«Forte di tanti e tali riconoscimenti e ricompense, ai tempi di Claudio divenne tanto famoso che, dopo che quello fu morto, e anche suo fratello Quintillo venne ucciso, resse da solo l’impero, essendo stato eliminato Aureolo, con il quale Gallieno aveva fatto pace. Su questo punto fra gli storici, in particolare quelli greci, si riscontra una grande varietà di opinioni, per cui alcuni sostengono che Aureolo fu ucciso da Aureliano contro la volontà di Claudio, altri per incarico e volere di questo, altri che fu ucciso da Aureliano quando questi era già diventato imperatore, altri invece quando era ancora un privato.»

(Historia Augusta, Aureliano, 16, 1-2)

Alla morte di Gallieno era diventato imperatore uno dei primi imperatori illirici, Claudio II il Gotico, che aveva ottenuto il suo soprannome infliggendo una sconfitta devastante ai goti; tuttavia anche lui era morto ben presto, ma caso quasi unico nel III secolo, era stato portato via dalla peste e non da eventi violenti. Gli era succeduto il fratello Quintillo, ma esistono due versioni diverse: in una Aureliano era stato nominato successore da Claudio, e Quintilio ne aveva approfittato per farsi acclamare imperatore, mentre nell’altra Aureliano si era fatto acclamare imperatore con l’appoggio dell’esercito ed era marcito contro Quintillo. In ogni caso durò pochi giorni, stroncato dal ben più energico Aureliano:

«Era di aspetto elegante e fine, di bellezza virile, piuttosto alto di statura, di fortissima muscolatura; eccedeva un poco nel bere vino e nel mangiare, si abbandonava raramente ai piaceri della carne, era molto severo, estremamente rigido in fatto di disciplina, sempre pronto a por mano alla spada. Difatti, essendovi nell’esercito due tribuni di nome Aureliano – il nostro ed un altro, che fu fatto prigioniero assieme a Valeriano – l’esercito gli aveva affibbiato il soprannome di «mano alla spada», così che, se per caso si voleva sapere quale dei due Aureliani aveva fatto una data cosa o condotta una certa operazione, bastava aggiungere «Aureliano mano alla spada» per capire di chi si trattasse.»

(Historia Augusta, Aureliano, 6, 1-2)

Imperatore

Aureliano era esattamente quello di cui l’impero aveva bisogno, un militare di professione, ma che sapesse mettere ordine nel caos in cui era piombata Roma. Era il 270 d.C. e l’impero era ancora diviso, con in oriente Zenobia, moglie di Odenato, a cui era seguita, e in occidente l’impero delle Gallie guidato da Tetrico, che aveva seguito Postumo. Proverbiale di Aureliano era la disciplina, tanto da essere definito dai soldati “manu ad ferrum”, e tanto da far dire a Flavio Volpisco, autore della sua biografia dell’Historia Augusta, che la disciplina che imponeva era di altri tempi, ormai lontani, della storia romana:

“Costui poi era tanto temuto dai soldati, che, una volta che lui aveva punito con grande severità le mancanze commesse in servizio, nessuno di essi vi incorreva più. Fu inoltre l’unico che punì un soldato reo di aver commesso adulterio con la moglie di un ospite, facendolo legare per i piedi alle cime di due alberi piegate verso terra e che tutto d’un colpo egli fece rilasciare, così che quello rimase squartato in due parti che penzolavano da entrambi i lati: il che suscitò in tutti grande spavento. C’è una sua lettera di argomento militare, inviata al suo luogotenente, che suona così: «Se vuoi essere tribuno, anzi se ti preme restar vivo, frena la mano dei tuoi soldati. Nessuno porti via i polli o metta le mani sulle pecore altrui. Nessuno rubi uva o danneggi le messi, o si faccia dare olio, sale, legna, ma si accontenti della propria razione di viveri. Con la preda tolta al nemico, non con le lacrime dei provinciali devono arricchirsi. Le armi siano tirate a lucido, i ferri ben arrotati, i calzari resistenti. Nuove uniformi rimpiazzino quelle vecchie. Tengano la paga nella cintura, anziché spenderla all’osteria. Si mettano pure addosso le loro collane, i loro bracciali, i loro anelli. Provvedano a strigliare il loro cavallo e la bestia da soma, non vendano la razione di foraggio destinata al proprio animale, prendano cura in comune del mulo della centuria. Ciascuno abbia deferenza nei confronti dell’altro come fosse il suo comandante, nessuno però assumendo atteggiamenti servili; siano curati gratuitamente dai medici; non diano nulla agli aruspici; dove ricevono ospitalità si comportino correttamente; chi provocherà delle risse, sia bastonato».”

