Quando venne aperto da Antonio il testamento di Cesare scoprì che il suo erede era un suo pronipote, il neo figlio adottivo del defunto dittatore, Gaio Ottavio – divenuto pertanto Gaio Giulio Cesare Ottaviano -, che riceveva i 3/4 dell’eredità, mentre Marco Antonio era secondo anche ai cugini di Ottaviano Lucio Pinario e Quinto Pedio, venendo dopo in linea di successione perfino al cesaricida Decimo Giunio Bruto, che aveva convinto Cesare ad andare in senato quella mattina funesta. Ottaviano, reclutate legioni con veterani di Cesare, attaccò insieme ai consoli Irzio e Pansa Antonio, che nel 43, decaduto da console, assediava Decimo Bruto a Modena, a cui contendeva la provincia, poiché secondo il luogotenente di Cesare la scelta di quest’ultimo era decaduta in quanto Decimo Bruto era un cesaricida. Ottaviano ebbe la meglio, Irzio e Pansa morirono in battaglia o per le ferite riportate (o forse con lo zampino dell’erede di Cesare) e potè dunque prendersi il consolato:

« A vent’anni Ottaviano prese il consolato, facendo avanzare minacciosamente le sue legioni verso Roma e inviando quei [soldati] che chiedessero per lui a nome dell’esercito; quando il Senato sembrò esitante, il centurione Cornelio, capo della delegazione, gettando indietro il suo mantello e mostrando l’impugnatura del suo gladio, non esitò a dire nella Curia: “Se non lo farete [console] voi, questa [spada] lo farà”. Per dieci anni fece parte del triumvirato, creato per dare un nuovo ordine alla Repubblica: come suo membro cercò inizialmente di impedire che si iniziassero le proscrizioni, ma quando esse cominciarono si mostrò più spietato degli altri due. […] lui solo si batté in modo ostinato affinché non venisse risparmiato nessuno, arrivando a proscrivere anche C. Toranio, suo tutore, che era stato, inoltre, collega di suo padre come edile. […] più tardi si pentì di questa sua ostinazione e promosse al rango di cavaliere T. Vinio Filopomeno, che sembra avesse nascosto il suo padrone, quando era proscritto»

SVETONIO, AUGUSTO, 26-27

Dal triumvirato all’impero

«Per dieci anni fece parte del triumvirato per la riorganizzazione dello Stato. In esso, per qualche tempo veramente resistette ai colleghi perché non si facessero proscrizioni, ma, una volta iniziate, le esercitò più spietatamente degli altri due. In effetti, mentre quelli, dinanzi a molte personalità, si mostravano spesso arrendevoli alle influenze e alle preghiere, lui solo insistette molto perché non si risparmiasse nessuno, e arrivò a proscrivere il suo tutore Gaio Toranio, che per giunta era stato collega di suo padre Ottavio nella carica di edile. Giulio Saturnino riferisce in più anche questo, che allorché, conclusa la proscrizione, Marco Lepido in Senato giustificava il passato e prospettava una speranza di clemenza per il futuro giacché si era punito abbastanza, lui al contrario dichiarò di aver fissato come limite alle proscrizioni il momento in cui avesse completamente mano libera. Ciò nonostante, in compenso di tanta ostinazione, onorò più tardi con la dignità di cavaliere Tito Vinio Filopèmene, perché si diceva che a suo tempo avesse tenuto nascosto il suo patrono proscritto. Durante l’esercizio di questa stessa magistratura accese molti odii contro di sé. Una volta, mentre teneva un discorso alle truppe – e c’era presente anche una folla di civili – notò che un certo Pinario, cavaliere romano, prendeva furtivamente qualche appunto; allora, ritenendolo un curioso o una spia, lo fece ammazzare seduta stante. A Tedio Afro, console designato, per aver criticato con parole maligne un suo atto, incusse tanta paura con le sue minacce, che quello si buttò giù nel vuoto. Il pretore Quinto Gallio durante la cerimonia del saluto teneva sotto la toga un dittico di tavolette; Augusto sospettò che nascondesse un’arma; ma, non osando sul momento indagare oltre, perché non si trovasse dell’altro, lo fece poco dopo da centurioni e soldati trascinare via dal tribunale e sottoporre a tortura come uno schiavo; non confessò nulla, ma egli lo fece uccidere dopo avergli cavato gli occhi di sua mano. Veramente, egli scrive che Gallio, chiestogli un colloquio, aveva attentato alla sua vita, per cui lo aveva gettato in prigione; poi lo aveva rilasciato interdicendogli però la capitale; e quello era perito per naufragio o per un attacco di pirati. Ricevette la potestà tribunizia a vita: in essa, una prima e una seconda volta si aggregò per cinque anni un collega. Gli attribuirono anche la sovrintendenza ai costumi e alle leggi, anch’essa a vita. Con questa prerogativa, anche senza la carica di censore, fece però tre volte il censimento della popolazione, il primo e il terzo con un collega, il secondo da solo.»

