Gaio Giulio Cesare è certamente il romano più famoso, se non il personaggio storico più famoso che esista in assoluto. Nato nel 101 o 100 a.C., attorno al 13 di luglio, è uno dei personaggi più importanti della storia.

«Le congetture cui ha dato luogo il nome di Cesare, l’unico di cui il principe del quale racconto la vita si sia mai fregiato, mi sembrano degne di essere riferite. Secondo l’opinione dei più dotti e informati, la parola deriva dal fatto che il primo dei Cesari fu chiamato così per aver ucciso in combattimento un elefante, animale chiamato kaesa dai Mauri; altra opinione è che il termine derivi dal fatto che, per darlo a luce, fu necessario sottoporre la madre, che era morta prima di partorire, a un’operazione di parto cesareo. Si crede anche che la parola possa derivare dal fatto che il primo dei Cesari nacque con i capelli lunghi o dal fatto che aveva degli occhi celesti incredibilmente vispi. Bisogna comunque considerare felice la circostanza, quale che fu, che diede origine a un nome tanto famoso, che durerà in eterno.»

Elio Sparziano, Historia Augusta, II, 3

Discendeva direttamente dalla Gens Iulia, che vantava di discendere direttamente dalla dea Venere a da Enea. Nonostante ciò i Giuli non se la passavano bene; Cesare aveva due sorelle, di cui una, Giulia Minore (madre di Azia Maggiore), nonna del futuro erede e imperatore Ottaviano. Le ristrettezze economiche della famiglia fecero sì che Cesare crescesse nella turbolenta Suburra; i primi anni di Cesare si svolsero durante la guerra sociale, la guerra civile tra Mario e Silla e la dittatura di quest’ultimo con le relative liste di proscrizione che videro coinvolto anche il futuro dittatore.

La zia infatti era stata sposata con Gaio Mario; nell’86 a.C. alla morte di quest’ultimo Cesare ripudiò la promessa sposa Cossuzia per Cornelia Cinna Minore, figlia di Lucio Cornelio Cinna, alleato di Mario e console dall’87 all’84 a.C.. I legami con la fazione dei populares non aiutarono di certo il giovane Cesare. Sconfitti i mariani nell’82 a.C. a porta Collina, Silla si nominò dittatore a vita per riformare la repubblica e promulgò delle liste di proscrizione. Cesare vi scampò per poco:

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«Non aveva ancora sedici anni quando perse il padre; l’anno appresso, designato flàmine Diale, ripudiò Cossuzia, che, di famiglia equestre ma molto ricca, gli era stata destinata in sposa quando ancora egli vestiva la toga pretesta, e sposò Cornelia – figlia di Cinna, quattro volte console – dalla quale ben presto gli nacque Giulia. E Siila, allora dittatore, non riuscì in nessun modo a fargliela ripudiare. Per questo rifiuto egli fu spogliato del sacerdozio, della dote della moglie, dei suoi stessi beni di famiglia. E politicamente fu considerato un avversario. Fu costretto perciò a togliersi di mezzo, e – sebbene lo intralciasse la febbre quartana – a cambiare rifugio quasi ogni notte e persino a riscattarsi col denaro da quelli che lo ricercavano. Ma finalmente, per intercessione delle vergini Vestali, di Mamerco Emilio e di Aurelio Cotta, suoi parenti ed affini, ottenne il perdono. Pare certo che Siila, quando lo supplicarono i suoi più intimi amici, e uomini di altissimo rango, per qualche tempo oppose un rifiuto; ma poiché essi tenacemente insistevano, finalmente si lasciò piegare, ma dichiarò – o per ispirazione divina o per riflessione personale – che l’avessero pure vinta e se lo tenessero pure, purché sapessero che quello che essi tanto volevano salvo, un giorno o l’altro sarebbe stato la rovina proprio di quel partito degli ottimati che essi insieme con lui avevano difeso: in Cesare c’erano molti Marii.»

svetonio, cesare, 1

Il futuro dittatore, temendo comunque per la propria incolumità, partì per l’Asia come legato del pretore Marco Minucio Termo. In Asia Cesare strinse amicizia col re di Bitinia Nicomede, tanto che si diffuse la voce che i due fossero amanti. Durante l’assedio di Mitilene, Cesare ottenne la prestigiosa corona civica, data a chi avesse salvato un cittadino romano in battaglia. Cesare ritornò a Roma solo nel 78 a.C. alla morte di Silla; sostenne le accuse di concussione Gneo Cornelio Dolabella e diede sfoggio di capacità oratorie anche nel processo ad Antonio Ibridia. In tal modo si presentò come difensore dei populares, il partito più “filo-popolare”, opposto a quello aristocratico degli optimates.

