri su di lui; pare che la madre facesse di tutto per evitare che combattesse, anche quando sarebbe stato necessario per ottenere il supporto dell’esercito. Alessandro fu infatti costretto a recarsi in oriente, dove i parti arsacidi erano stati rovesciati dal persiano Ardashir (Artaserse), che aveva dato via alla dinastia sasanide:

«Quando Alessandro, che era rimasto a Roma, fu informato degli attacchi lanciati dai barbari sul confine orientale, considerò necessario reagire; e poiché anche i governatori di quelle province chiedevano il suo intervento, si preparò, sebbene molto malvolentieri, alla partenza. Dunque in tutto l’impero, e nella stessa Italia, si raccoglievano soldati, scegliendo gli uomini che sembravano piú adatti al combattimento per vigore fisico e per età. Tutto il mondo romano era entrato in grande attività per mobilitare una forza pari a quella che si attribuiva ai barbari. Alessandro, avendo riunito i soldati che si trovavano presso Roma, e avendo ordinato che si recassero tutti nel consueto luogo9, salí sulla tribuna, e parlò in questo modo: «Avrei voluto, commilitoni, rivolgervi le parole consuete, che allieterebbero voi e farebbero bello il mio discorso: poiché, infatti, per tanti anni avete goduto della pace, sentendo ora annunciare che la situazione è mutata potreste turbarvi come per una notizia inattesa. Ma, se agli uomini forti e saggi è concesso desiderare il meglio, conviene che essi fronteggino ogni eventualità; infatti, quanto è dolce il godere gli svaghi, tanto è glorioso vincere le difficoltà. Chi dà principio alle offese, si mette dalla parte del torto; ma chi respinge l’aggressore trova il coraggio nella sua buona coscienza, e ha ragione di sperare per il fatto stesso che non commette ingiustizie, ma se ne difende. Il persiano Artaserse, avendo ucciso il suo signore Artabano, e avendo trasferito ai Persiani la supremazia, dispregia ormai anche le vostre armi e la gloria dei Romani; sicché tenta di saccheggiare e di devastare il territorio dell’impero. Dapprima ho tentato, con la diplomazia e la persuasione, di convincerlo a desistere da questa folle avidità delle cose altrui; ma quello, trascinato dalla sua barbarica violenza, non vuol rimanere nei suoi confini, e ci sfida a battaglia. Non indugiamo, dunque; non perdiamo tempo; ma i piú anziani tra voi si ricordino dei trofei che tante volte elevarono dopo aver vinto i barbari, agli ordini di Severo e di mio padre Antonino; e i giovani dimostrino, adoperandosi per acquistare una fama gloriosa, che sanno vivere in pace con disciplina, ma, se necessario, sanno battersi in guerra con valore. I barbari, come sapete, si imbaldanziscono contro chi teme e si arrende; ma se qualcuno fa resistenza perdono il loro impeto, poiché non hanno niente da sperare in una battaglia campale, a parità di condizioni, e solo mediante le incursioni e le fughe pensano di poter trarre un utile dal bottino rapinato. Noi abbiamo invece il vantaggio della tattica e della disciplina, e abbiamo imparato a vincerli sempre». Quando Alessandro ebbe pronunciato queste parole, tutto l’esercito lo acclamò, dimostrando in tal modo il suo desiderio di combattere. Egli, avendo distribuito un generoso donativo, ordinò di preparare la spedizione; quindi si presentò al senato, e fece un discorso del medesimo tenore; infine stabilí la data della partenza.»

(Erodiano, Storia dell’impero romano dopo Marco Aurelio VI, 3, 1-7; 4, 1)

Arrivati a dover combattere però, Alessandro titubò, forse pressato dalla madre; per i romani fu una disfatta:

«I tre eserciti avevano ricevuto l’ordine di spingersi il piú avanti possibile, ed era stato definito il luogo in cui dovevano riunirsi, schiacciando tra loro tutto ciò che incontravano. Senonché Alessandro, venendo meno alla sua parola, non fece avanzare le sue truppe e non prese l’offensiva; forse il timore lo distolse dal mettere a rischio la sua vita per l’impero romano; oppure lo trattenne la madre per femminile viltà, e per eccessivo amor materno. Ella infatti soleva smorzare tutti i suoi impulsi di coraggio, convincendolo che altri dovevano cimentarsi per lui, e il suo intervento era inopportuno. Questo portò alla rovina l’esercito romano che era entrato nel territorio nemico. Il Persiano infatti piombò con tutte le sue forze su questo esercito, e lo chiuse come in una rete. Le frecce lanciate da tutte le parti produssero gravi perdite fra i Romani, che essendo poco numerosi non potevano resistere a una cosí grande moltitudine; e il loro unico pensiero non era di combattere, bensí di salvarsi, riparando con gli scudi le parti del corpo indifese, esposte al tiro delle frecce. Infine si riunirono tutti in un sol luogo, e formarono un baluardo, allineando intorno a sé gli scudi. Combattevano dunque come degli assediati; e resistettero valorosamente per quanto fu possibile, bersagliati e colpiti da ogni parte, finché non morirono tutti. Questa fu per i Romani una sconfitta gravissima, di cui non è facile ricordare l’eguale; fu distrutto un forte esercito, che non era inferiore per addestramento e coraggio ad alcuno degli antichi; e un successo di tale portata imbaldanzí il Persiano, inducendolo a sperare maggiori trionfi.»

