Durante il principato di Claudio si verificò un curioso evento, che avrebbe creato uno dei più grandi disguidi della storia. Un gruppo di gladiatori, pronti a combattere, lo salutarono “Ave Caesar! Morituri te salutant”; il saluto, casuale, viene creduto ancora come solito dai più.

L’evento

Quando Claudio fece prosciugare il lago Fucino (per ampliare le terre coltivabili in zona, decise, prima di svuotarlo, di organizzare una naumachia. Tuttavia accadde un increscioso incidente frutto di un disguido: i combattenti gridarono: “Ave imperator, morituri te salutant!“. Claudio, che era un intellettuale, rispose sottilmente: “non è detto”. Quelli che dovevano combattere capirono che erano stati graziati; si scatenò una scenetta semicomica, con l’imperatore, zoppo, che li inseguiva incitandoli a combattere. Alla fine il combattimento si svolse ma il prosciugamento del lago fu un disastro:

«Inoltre, dovendo far prosciugare il lago di Fucino, prima vi fece allestire una naumachìa. Ma, poiché ai combattenti che gli dicevano: «Ave, Cesare, coloro che si accingono a morire ti salutano!», egli aveva risposto: «Non è detto!», nessuno voleva più combattere, deducendo da quella battuta di essere stato graziato. Allora egli, dopo avere esitato a lungo se farli uccidere tutti col ferro e col fuoco, alla fine balzò giù dal suo posto e corse lungo il lago, caracollando in modo alquanto ridicolo, e li spinse a combattere, vuoi con minacce, vuoi con preghiere. In questo spettacolo si affrontarono una flotta sicula e una rodiese, di dodici triremi ciascuna e il segnale di tromba fu emesso da un Tritone d’argento che, grazie ad un congegno meccanico, era emerso dal centro del lago.»

Svetonio, Claudio, 21

La stessa versione è riportata da Cassio Dione in greco secondo cui avrebbero detto: “χαῖρε, αὐτοκράτορ· οἱ ἀπολούμενοί σε ἀσπαζόμεθα“.

« Nello stesso periodo, fu condotto a termine il taglio del monte tra il lago del Fùcino e il fiume Liri; e affinché la grandiosità dell’opera fosse vista da un gran numero di persone, fu allestita una battaglia navale nel lago. Lo stesso aveva fatto una volta Augusto, scavando uno stagno nei pressi del Tevere, ma con natanti di stazza inferiore e con minore dovizia. Claudio armò triremi, quadriremi e diciannovemila uomini e lo spazio fu cinto da zattere, a impedire fughe disordinate, lasciando tuttavia ampiezza sufficiente allo sforzo dei remi, all’abilità dei timonieri, al rapido corso delle navi e alle vicende abituali delle battaglie. Sulle zattere erano imbarcati manipoli delle coorti pretoriane e davanti a loro erano stati costruiti parapetti, dai quali potessero manovrare catapulte e balestre. Il resto del lago era occupato da marinai della flotta, su navi coperte. Le rive, i colli a guisa di teatri erano gremiti d’una folla innumerevole, affluita dai municipi dei dintorni e dalla stessa Roma, per il desiderio di assistere o per omaggio all’imperatore. Questi, che indossava uno splendido paludamento, e poco lontano Agrippina, in clamide dorata, presiedettero allo spettacolo. Il combattimento si svolse tra delinquenti, che tuttavia si batterono con animo da prodi, e solo dopo molte ferite furono esonerati dal proseguire il massacro. Ma quando terminò lo spettacolo e si aprì il canale, fu evidente la negligenza con la quale era stato eseguito il lavoro, perché il letto non era abbastanza profondo rispetto al fondo del lago. Di conseguenza, trascorso qualche tempo, gli scavi furono approfonditi e per attirare ancora una gran folla fu offerto uno spettacolo di gladiatori e furono costruiti ponti per uno scontro di fanti. Presso il punto dove scaturiva l’acqua del lago fu imbandito un banchetto, ma si sparse il terrore in tutti i presenti, perché prorompendo le acque trascinavano via tutto ciò che era dattorno, mentre sconvolgevano quel che si trovava più lontano e il fragore faceva paura. Agrippina si affrettò a sfruttare la paura di Claudio e accusò l’appaltatore dell’opera, Narcisso, di avidità e di profitto illecito. Ma quello non sopportò in silenzio le accuse e le rinfacciò la sua arroganza e le mire troppo alte. »

Tacito, annali, XII, 56-57

La realtà

Di solito i gladiatori si esibivano a coppia; il loro spettacolo era il momento culminante della giornata nell’anfiteatro: alla mattina c’erano le venationes (i combattimenti tra cacciatori e belve), a mezzogiorno le esecuzioni capitali (in questo caso l’arena fungeva da piazza pubblica) e poi nel pomeriggio i combattimenti tra gladiatori. Le condanne a morte potevano essere molto fantasiose, con ad esempio un condannato che interpretava Icaro, con delle ali di cera e veniva lanciato dal punto più alto del Colosseo; si poteva anche essere condannati a combattere come gladiatori.

Avvenivano anche distribuzioni di cibo per gli spettatori che passavano dunque l’intera giornata nell’anfiteatro, distribuiti in settori differenti a seconda del censo, della classe sociale e del sesso: nel Colosseo sedevano nei posti migliori, più in basso e vicini all’arena, l’imperatore, poi i senatori, le vestali, i cavalieri e via via salendo diminuiva il rango sociale, fino ad arrivare alle donne e agli schiavi.