SVETONIO, AUGUSTO, 27

Nel novembre successivo Ottaviano, ottenuto il peso politico e la credibilità necessaria, strinse un patto costituzione di riforma della repubblica, il secondo triumvirato, con Marco Emilio Lepido e Marco Antonio. A sancirlo fu la lex Titia, ratificata il 27 novembre 43 a.C. I tre triumviri avevano poteri straordinari e al di sopra di chiunque altro. Nonostante pochi mesi prima Antonio accusasse Ottaviano di aver cercato di farlo assassinare, accettò, ma chiese in cambio la testa di Cicerone. Ottaviano non esitò ad accettare. Sconfitti in seguito i cesaricidi a Filippi, in Grecia, nel 42 a.C., i meriti di Antonio in battaglia e l’anzianità gli permisero di avere tutto l’oriente e la Gallia, Lepido, il più anziano, ebbe la Spagna e l’Africa. Ottaviano riuscì ad avere solo l’Italia, con cui sperava di controllare il senato e i veterani di Cesare.

Dopo la vittoria di Filippi Marco Antonio spese l’inverno a Efeso, una delle più importanti città dell’Asia minore, dedicandosi a dissolutezze di ogni tipo, inclini alla sua natura. Antonio aveva ricevuto l’Egitto e la Gallia in virtù della sua anzianità e del suo prestigio, ma anche perchè avrebbe dovuto condurre la campagna partica che stava preparando Cesare. Antonio si era poi stabilito a Tarso, in Cilicia, in una posizione ottima per iniziare la campagna partica. Tuttavia aveva bisogno del supporto egizio e specialmente del grano; Cleopatra inoltre non aveva risposto a nessuna delle lettere che gli aveva inviato. Allora Antonio inviò ad Alessandria Quinto Delio, con l’ordine di scortare la regina da lui. La regina infine si mosse e lo seguì. I due si trovavano entrambi a Tarso ma aspettavano l’uno l’arrivo dell’altro. La regina infatti si ostinava a sostenere che dovesse essere il triumviro a dover andare da lei e non viceversa. E alla fine Antonio cedette, andando sulla nave della regina tolemaica.

Rinnovato con il trattato di Taranto del 38 a.C. il triumvirato per altri cinque anni, Antonio iniziò la campagna partica nel 36 a.C., non senza qualche difficoltà, con i romani costretti a ritirarsi inseguiti dai nemici. Infatti Ottaviano non gli aveva ancora inviato le legioni promesse, asserendo che gli servissero contro Sesto Pompeo che era venuto meno ai patti di Brindisi. Nel giro di poco Ottaviano prese anche la Sicilia e sottrasse l’Africa a Lepido, divenendo padrone di tutto il Mediterraneo occidentale. Nel frattempo sia Ottavia che Cleopatra erano rimaste incinta, dandogli dei figli. Antonio, d’altra parte, aveva praticamente ripudiato e relegato ad Atene la moglie Ottavia, sorella di Ottaviano.

Antonio era distrutto dopo la spedizione partica, era passato dal voler essere un nuovo Alessandro a temere di essere un nuovo Crasso. La regina tolemaica lo dissuase dal riprendere le ostilità nel 35 a.C. e Antonio si rinchiuse in Alessandria. Nel 34 ebbe luogo la vendetta contro gli armeni, con una campagna più modesta, che però non levò l’onta della sconfitta partica. Antonio non chiese il trionfo, che festeggiò invece ad Alessandria, come un novello Dionisio e non come magistrato romano. Ancora meglio, decise pubblicamente, nel Ginnasio, vicino la tomba di Alessandro Magno, in veste di Dionisio-Osiride (Cleopatra era la sua Iside) di donare le province orientali a Cleopatra, Tolomeo Cesare (Cesarione, il figlio avuto con Cesare) e i tre figli avuti con lei tutti i possedimenti romani in oriente.