(Historia Augusta, Aureliano, 7, 3-8)

L’impero all’avvento di Aureliano

Restitutor orbis

«Aureliano intendeva affrontare tutto in una volta l’esercito nemico operando un concentramento delle proprie forze, ma nei pressi di Piacenza ebbe a subire una tale disfatta, che l’impero romano fu lì lì per crollare. All’origine di questa pericolosa sconfitta fu una manovra sleale e scaltra operata dai barbari. Non potendo infatti affrontare lo scontro in campo aperto, si rifugiarono in una fittissima selva e sul far della sera piombarono di sorpresa sui nostri. E così se i barbari non fossero stati atterriti da certi prodigi e apparizioni soprannaturali, grazie al soccorso prestatoci dagli dèi dopo la consultazione dei libri e la celebrazione dei sacrifici, i Romani non avrebbero vinto.»

(Historia Augusta, Aureliano, 21, 1-4)

La prima occupazione di Aureliano furono i barbari che erano dilagati nella pianura padana, perlopiù alemanni, che sconfissero anche l’esercito romano. Ma, carichi di bottino, si divisero in piccoli gruppi per razziare meglio. L’imperatore li colse uno a uno, massacrandoli. Poi decise, con l’accordo del senato, di dare a Roma una nuova cinta muraria, le famose mura Aureliane:

«Dopo questi fatti, rendendosi conto che poteva avvenire che avesse a ripetersi qualcosa sul genere di quanto si era verificato sotto Gallieno, sentito il parere del senato fece allargare le mura della città di Roma. Non fu tuttavia in quell’occasione che ebbe ad estendere il pomerio, ma successivamente. Del resto a nessun imperatore è lecito estendere il pomerio se non a uno che abbia ingrandito l’impero di Roma con una qualche porzione di territorio straniero. Lo avevano esteso Augusto, Traiano, Nerone, sotto il quale furono aggregati al dominio di Roma il Ponto Polemoniaco e le Alpi Cozie.»

(Historia Augusta, Aureliano, 21, 9-11)

Saputa della sconfitta, a Roma ci fu una sollevazione dei monetieri, che al suo arrivo represse malamente, anche nei confronti dei senatori che avevano appoggiato la rivolta. Non solo, Aureliano attuò una riforma monetaria: l’antoniniano, ormai unica moneta d’argento corrente, era solamente bagnato nell’argento. Riportò la sua percentuale d’argento al 5%, tanto che le sue monete recitano XX I: 20 parti di rame per una d’argento.

Subito dopo si recò sul Danubio, dove sconfisse vandali, iutungi e sarmati; pare che poi avesse chiesto l’approvazione all’esercito se fare o meno la pace con i barbari, denotando un rapporto di stima con i soldati unico. Tuttavia, da prammatico qual’era, dopo gli Agri Decumates, abbandonati poco prima, decise anche di abbandonare l’ormai indifendibile Dacia, formandone una nuova provincia di Dacia lungo il corso del Danubio, ma più piccola.

Rimesso ordine in Italia e sul Danubio, fu il turno di Zenobia, che controllava tutto l’oriente. Mentre era in viaggio inflisse una terribile sconfitta ai goti, guadagnandosi il titolo di Gothicus Maximus, mentre all’inizio del 271, grazie al futuro imperatore Probo, riprendeva l’Egitto. Si arrivò allo scontro finale con Zenobia, sconfitta sia a Immae che a Emesa nonostante la fortissima cavalleria catafratta di cui disponeva. Infine, fu presa anche Palmira, e Zenobia venne catturata:

«Dopo ciò, lo scontro decisivo si ebbe in una grande battaglia presso Emesa contro Zenobia e il suo alleato Zaba. E allorquando la cavalleria di Aureliano, ormai stremata, stava già quasi per ripiegare e darsi alla fuga, all’improvviso, per l’intervento di un dio – come in seguito fu rivelato –, una qualche apparizione divina rianimò i soldati, sì che, ad opera dei fanti, anche i cavalieri poterono riprendersi. Zenobia fu messa in fuga assieme a Zaba e fu ottenuta completa vittoria. Riconquistato dunque il dominio stabile sull’Oriente, Aureliano entrò vittorioso ad Emesa e subito si diresse al tempio di Eliogabalo, per sciogliere i voti come in un ringraziamento comune. Ma lì ritrovò quell’immagine divina che aveva visto portargli soccorso in battaglia. Perciò fece erigere in quel luogo dei templi, dotandoli di grandi tesori, e costruì a Roma un tempio in onore del Sole, che consacrò con onori ancor più grandi, come diremo a suo luogo. Dopo questo, mosse alla volta di Palmira, onde por fine, una volta espugnata quella città, alle fatiche della guerra. Ma lungo la strada ebbe a subire molte peripezie, in quanto il suo esercito fu ripetutamente assalito dai predoni siriaci e durante l’assedio corse gravi pericoli, sino ad essere colpito da una freccia. Possediamo una sua lettera indirizzata a Mucapore, nella quale egli parla apertamente, senza i ritegni legati alla sua dignità imperiale, delle difficoltà di questa guerra: «I Romani dicono che io sto conducendo una guerra soltanto contro una donna, come se contro di me combattesse Zenobia da sola e con le proprie forze, e non piuttosto un nemico altrettanto numeroso che se il mio avversario fosse un uomo, essendo però in lei di gran lunga più pericolosa la consapevolezza della sua colpa e il conseguente terrore. Non è possibile descrivere la quantità di frecce, l’apparato bellico, la quantità di giavellotti e di pietre che vi è qui; non vi è alcuna parte delle mura che non sia occupata da due o tre balliste98: ci sono persino apposite macchine per lanciare i proiettili incendiari. Che dire di più? È impaurita come una donna, ma combatte come un uomo che teme la punizione che lo aspetta. Ma credo che gli dèi, che mai hanno fatto mancare il loro soccorso ai nostri sforzi, porteranno aiuto all’impero romano». Alla fine, ormai stremato e fiaccato dagli eventi avversi, mandò a Zenobia una lettera, chiedendone la resa con la promessa di concederle salva la vita; ne riporto qui copia: «Aureliano imperatore di Roma e riconquistatore dell’Oriente, a Zenobia e a tutti gli altri a lei legati da alleanza bellica. Avreste dovuto fare spontaneamente ciò che ora nella mia lettera vi viene comandato. Vi ordino infatti di arrendervi, offrendovi in cambio salva la vita, alla condizione che tu, Zenobia, vada a vivere con i tuoi, là dove io ti manderò secondo il parere dell’illustrissimo senato. Verserete all’erario romano le gemme, l’oro, l’argento, le sete, i cavalli, i cammelli. I Palmireni conserveranno i loro diritti». Ricevuta questa lettera, Zenobia rispose in tono più superbo e insolente di quanto non consigliasse la sua condizione, credo allo scopo di spaventare il nemico. Anche di questa lettera ho riportato qui copia: «Zenobia regina d’Oriente ad Aureliano Augusto. Finora nessuno al di fuori di te mi aveva fatto in una lettera le richieste che tu avanzi. Con il valore bisogna guadagnarsi tutto ciò che si vuole ottenere in guerra. Tu chiedi la mia resa, come se non sapessi che la regina Cleopatra preferì morire piuttosto che vivere in qualsivoglia onore. Non ci mancano gli aiuti persiani, che ormai attendiamo prossimi, abbiamo dalla nostra parte i Saraceni e gli Armeni. I predoni siriaci hanno già battuto il tuo esercito, Aureliano. Che altro? Se dunque arriveranno quelle forze che attendiamo da ogni parte, dovrai di certo deporre l’arroganza con cui ora mi intimi la resa, come se avessi vinto su tutti i fronti». Nicomaco dice che questa lettera fu dettata personalmente da Zenobia e da lui tradotta dalla lingua siriaca in greco. Quella precedente di Aureliano era scritta in greco. Al ricevere questa lettera Aureliano non provò vergogna, ma si infiammò d’ira, e subito, radunato l’esercito e i suoi generali, assediò Palmira da ogni parte e, da quell’uomo valente che era, non lasciò nulla che apparisse incompleto o trascurato. Infatti intercettò i rinforzi inviati dai Persiani, corruppe le milizie ausiliarie saracene e armene e le trasse dalla sua parte un po’ con le maniere forti e un po’ con l’astuzia; alla fine, dopo grandi sforzi, riuscì ad avere ragione di quella donna tanto potente. Zenobia dunque, dopo la sconfitta, mentre fuggiva sui cammelli – che là chiamano dromedari – e si dirigeva verso la Persia, venne catturata dai cavalieri mandati ad inseguirla e consegnata nelle mani di Aureliano.»

