Gaio Ottavio, nato nel 63 a.C., fu il primo imperatore romano. Figlio di Gaio Ottavio e Azia Maggiore (figlia di Giulia Minore, sorella di Cesare e Marco Azio Balbo). Dunque pronipote di Cesare, seguì il dittatore in Spagna durante la guerra civile nonostante la cagionevole salute.

Entrato subito nelle grazie del prozio, scoprì di essere, all’apertura del testamento di Cesare, il primo erede con i tre quarti del patrimonio, scavalcando Marco Antonio che credeva di essere il primo a livello di successione. Inoltre veniva adottato per testamento dal defunto dittatore, diventando Gaio Giulio Cesare Ottaviano.

Il secondo triumvirato

Lo scopo del diciannovenne Ottaviano fu fin da subito quello di vendicare il padre adottivo; per questo utilizzò interamente l’enorme patrimonio ottenuto per guadagnarsi la fiducia dei veterani e allestire legioni. Arrivato a Roma dopo l’amnistia e la fuga dei cesaricidi, ebbe subito rapporti tesi con Antonio che non digeriva di essere stato scavalcato da un ragazzino.

Nonostante la perdita di tempo di Antonio, che chiedeva una lex curiata per far ratificare il testamento (anche se aveva già fatto ratificare tutte le leggi di Cesare quando era stata concessa l’amnistia), Ottaviano anticipò la somma da donare al popolo romano di sua tasca.

Impero_Romano

Cicerone vedeva nel giovane Ottaviano una pedina da manipolare; cosa che gli fu fatale. Il futuro imperatore, dopo aver ottenuto un imperium propretorio (secondo solo ai consoli Aulo Irzio e Vibio Pansa) e arruolato legioni di veterani cesariani di sua tasca, sconfisse Antonio a Forum Gallorum e Modena il 14 e 21 aprile del 43 a.C., mentre quest’ultimo assediava Modena cercando di applicare la permutatio provinciarum che gli dava per legge il proconsolato della Cisalpina (in precedenza di Decimo Bruto).

«Ma poiché in questa guerra Irzio perì sul campo di battaglia e Pansa poco dopo in séguito a una ferita, si diffuse la voce che entrambi avesse eliminato lui, per restare da solo al comando degli eserciti vittoriosi, una volta che Antonio fosse stato costretto alla fuga, e lo Stato fosse privo dei due consoli. Almeno la morte di Pansa fu tanto sospetta, che il medico Glicone fu arrestato con l’accusa di aver versato del veleno sulla ferita. Aquilio Nigro aggiunge che Irzio, l’altro console, fu ucciso da Augusto stesso nella mischia della battaglia.»

(Svetonio, Augusto, 11)

Morti entrambi i consoli in battaglia (Pansa fu forse avvelenato o comunque ucciso da Ottaviano), il neanche ventenne Ottaviano decise di marciare su Roma per farsi dare, con le armi, il consolato. Consolato che ottenne e divise col cugino Quinto Pedio, secondo in linea di successione nel testamento di Cesare.

Nel novembre successivo Ottaviano, ottenuto il peso politico e la credibilità necessaria, strinse un patto costituzione di riforma della repubblica, il secondo triumvirato, con Marco Emilio Lepido e Marco Antonio. I tre triumviri avevano poteri straordinari e al di sopra di chiunque altro. Nonostante pochi mesi prima Antonio accusasse Ottaviano di aver cercato di farlo assassinare, accettò, ma chiese in cambio la testa di Cicerone. Ottaviano non esitò ad accettare.