Il 3 settembre 36 a.C. Agrippa vinceva la flotta di Sesto Pompeo a Nauloco, in Sicilia. Infatti quest’ultimo teneva in ostaggio i rifornimenti di grano per Roma, dove risiedeva Ottaviano, che chiese aiuto ad Antonio. Il triumviro gli fornì 120 navi in cambio di 20.000 legionari. Fu così che Agrippa poté passare al contrattacco; Ottaviano invece non partecipò agli scontri. Racconta infatti Svetonio (Augusto, 16) che: «al momento di combattere, [Ottaviano] fu preso da un colpo di sonno così profondo che i suoi amici faticarono molto per svegliarlo, affinché desse il segnale d’attacco. Per questo motivo Antonio, lo credo io [Svetonio], aveva tutte le sue buone ragioni per rimproverarlo, sostenendo che egli non avesse avuto neppure il coraggio di osservare una flotta schierata a battaglia, al contrario di essere rimasto sdraiato sul dorso con gli occhi rivolti al cielo, terrorizzato, rimanendo in quella posizione, senza presentarsi ai soldati, fino a quando Agrippa non mise in fuga la flotta nemica.» Lo storico romano aggiunge anche che la vittoria, ottenuta grazie all’arpagone che permise ai soldati di Agrippa di combattere come a terra (una sorta di rivisitazione del corvo delle guerre puniche) e che riportò la Sicilia sotto l’egida di Roma (Pompeo, fuggito in oriente, venne ucciso), era stata predetta ad Ottaviano (Augusto, 96): «Il giorno prima dello scontro navale in Sicilia, mentre passeggiava sulla riva, un pesce saltò fuori dall’acqua e cadde ai suoi piedi.»

Nel frattempo anche Lepido aveva perso ogni potere politico, mantenendo la sola carica di pontifex maximus. Il casus belli furono, nel 33 a.C., allo scadere del triumvirato (non più rinnovato), le donazioni di Alessandria, con cui Antonio dava ai figli suoi e di Cleopatra territori appartenenti alla repubblica e soprattutto il testamento di Antonio, rubato e letto in senato, in cui chiedeva di essere seppellito a Alessandria e donare territori della repubblica ai suoi figli. Lo scontro avvenne ad Azio, in Grecia, il 2 settembre del 31 a.C. Nonostante la superiorità numerica Agrippa riuscì a battersi ad armi pari, finché Cleopatra si diede alla fuga e Antonio la seguì: l’esercito di Antonio e tutte le sue legioni si arresero e passarono dalla parte di Ottaviano. L’anno seguente Ottaviano entrò a Alessandria e trovò Antonio e Cleopatra morti.

«Augusto assunse cariche ed onori anche prima del tempo legale, alcune poi nuove ed a vita. Si pigliò il consolato a diciannove anni, avvicinando a Roma minacciosamente le sue legioni e inviando chi lo chiedesse per lui a nome dell’esercito; e poiché il Senato si mostrava esitante, il centurione Cornelio, capo della delegazione, gettò indietro il mantello, mostrando l’impugnatura della spada, e non esitò a dire in piena Curia: «Lo farà questa, se non lo farete voi». Esercitò il secondo consolato dopo nove anni, e il terzo con l’intervallo di un solo anno; i successivi, fino all’undicesimo, tutti di séguito. Dopo averne rifiutati molti che gli venivano conferiti, chiese egli stesso, dopo un lungo intervallo – erano trascorsi diciassette anni – il dodicesimo, e, due anni dopo, il tredicesimo: voleva accompagnare nel Foro rivestito della suprema magistratura i due figli Gaio e Lucio per il loro tirocinio, ciascuno a suo turno. I cinque consolati centrali – dal sesto al dodicesimo – li esercitò per tutto l’anno, gli altri, invece, o per nove mesi, o per sei o per quattro o per tre; il secondo, poi, per pochissime ore: il primo di gennaio sedette per un po’ sul seggio curule dinanzi al tempo di Giove Capitolino, poi rinunciò alla carica, mettendo un altro al suo posto. Non tutti i consolati inaugurò a Roma: il quarto in Asia, il quinto nell’isola di Samo, l’ottavo e il nono a Tarragona.»