Dunque, giunti al pomeriggio entravano in scena i gladiatori: di solito il numero di coppie, in base ai dati archeologici ed epigrafici, era compreso tra 6 e 12, ma in alcuni casi, come i giochi trionfali di Traiano, si giungeva ad ingaggiarne molti di più. Anche la durata dei munera era variabile: alcuni si concludevano in giornata, altri andavano avanti per settimane. I combattimenti in gruppo (gregatim) in genere riguardavano i condannati a morte.

Questi spettacoli, oltre a seguire regole ben precise (c’era sempre un arbitro – chiamato summa rudis e un assistente- a controllare che il combattimento fosse leale e nelle regole, pronto a dividere la coppia con un bastone, più o meno come accade oggi nel pugilato – paragone ancora più calzante se si considera che i gladiatori combattevano a petto nudo), erano regolamentati anche negli armamenti: gli abbinamenti tra armaturae erano sempre gli stessi.

e quattro armaturae più diffuse erano: i secutores che affrontavano i reziari e i mirmilloni contro i traci. I reziari, i più particolari in assoluto, erano muniti di una rete e un tridente: se catturavano l’avversario questo non aveva scampo; d’altro canto i secutores erano molto mobili e potevano evitare facilmente la rete. I mirmilloni erano i più corazzati, con uno scudo rettangolare e un pesante elmo che però rendeva difficoltosa la vista; i traci avevano la tipica spada ricurva in punta. L’elmo del secutor era simile a quello del mirmillone, ma era sferico e liscio, per far scivolare la rete e non farla rimanere impigliata.

C’erano anche altri tipi di gladiatori, meno diffusi ma non per questo meno particolari: l’oplomaco combatteva come un oplita greco, con scudo rotondo e lancia, e generalmente combatteva con il mirmillone. Il provocator aveva un equipaggiamento simile al mirmillone, ma aveva uno scudo più piccolo e una placca di protezione sul torace. C’erano poi i cavalieri (equites) e gli essedarii (soldati dal carro), ma entrambi combattevano a piedi: i primi con uno scudo tondo, elmo, un pugnale e una tunica (unici gladiatori ad averla); gli essedarii pugnale, scudo ovale ed elmo con paraguance. Provocator, equites e essedarii combattevano in modo simmetrico: sempre contro la loro stessa armatura.

C’era poi il bimachairos (o arbelas), che aveva un’arma offensiva per ogni mano e combatteva generalmente contro il reziario. In epoca repubblicana sono menzionati anche il sannita e il gallo, di cui però non si conosce con esattezza l’equipaggiamento. Gli abbinamenti potevano tuttavia variare: il mirmillone poteva anche combattere col secutor, ad esempio. La lunghezza e la grandezza dell’equipaggiamento inoltre non era standardizzata, come di norma nel mondo antico. Infine, era possibile che ci fossero dei gladiatori scaeva, ossia mancini (cosa impossibile nell’esercito), particolarmente apprezzati da Commodo.

All’inizio del munus si distribuivano tra il pubblico i cosiddetti libelli, degli opuscoli sui gladiatori che sarebbero scesi nell’arena. Prima di ogni combattimento i duellanti venivano presentati per nome e categoria di appartenenza, origini e carriera agonistica. Inoltre si cercava di far combattere gladiatori con la stessa forza e esperienza per rendere il combattimento equilibrato.

Dopo aver verificato che l’equipaggiamento fosse a posto, i gladiatori indossavano l’elmo, le fanfare squillavano e e gli arbitri davano il via al combattimento. A seconda della categoria ci si muoveva più o meno (il trace e il secutor erano più agili), ma comunque i colpi dovevano essere pochi e precisi, sia perché si rischiava di stancarsi presto sia perché ci si poteva esporre troppo.

Non esistevano tempi prestabiliti o pause: era l’arbitro a decidere quando e se queste dovevano avvenire. Inoltre sappiamo che potevano dividere i due lottatori e far riprendere il combattimento ma non sappiamo in basi a quali regole. L’esito prevedeva quattro possibilità: pareggio (stantes missi), morte di uno dei due contendenti, oppure uno dei due chiedeva la resa e poteva essere o ucciso o risparmiato. Il primo esito era il più raro, tuttavia non impossibile: durante l’inaugurazione del Colosseo nell’ 80 d.C. due gladiatori combatterono così a lungo che alla fine chiesero entrambi la resa, nello stesso momento, ottenendola.

Generalmente il combattimento, però, si concludeva con la richiesta di resa all’arbitro di uno dei due gladiatori; i motivi potevano essere i più disparati, forse erano feriti, stanchi, disarmati etc. L’organizzatore (e nel caso del Colosseo l’imperatore) doveva decidere, mentre il pubblico chiedeva di graziare o uccidere il gladiatore arreso che, se aveva combattuto bene, di solito otteneva di aver salva la vita. In caso contrario il vincente uccideva il perdente, di solito con un colpo diretto al cuore. In base ai dati archeologici ed epigrafici sappiamo che nel I secolo l’80% degli incontri terminava con la grazia per il perdente, percentuale che diminuì drasticamente nel III secolo, diventando grossomodo la metà. A partire da Augusto furono comunque vietati i combattimenti sine missio, ossia all’ultimo sangue. E’ possibile, infine, che le armi non fossero appuntite ma solo affilate, per evitare una fine rapida dello scontro: in alcuni casi si fa riferimento infatti a dei permessi per usare armi “appuntite”.

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