«La fama della pudicizia di Cesare non fu lesa, a dire il vero, se non dalla sua intimità con Nicomede, ma questa con grave e perenne onta, pronta per gli scherni di tutti. Non parlo dei notissimi versi di Licinio Calvo (quanto mai possedette la Bitinia o il finocchio di Cesare); lascio stare pure le arringhe di Dolabella e di Curione padre, nelle quali Dolabella lo dice «rivale della regina», e «sponda interna della lettiga regale», e Curione «postrìbolo di Nicomede» e «bordello bitìnico»; non parlo nemmeno dei comunicati di Bìbulo, nei quali definì il suo collega «bitìnica regina» e disse che «prima gli era stato a cuore un re, e adesso un regno»; in quel periodo, come riferisce Marco Bruto, un certo Ottavio, che, squilibrato com’era, motteggiava con una certa libertà, in una riunione affollatissima, dopo aver salutato Pompeo come re, salutò Cesare come regina. Ma Gaio Memmio arriva a rinfacciargli di aver fatto da coppiere a Nicomede, insieme con gli altri suoi finocchi, in un affollato pranzo a cui partecipavano anche alcuni commercianti romani, di cui Memmio stesso riferisce anche i nomi. E Cicerone – non contento di avere scritto in alcune sue lettere che Cesare, accompagnato dalle guardie nella camera del re, si era sdraiato su un letto d’oro in veste purpurea, e che in Bitinia era stata contaminata la giovinezza di un discendente di Venere – una volta anche in Senato, a Cesare che difendeva Nisa, figlia di Nicomede, e che ricordava i benefìci che egli aveva avuto da Nicomede, disse: «Lascia stare quest’argomento, ti prego: – è ben noto che cosa egli ha dato a te e che cosa tu a lui». Infine, durante il trionfo Gallico, tra gli altri versi, quali usano cantare scherzosamente accompagnando il carro trionfale, i suoi soldati intonarono questa notissima strofetta: Piegò Cesare le Gallie, Nicomède lui piegò; ora Cesare trionfa, che le Gallie già piegò, non trionfa Nicomède, che già Cesare piegò.»

Svetonio, Cesare, 49

Nel 74 a.C. Cesare decise di intraprendere un viaggio di istruzione (che facevano molti romani) a Rodi, ma venne catturato dai pirati. Mandò i suoi compagni e servi a Mileto e nei dintorni a raccogliere la somma del riscatto (offrì ai suoi rapitori 50 talenti contro i 20 richiesti); la situazione era diventata irreale: Cesare si comportava in tutto e per tutto come il capo dei pirati, che erano in parte irretiti dalla figura del romano, che prometteva loro scherzosamente che li avrebbe fatti impiccare. Ottenuto il riscatto, venne liberato e raccolse delle forze con cui catturò i suoi rapitori. Il proconsole Marco Iunco tergiversò, sperando forse di intascare il bottino dei pirati, allora Cesare decise di prendere l’iniziativa, recandosi alla prigione di Pergamo e crocifiggendoli, forse dopo averli prima strangolati, come aveva promesso loro.

«Non passò però molto tempo che s’imbarcò di nuovo, ma giunto al largo dell’isola di Farmacussa fu catturato dai pirati, che già allora dominavano il mare con vaste scorrerie e un numero sterminato di imbarcazioni. I pirati gli chiesero venti talenti per il riscatto, e lui, ridendo, esclamò: «Voi non sapete chi avete catturato! Ve ne darò cinquanta!». Dopodiché spedì alcuni del suo seguito in varie città a procurarsi il denaro e rimasto lì con un amico e due servi in mezzo a quei Cilici, ch’erano gli uomini più sanguinari del mondo, li trattò con tale disprezzo che quando voleva riposare gli ordinava di fare silenzio. Passò così trentotto giorni come se fosse circondato non da carcerieri ma da guardie del corpo, giocando e facendo ginnastica insieme con loro, scrivendo versi e discorsi che poi gli faceva ascoltare, e se non lo applaudivano li redarguiva aspramente chiamandoli barbari e ignoranti. Spesso, scherzando e ridendo, minacciava d’impiccarli, e quelli, attribuendo la sua sfrontatezza all’incoscienza tipica dell’età giovanile, a loro volta gli ridevano dietro. Ma appena giunse da Mileto il denaro del riscatto e pagata la somma fu rilasciato, allestì subito delle navi e dal porto di quella stessa città salpò alla caccia dei pirati. Li sorprese che stavano alla fonda nelle vicinanze dell’isola, li catturò quasi tutti, saccheggiò i frutti delle loro razzie, fece rinchiudere gli uomini nella prigione di Pergamo e si recò difilato dal governatore d’Asia, Marco Iunco, che in qualità di propretore [con imperium proconsulare, ndr.] aveva il compito di punire i prigionieri. Ma quello, messi gli occhi sul bottino (piuttosto cospicuo, in verità), disse che si sarebbe occupato a suo tempo dei prigionieri. Allora Cesare, mandatolo alla malora, tornò di corsa a Pergamo e tratti fuori dal carcere i pirati li fece crocifiggere tutti quanti, così come […], con l’aria di scherzare, gli aveva spesso pronosticato.»