« A vent’anni prese il consolato, facendo avanzare minacciosamente le sue legioni verso Roma e inviando quei [soldati] che chiedessero per lui a nome dell’esercito; quando il Senato sembrò esitante, il centurione Cornelio, capo della delegazione, gettando indietro il suo mantello e mostrando l’impugnatura del suo gladio, non esitò a dire nella Curia: “Se non lo farete [console] voi, questa [spada] lo farà”. Per dieci anni fece parte del triumvirato, creato per dare un nuovo ordine alla Repubblica: come suo membro cercò inizialmente di impedire che si iniziassero le proscrizioni, ma quando esse cominciarono si mostrò più spietato degli altri due. […] lui solo si batté in modo ostinato affinché non venisse risparmiato nessuno, arrivando a proscrivere anche C. Toranio, suo tutore, che era stato, inoltre, collega di suo padre come edile. […] più tardi si pentì di questa sua ostinazione e promosse al rango di cavaliere T. Vinio Filopomeno, che sembra avesse nascosto il suo padrone, quando era proscritto»

(Svetonio, Augustus, 26-27)

La guerra civile

Sconfitti i cesaricidi a Filippi, in Grecia, nel 42 a.C., i meriti di Antonio in battaglia e l’anzianità gli permisero di avere tutto l’oriente e la Gallia, Lepido, il più anziano, ebbe la Spagna e l’Africa. Ottaviano riuscì ad avere solo l’Italia, con cui sperava di controllare il senato e i veterani di Cesare.

Marco Antonio nel 41 a.C. era in una posizione di assoluta forza, ma tergiversò, perdendo tempo dopo aver conosciuto Cleopatra. I comandanti delle legioni fedeli ad Antonio in Occidente morirono o comunque passarono dalla parte di Ottaviano, che prese possesso della Gallia e poi anche della Spagna. In seguito stroncò, grazie ad Agrippa, la rivolta in Sicilia di Sesto Pompeo.

Infatti, con il trattato di Brindisi, nel 40 a.C., dopo che Antonio aveva cercato di appoggiare Sesto Pompeo e i soldati di entrambi gli schieramenti si erano rifiutati di combattere, si divisero la repubblica in questo modo: a Ottaviano Gallia, Illirico, Spagna e Italia, a Lepido l’Africa e Antonio l’Oriente, compresa la Macedonia. Essendo morta la moglie di Antonio, Fulvia, concordarono un matrimonio tra la sorella di Ottaviano, Ottavia e Antonio, che Cleopatra non gradì affatto.

«Per dieci anni fece parte del triumvirato per la riorganizzazione dello Stato. In esso, per qualche tempo veramente resistette ai colleghi perché non si facessero proscrizioni, ma, una volta iniziate, le esercitò più spietatamente degli altri due. In effetti, mentre quelli, dinanzi a molte personalità, si mostravano spesso arrendevoli alle influenze e alle preghiere, lui solo insistette molto perché non si risparmiasse nessuno, e arrivò a proscrivere il suo tutore Gaio Toranio, che per giunta era stato collega di suo padre Ottavio nella carica di edile. Giulio Saturnino riferisce in più anche questo, che allorché, conclusa la proscrizione, Marco Lepido in Senato giustificava il passato e prospettava una speranza di clemenza per il futuro giacché si era punito abbastanza, lui al contrario dichiarò di aver fissato come limite alle proscrizioni il momento in cui avesse completamente mano libera. Ciò nonostante, in compenso di tanta ostinazione, onorò più tardi con la dignità di cavaliere Tito Vinio Filopèmene, perché si diceva che a suo tempo avesse tenuto nascosto il suo patrono proscritto. Durante l’esercizio di questa stessa magistratura accese molti odii contro di sé. Una volta, mentre teneva un discorso alle truppe – e c’era presente anche una folla di civili – notò che un certo Pinario, cavaliere romano, prendeva furtivamente qualche appunto; allora, ritenendolo un curioso o una spia, lo fece ammazzare seduta stante. A Tedio Afro, console designato, per aver criticato con parole maligne un suo atto, incusse tanta paura con le sue minacce, che quello si buttò giù nel vuoto. Il pretore Quinto Gallio durante la cerimonia del saluto teneva sotto la toga un dittico di tavolette; Augusto sospettò che nascondesse un’arma; ma, non osando sul momento indagare oltre, perché non si trovasse dell’altro, lo fece poco dopo da centurioni e soldati trascinare via dal tribunale e sottoporre a tortura come uno schiavo; non confessò nulla, ma egli lo fece uccidere dopo avergli cavato gli occhi di sua mano. Veramente, egli scrive che Gallio, chiestogli un colloquio, aveva attentato alla sua vita, per cui lo aveva gettato in prigione; poi lo aveva rilasciato interdicendogli però la capitale; e quello era perito per naufragio o per un attacco di pirati. Ricevette la potestà tribunizia a vita: in essa, una prima e una seconda volta si aggregò per cinque anni un collega. Gli attribuirono anche la sovrintendenza ai costumi e alle leggi, anch’essa a vita. Con questa prerogativa, anche senza la carica di censore, fece però tre volte il censimento della popolazione, il primo e il terzo con un collega, il secondo da solo.»