(Erodiano, Storia dell’impero romano dopo Marco Aurelio VI, 5, 8-10)

Morte

Nel frattempo i germani minacciavano i confini e, reputandoli un pericolo ben maggiore per l’Italia, Alessandro decise di affrontarli, lasciando l’esercito orientale a contenere i persiani, per lui sufficiente. Ma, nonostante avesse portato con sé arcieri parti e cavalieri mauri, oltre ad aver organizzato l’esercito per combattere, decise di intavolare trattative diplomatiche, evitando ancora una volta lo scontro. I soldati, esasperati, non ne poterono più ed elessero loro imperatore Massimino, comandante delle reclute:

«Alessandro aveva in tal modo disposto le operazioni; tuttavia gli sembrò opportuno inviare al nemico ambasciatori e intavolare trattative di pace. Prometteva di dar loro quanto avessero chiesto, e di prodigare le sue ricchezze. Questo è, per i Germani, un argomento assai persuasivo; poiché sono molto desiderosi di arricchirsi, e sempre mercanteggiano con i Romani la pace a peso d’oro. Alessandro preferiva contrattare con essi la tregua anziché cimentarsi in una guerra. Ma i soldati mal sopportavano questo indugio, che consideravano inutile, e si sdegnavano perché Alessandro non tentava di compiere imprese gloriose sul campo di battaglia; si distraeva invece fra le corse equestri e i piaceri, mentre urgeva prendere l’offensiva e punire i Germani della loro tracotanza.»

(Erodiano, Storia dell’impero romano dopo Marco Aurelio VI, 7, 9-10)

Per Alessandro fu la fine, abbandonato da tutti. Era il marzo 235; aveva regnato per tredici anni:

«V’era nell’esercito un tale Massimino, nato nell’interno della Tracia da famiglia in parte barbarica. Si diceva che da fanciullo fosse vissuto in un villaggio facendo il pastore; da giovane era stato preso nella cavalleria per la sua eccezionale forza fisica; e poi la fortuna lo aveva fatto a poco a poco procedere per tutti i gradi della carriera militare, finché gli fu affidato il comando di un accampamento, e in seguito il governo di una provincia. A causa dell’esperienza bellica che da ciò risultava, Alessandro aveva affidato a Massimino il comando di tutte le nuove leve, affinché le addestrasse al servizio e le rendesse atte a combattere. Questi adempiva l’incarico molto coscienziosamente, e si era guadagnato la simpatia dei soldati, perché non si limitava a insegnar loro ciò che dovevano fare, ma dava per primo l’esempio in ogni cosa: sicché essi non erano soltanto suoi allievi, ma si sentivano imitatori ed emuli del suo valore. Egli inoltre si procacciava la loro simpatia con premi e con promozioni. Pertanto i giovani, fra cui erano in maggioranza i Pannoni, ammiravano il valore di Massimino e schernivano Alessandro perché dominato dalla madre; dicevano che il governo era diretto dall’arbitrio di una donna, e che egli si comportava, nei riguardi della guerra, da vile e da incapace. Ricordavano, nelle loro conversazioni, le sconfitte subite in Oriente per la sua inerzia; e notavano che, fronteggiando i Germani, non aveva compiuto nessun gesto di valore, quale poteva attendersi da un giovane. Essi erano per natura disposti alla ribellione, e consideravano gravoso il governo di Alessandro, perché durato ormai troppo a lungo. Ritenevano che egli avesse già esaurito le proprie ambizioni, e per loro non vi fosse piú nulla da guadagnare. Invece, se vi fosse stato un mutamento dinastico, essi avrebbero avuto maggiori speranze di guadagno; e un nuovo principe, salito al potere d’improvviso, sarebbe stato piú ambizioso e piú attivo. Decisero dunque di eliminare Alessandro, proclamando imperatore e Augusto Massimino, che era loro commilitone e compagno, e sembrava per il suo valore e la sua esperienza piú atto a dirigere la guerra in corso. Pertanto, un giorno che si trovavano riuniti nella spianata, armati come per i consueti esercizi, all’arrivo di Massimino lo avvolsero nella porpora imperiale e lo acclamarono imperatore. È incerto se egli fosse venuto senza saper nulla, oppure avesse tutto predisposto in segreto; comunque in un primo tempo si oppose e gettò via la porpora. Ma poiché quelli lo incalzavano con le spade sguainate, minacciando di ucciderlo, preferí affrontare un pericolo futuro salvandosi da quello imminente, e accettò la nuova dignità (che del resto, com’egli andava dicendo, gli era stata piú volte preannunziata in passato da oracoli e sogni). Dichiarò ai soldati che egli accettava obbedendo al loro desiderio, ma contro la propria volontà; e ordinò loro di confermare con i fatti la decisione presa, brandendo le armi e marciando rapidamente su Alessandro per coglierlo alla sprovvista prima che egli fosse informato. Cosí, piombando repentinamente sui soldati che erano con lui e sulle guardie del corpo, li avrebbero potuti attrarre alla propria causa; oppure li avrebbero facilmente sopraffatti, trovandoli inermi, e impreparati. Per meglio assicurarsi la benevolenza e lo zelo delle reclute, raddoppiò gli stipendi, promise un ingente donativo, condonò tutte le pene, e cancellò le degradazioni. Quindi ordinò di mettersi in marcia: il luogo dove erano attendati Severo e la sua scorta si trovava a breve distanza. Quando Alessandro ricevette queste notizie, rimase attonito per la sorpresa, e fu colto da grande spavento. Balzato fuori come un folle dalla tenda imperiale, cominciò a versare lacrime e a tremare, rinfacciando a Massimino l’ingratitudine e il tradimento, e ricordando tutti i benefici di cui l’aveva colmato; accusava le reclute di aver osato un gesto temerario e infame; prometteva che avrebbe concesso tutto ciò che chiedevano, e avrebbe modificato le cose di cui si lagnavano. I soldati che erano con lui lo acclamarono e gli si riunirono intorno, promettendo che lo avrebbero difeso con tutte le forze. Trascorsa la notte, alle prime luci dell’alba vennero alcuni uomini ad annunciare che Massimino stava arrivando; si scorse da lungi una nuvola di polvere, e si udirono le grida di una moltitudine. Uscito di nuovo all’aperto Alessandro chiamò i soldati, e chiese loro di combattere per salvare colui che era cresciuto fra loro, e sotto il cui governo avevano vissuto quattordici anni senza aver nulla di cui dolersi. Esortando tutti ad aver pietà di lui, ordinava di armarsi e di fronteggiare gli assalitori. I soldati cominciarono a fare promesse, ma si astennero dal prendere le armi, e a poco a poco si dileguarono. Alcuni anzi cercarono il prefetto al pretorio e gli amici di Alessandro, con l’intenzione di ucciderli; per avere un pretesto affermavano che quelli erano i responsabili della rivolta. Altri poi accusavano la madre di cupidigia e di avarizia, affermando che aveva suscitato l’odio contro Alessandro con la sua grettezza e la sua riluttanza a concedere donativi. Per un po’ di tempo rimasero in attesa, lanciando grida contrastanti; poi apparve l’esercito di Massimino, e le reclute cominciarono a gridare, esortando i compagni ad abbandonare una donnetta avara e un fanciullo vile, ligio alla madre, per schierarsi con un soldato valoroso e saggio, che aveva passato tutta la vita fra le armi e le battaglie, ed era un loro commilitone. I soldati furono presto convinti, e lasciarono Alessandro mettendosi agli ordini di Massimino, che fu salutato imperatore da tutti. Alessandro, scoraggiato e tremante, ritornò a stento nella tenda; ivi, come si racconta, si strinse alla madre piangendo e accusandola di aver provocato la sua rovina. Cosí rimase ad aspettare che qualcuno venisse a ucciderlo. Massimino, acclamato Augusto da tutto l’esercito, mandò un tribuno e alcuni centurioni a uccidere Alessandro, sua madre, e chiunque, fra i loro fedeli, volesse difenderli. Gli inviati, appena giunti, irruppero nella tenda e uccisero Alessandro con sua madre; caddero anche tutti quelli che venivano ritenuti suoi amici o consiglieri, eccettuati alcuni che per poco erano riusciti a fuggire o a nascondersi. Tuttavia Massimino in breve tempo li ritrovò tutti, e li mise a morte.»

(Erodiano, Storia dell’impero romano dopo Marco Aurelio VI, 8, 1-8; 9, 1-7)

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