(Historia Augusta, Aureliano, 25, 2 – 28,3)

Poco dopo Palmira e l’Egitto si ribellarono, costringendo Aureliano a intervenire nuovamente; stavolta Palmira – era il 273 – fu saccheggiata e distrutta. Subito dopo Aureliano tornò in occidente per affrontare Tetrico, che sconfisse ai Campi Catalaunici. Aureliano aveva riunificato, in meno di cinque anni, un impero sul punto di collassare. Zenobia e Tetrico sfilarono poi nel trionfo di Aureliano, ma furono entrambi risparmiati; Tetrico divenne corrector Lucaniae (o totius Italiae?), mentre Zenobia rimase a Tivoli, dove sposò un senatore romano.

Rientrato a Roma, Aureliano non si dedicò solo alla riforma monetaria, ma anche a quella dell’annona, dando anche la carne di maiale nelle distribuzioni, distogliendo parte del denaro tratto dalle tasse egizie, grazie anche alla riconquista di quelle terre. Infine, convinto che il dio solare lo avesse aiutato nella sua vittoria, introdusse il culto del Sol Invictus, il Sole Invincibile, costruendone il tempio a Roma.

Morte

Mentre preparava la guerra contro i persiani, nel settembre del 275, Aureliano venne però assassinato nei pressi di Bisanzio, per mano dei suoi stessi soldati; il suo segretario, temendo l’inflessibilità dell’imperatore, fece circolare la notizia che voleva uccidere alcuni tra i pretoriani, che gli credettero e lo uccisero:

«Dopo aver provveduto a queste cose, partì per le Gallie e liberò la Vindelicia dall’assedio dei barbari, poi tornò nell’Illirico e, allestito un esercito più forte che numeroso, mosse guerra ai Persiani, che aveva già con grandissima gloria sconfitto anche al tempo in cui aveva vinto Zenobia. Ma durante il viaggio, a Cenofrurio – un luogo di tappa che sta fra Eraclea e Bisanzio – per il tradimento di un suo segretario cadde assassinato per mano di Mucapore. Mi soffermerò brevemente sia sulle cause del suo assassinio sia sulle modalità in cui esso avvenne, onde non abbia a rimanere oscuro un fatto di tale importanza. Aureliano, non lo si può negare, era un principe severo, crudele, sanguinario. Egli, avendo spinto la sua durezza al punto di uccidere anche la figlia di sua sorella senza un motivo grave né sufficientemente giustificato, si era attirato già prima di tutto l’odio dei suoi familiari. Capitò poi – le cose in effetti avvengono per volere del fato – che egli, col minacciarlo in base a non so quali sospetti che aveva su di lui, finisse per suscitare un profondo risentimento nei propri confronti da parte di un certo Mnesteo, che teneva come suo segretario particolare ed era, secondo alcuni, un suo liberto. Mnesteo, poiché sapeva che Aureliano non era solito minacciare invano né, una volta che minacciasse, perdonare, scrisse un elenco di nomi, mescolandovi quelli di persone nei cui riguardi Aureliano era realmente adirato, con quelli di persone verso i quali egli non nutriva alcun sentimento ostile, aggiungendo anche il suo nome, onde far apparire maggiormente fondata la preoccupazione che instillava in loro, e lesse l’elenco a ciascuno di coloro il cui nome era in esso compreso, soggiungendo che Aureliano aveva stabilito di sopprimerli tutti, ma loro, se erano veri uomini, dovevano difendere la propria vita. Essi si eccitarono, per la paura quelli che sapevano di meritare il risentimento dell’imperatore, per lo sdegno quelli che erano innocenti – Aureliano appariva ingrato nei confronti dei benefici e dei servigi che gli avevano reso – e assalito di sorpresa l’imperatore mentre era in viaggio, lo uccisero nel luogo che abbiamo detto sopra.»

(Historia Augusta, Aureliano, 35, 4 – 36,6)

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