(Svetonio, Augusto, 27)

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Nel 38 a.C. a Taranto fu rinnovato il triumvirato per altri cinque anni. Il casus belli furono, nel 33 a.C., allo scadere del triumvirato (non più rinnovato), le donazioni di Alessandria, con cui Antonio dava ai figli suoi e di Cleopatra territori appartenenti alla repubblica e soprattutto il testamento di Antonio, rubato e letto in senato, in cui chiedeva di essere seppellito a Alessandria e donare territori della repubblica ai suoi figli.

Lo scontro avvenne ad Azio, in Grecia, il 2 settembre del 31 a.C. Nonostante la superiorità numerica Agrippa riuscì a battersi ad armi pari, finché Cleopatra si diede alla fuga e Antonio la seguì: l’esercito di Antonio e tutte le sue legioni si arresero e passarono dalla parte di Ottaviano. L’anno seguente Ottaviano entrò a Alessandria e trovò Antonio e Cleopatra morti.

Ottaviano sciolse molte legioni e congedò i veterani (ne aveva ormai oltre 60). Ne restarono 28, ridotte a 25 dopo il disastro di Teutoburgo nel 9 d.C. (la XVII, XVIII e XIX non furono più ricostrute). Aveva il comando di tutte le legioni esistenti e le pagava direttamente (Cesare aveva stabilito un salario fisso, rimasto invariato fino all’età di Domiziano).

La leva fu fissata a 16 anni più 4 come “riserve”, ma fu poi costretto ad aumentarla, non senza resistenze, a 25 (20 di leva e 5 di riserva). La maggior parte delle entrate fiscali (convogliate più o meno direttamente nelle casse “private”) servivano a pagare l’esercito.

Il primo imperatore

Nel 27 a.C. il senato gli attribuì il titolo di Augustus. Sommati a una serie di poteri straordinari (l’imperium proconsulare maius, ossia il comando militare assoluto, il titolo di princeps senatus, la possibilità di parlare per primo in senato), ottenne sostanzialmente il potere assoluto sebbene da privato cittadino (anche se gli veniva dato quasi annualmente il consolato).

Nel 23 a.C. ricevette l’ultimo potere che legittimava la sua “superiorità”: una tribunicia potestas a vita, che gli permetteva di essere sacro e inviolabile come i tribuni della plebe e gli concedeva la possibilità di porre il veto a qualunque azione del senato. Inoltre, alla morte di Lepido assunse il titolo di pontefice massimo, in modo da essere la massima autorità religiosa. Infine nel 2 a.C. ottenne il titolo di pater patriae.

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Perciò Augusto poteva bloccare qualunque decisione non gradisse, ma teoricamente non poteva forzare il senato o i comizi a fare delle scelte, se non tramite la sua influenza e autorità (o comunque spesso grazie al consolato e il titolo di princeps e imperator che deteneva – titoli che rappresenteranno il potere imperiale; si è a capo dello stato perché si è a capo dell’esercito in quanto imperator e a capo del senato in quanto princeps).