SVETONIO, AUGUSTO, 26

Ottaviano sciolse molte legioni e congedò i veterani (ne aveva ormai oltre 60). Ne restarono 28, ridotte a 25 dopo il disastro di Teutoburgo nel 9 d.C. (la XVII, XVIII e XIX non furono più ricostrute). Aveva il comando di tutte le legioni esistenti e le pagava direttamente (Cesare aveva stabilito un salario fisso, rimasto invariato fino all’età di Domiziano). La leva fu fissata a 16 anni più 4 come “riserve”, ma fu poi costretto ad aumentarla, non senza resistenze, a 25 (20 di leva e 5 di riserva). La maggior parte delle entrate fiscali (convogliate più o meno direttamente nelle casse “private”) servivano a pagare l’esercito.

«Sebbene il popolo gli offrisse con grande insistenza la dittatura, egli, piegato in ginocchio, tiratasi giù dalle spalle la toga e denudatosi il petto, supplicò di non addossargliela. Respinse sempre con orrore, come un insulto infamante, l’appellativo di padrone. Una volta, mentre egli assisteva allo spettacolo, poiché in un mimo era stata recitata l’espressione: O giusto e buon padrone! tutti quanti, come se fossero pienamente d’accordo che il verso si riferisse a lui, applaudirono esultanti; Augusto prima frenò quelle indecorose adulazioni con la mano e con il volto, poi, l’indomani, le redarguì con un durissimo comunicato. Da allora non tollerò di essere chiamato padrone nemmeno dai suoi figli o nipoti, né sul serio né per gioco, e vietò simili piaggerìe anche tra loro stessi.»

svetonio, augusto, 52-53

Rimasto solo, Ottaviano rimise tutti i poteri, ritornando formalmente ad essere un privato cittadino. Dal 30 al 23 a.C. ricoprì ininterrottamente il consolato, motivo per cui i senatori decisero, dopo il suo rifiuto a prendere il consolato o la dittatura perpetua, a trovare una soluzione. Nel 27 a.C. il senato gli attribuì il titolo di Augustus. Sommati a una serie di poteri straordinari (l’imperium proconsulare maius, ossia il comando militare assoluto, il titolo di princeps senatus, la possibilità di parlare per primo in senato), ottenne sostanzialmente il potere assoluto sebbene da privato cittadino (anche se gli veniva dato quasi annualmente il consolato). Nel 23 a.C. ricevette l’ultimo potere che legittimava la sua “superiorità”: una tribunicia potestas a vita, che gli permetteva di essere sacro e inviolabile come i tribuni della plebe e gli concedeva la possibilità di porre il veto a qualunque azione del senato. Inoltre, alla morte di Lepido assunse il titolo di pontefice massimo, in modo da essere la massima autorità religiosa. Infine nel 2 a.C. ottenne il titolo di pater patriae.

“Due volte Augusto pensò di restaurare la repubblica: una prima volta sùbito dopo fiaccato Antonio, ricordando che da questo gli era stato ripetutamente rinfacciato che dipendeva proprio da lui il fatto che essa non fosse restaurata; poi, di nuovo, perché stanco di una lunga malattia. In questa occasione, anzi, convocate le autorità e il Senato in casa sua, consegnò loro un rendiconto finanziario dell’impero. Ma, considerando che come privato cittadino egli sarebbe stato sempre in pericolo, e che era rischioso affidare lo Stato all’arbitrio di più persone, continuò a tenerlo in pugno lui. Non si sa se con migliore risultato o con migliore intenzione. Questa intenzione egli non solo la sbandierò di tanto in tanto, ma una volta giunse a proclamarla in un comunicato ufficiale: «Vorrei proprio che mi fosse possibile rimettere al suo posto sana ed indenne la repubblica, e godere il frutto che io cerco di questa restaurazione, di essere detto cioè fondatore di un ottimo Stato, e di portare con me, morendo, la speranza che rimangano salde le fondamenta dello Stato, quali io avrò gettato». Ed egli stesso fu realizzatore del suo voto, sforzandosi in ogni modo a che nessuno avesse a dolersi della nuova situazione. La città non era adorna in proporzione della sua maestà, ed era esposta a inondazioni e ad incendi: ebbene, egli la abbellì a tal punto che giustamente si potè gloriare di lasciarla di marmo, mentre l’aveva ricevuta di mattoni. E, per quanto una mente umana poteva prevedere, la rese sicura anche per l’avvenire.”

SVETONIO, AUGUSTO, 28

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