«Due volte pensò di restaurare la repubblica: una prima volta sùbito dopo aver fiaccato Antonio, ricordando che da questo gli era stato ripetutamente rinfacciato che dipendeva proprio da lui il fatto che essa non fosse restaurata; poi, di nuovo, perché stanco di una lunga malattia. In questa occasione, anzi, convocate le autorità e il Senato in casa sua, consegnò loro un rendiconto finanziario dell’impero. Ma, considerando che come privato cittadino egli sarebbe stato sempre in pericolo, e che era rischioso affidare lo Stato all’arbitrio di più persone, continuò a tenerlo in pugno lui. Non si sa se con migliore risultato o con migliore intenzione. Questa intenzione egli non solo la sbandierò di tanto in tanto, ma una volta giunse a proclamarla in un comunicato ufficiale: «Vorrei proprio che mi fosse possibile rimettere al suo posto sana ed indenne la repubblica, e godere il frutto che io cerco di questa restaurazione, di essere detto cioè fondatore di un ottimo Stato, e di portare con me, morendo, la speranza che rimangano salde le fondamenta dello Stato, quali io avrò gettato». Ed egli stesso fu realizzatore del suo voto, sforzandosi in ogni modo a che nessuno avesse a dolersi della nuova situazione. La città non era adorna in proporzione della sua maestà, ed era esposta a inondazioni e ad incendi: ebbene, egli la abbellì a tal punto che giustamente si potè gloriare di lasciarla di marmo, mentre l’aveva ricevuta di mattoni. E, per quanto una mente umana poteva prevedere, la rese sicura anche per l’avvenire.»

(Svetonio, Augusto, 28)

Augusto preparò anche la sua successione: decise inizialmente che Marcello (il figlio di sua sorella Ottavia), suo nipote prediletto, a cui aveva dato in sposa la figlia Giulia. Tuttavia il giovane, che non amava particolarmente Agrippa, morì nel 23 a.C.:

«[…] quando Augusto si accorse che Marcello, per via della scelta precedente [Augusto aveva consegnato ad Agrippa l’anello, simbolo del potere imperiale, all’inizio dell’anno, quando si era ammalato gravemente e disperava di poter guarire], era animato da rivalità nei confronti di Agrippa, inviò quest’ultimo con grande celerità in Siria, per scongiurare che, entrambi presenti a Roma, potesse nascere qualche contesa tra i due. […]

«Augusto gli diede una sepoltura pubblica, dopo i consueti elogi lo seppellì nella tomba che fece costruire (l’Augusteo) […] E egli ordinò anche che fossero portati nel teatro [di Marcello] una sedia curule, un ritratto e una corona d’oro durante i Ludi Romani.»

(Cassio Dione,  Storia romana, LIII, 32, 1; 30, 5; 31, 3)

Morto il nipote prediletto, Augusto decise di nominare suo successore Agrippa, a cui diede immediatamente in sposa Giulia, rimasta vedova. Tuttavia anche Agrippa morì prima dell’imperatore, nel 12 a.C., e Giulia venne data in sposa a Tiberio, figliastro di Augusto, il quale ripiegò per la successione sui figli di Agrippa e Giulia, Gaio e Lucio Cesare. Anche loro non sopravvissero al nonno:

Gaio Cesare

« Ma il destino non gli permise di essere soddisfatto, fiducioso e di avere una progenie e una casa ben disciplinata. Le due Giulie, la figlia e la nipote, colpevoli di ogni atto empio, le esiliò; nello spazio di diciotto mesi perse Gaio e Lucio, il primo in Licia, il secondo a Marsiglia. Adottò allora, nel Foro con la legge curiata, il terzo nipote Agrippa e il figliastro Tiberio; ben presto, a causa della natura infame e feroce di Agrippa, lo rinnegò e lo esiliò a Sorrento. »

(Svetonio, Augusto, 65)

Infine Augusto adottò l’unico superstite: Tiberio. Aveva dato prova di valore nelle campagne pannoniche e germaniche. Proprio la Germania era l’ultima conquista progettata da Augusto, che avrebbe voluto spingersi fino all’Elba. In parte la provincia era pacificata e in allestimento, quando, nel 9 d.C., Varo subì la disfatta della selva di Teutoburgo.

« […] i soldati romani si trovavano là [in Germania] a svernare, e delle città stavano per essere fondate, mentre i barbari si stavano adattando al nuovo tenore di vita, frequentavano le piazze e si ritrovavano pacificamente […] non avevano tuttavia dimenticato i loro antichi costumi […] ma perdevano per strada progressivamente le loro tradizioni […] ma quando Varo assunse il comando dell’esercito che si trovava in Germania […] li forzò ad adeguarsi ad un cambiamento troppo violento, imponendo loro ordini come se si rivolgesse a degli schiavi e costringendoli ad una tassazione esagerata, come accade per gli stati sottomessi. I Germani non tollerarono questa situazione, poiché i loro capi miravano a ripristinare l’antico e tradizionale stato di cose, mentre i loro popoli preferivano i precedenti ordinamenti al dominio di un popolo straniero. Pur tuttavia non si ribellarono apertamente […] »

(Cassio Dione, Storia romana, LVI,18)

« [Varo] pose la sua fiducia su entrambi [Arminio ed il padre Sigimero], e poiché non si aspettava nessuna aggressione, non solo non credette a tutti quelli che sospettavano del tradimento e che lo invitavano a guardarsi alle spalle, anzi li rimproverò per aver creato un inutile clima di tensione e di aver calunniato i Germani […] »

(Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, LVI, 19)

« […] i barbari, grazie alla loro ottima conoscenza dei sentieri, d’improvviso circondarono i Romani con un’azione preordinata, muovendosi all’interno della foresta ed in un primo momento li colpirono da lontano [evidentemente con un continuo lancio di giavellotti, aste e frecce] ma successivamente, poiché nessuno si difendeva e molti erano stati feriti, li assalirono. I Romani, infatti, avanzavano in modo disordinato nel loro schieramento, con i carri e soprattutto con gli uomini che non avevano indossato l’armamento necessario, e poiché non potevano raggrupparsi [a causa del terreno sconnesso e degli spazi ridotti del sentiero che seguivano] oltre ad essere numericamente inferiori rispetto ai Germani che si gettavano nella mischia contro di loro, subivano molte perdite senza riuscire ad infliggerne altrettante […] »

(Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, LVI, 20, 4-5)

Augusto, saputa la notizia, impazzì: temeva che i germani potessero arrivare fino a Roma, ma non fu così:

« Quando giunse la notizia… dicono che Augusto si mostrasse così avvilito da lasciarsi crescere la barba ed i capelli, sbattendo, di tanto in tanto, la testa contro le porte e gridando: “Varo rendimi le mie legioni!”. Dicono anche che considerò l’anniversario di quella disfatta come un giorno di lutto e tristezza”. »

(Svetonio, Vite dei dodici Cesari II, 23)

« … Augusto quando seppe quello che era accaduto a Varo, stando alla testimonianza di alcuni, si strappò la veste e fu colto da grande disperazione non solo per coloro che erano morti, ma anche per il timore che provava per la Gallia e la Germania, ma soprattutto perché credeva che i Germani potessero marciare contro l’Italia e la stessa Roma. »

(Cassio Dione Cocceiano, Storia Romana, LVI, 23, 1)

Morte e successione

Augusto morì il 19 agosto del 14 d.C. Esattamente 57 anni prima aveva preso il consolato con le armi per la prima volta.

Alla fine la decisione sull’eredità toccò a Tiberio, figlio della moglie Livia. Aveva 56 anni al momento della successione, e aveva una certa esperienza militare, maturata in Illirico e Germania, ma non era particolarmente nelle grazie di Augusto; grazie alla tribunicia potestas e l’imperium proconsulare maius ebbe la legittimazione del suo potere. Secondo Tacito e Svetonio Tiberio inizialmente rifiutò di succedere a Augusto ma alla fine cedette sotto le richieste.

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