Plutarco, vita di Cesare, 1-2

L’ascesa politica

Tornato a Roma, ricoprì tutte le cariche politiche: tribuno militare, questore nel 69 aC.,  edile nel 65 a.C., pretore. Fu coinvolto probabilmente nella congiura di Catilina del 63 a.C.: sebbene forse simpatizzasse per Catilina, tanto da proporre ai ribelli la prigione a vita piuttosto della morte (Cicerone, console in carica, opterà invece per uccidere i congiurati), si mantenne comunque al di fuori della congiura. Il discorso appassionato, in senato, per salvare la vita ai ribelli fu stroncato da quello molto più duro di Marco Porcio Catone Uticense.

Maccari-Cicero

C’è un particolare aneddoto riguardo la questura in Spagna nel 69 a.C.: pare che Cesare, a Gades, scoppiò in lacrime davanti la statua di Alessandro Magno; il macedone infatti alla sua età aveva già conquistato il suo impero, mentre Cesare non aveva fatto ancora nulla.

In seguito alla pretura ottenne la propretura in Spagna Ulteriore nel 61 a.C., dove venne acclamato imperator dai suoi soldati durante le operazioni contro i lusitani. Gli venne tributato il trionfo, ma rinunciò perché avrebbe dovuto continuare a comportarsi da militare (il trionfo era una vera e propria procedura di purificazione e reintroduzione nella vita civile), e non avrebbe potuto mettere piede a Roma per candidarsi a console. Venne così eletto console per l’anno 59 a.C., attorno ai quarant’anni, come avveniva normalmente secondo il cursus honorum.

Nel 60 a.C. Cesare aveva anche stipulato un’alleanza, del tutto privata, con Marco Licinio Crasso e Gneo Pompeo Magno, il cosiddetto primo triumvirato: sostanzialmente un accordo privato che permetteva di condividere le più importanti cariche pubbliche. Crasso era l’uomo più ricco di Roma, Pompeo il vincitore dei pirati. Il primo avrebbe finanziato le opere di Cesare, il secondo l’avrebbe appoggiato politicamente.

Cesare distribuì le terre per i veterani di Pompeo e con la Lex Vatinia del 1 marzo ottenne il proconsolato della Gallia Cisalpina e Illirico per cinque anni; ottenne poi anche la Narbonense, il cui proconsole era morto all’improvviso. Aveva in totale 4 legioni (circa 20.000 uomini).

La guerra gallica

Per invadere la Gallia usò il seguente casus belli: gli elvezi, stanziati nell’attuale Svizzera, stavano per attraversare parte della Gallia Narbonense, nei pressi del Rodano. Cesare li raggiunse e attese rinforzi. Congiuntosi con tutte le sue legioni li affrontò e li sconfisse a Bibracte. Nel frattempo gli elvezi si erano mossi nel territorio degli Edui e dei Sequani; i primi erano alleati di Roma. I galli chiesero a Cesare di essere aiutati contro il germanico Ariovisto.

Sconfitti i germani e i belgi (popolazioni del nord della Gallia), Cesare amministrava la Gallia alla stregua di una provincia. Nel frattempo organizzava spedizioni oltre il Reno e in Britannia. Intanto le legioni di Cesare erano diventate dieci. Si ribellarono le popolazioni della Belgica nel 53 a.C. ma furono sconfitte da Tito Labieno. Infine nel 52 si sollevarono gli arverni guidati da Vercingetorige, sconfitti da Cesare nel leggendario assedio di Alesia.

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I due anni successivi portarono alla repressione dei restanti focolai di rivolta. Cesare si apprestava a tornare a Roma. Cesare voleva il suo secondo consolato, ma il senato era spaventato dal comandante romano. Voleva processarlo, e Cesare non voleva tornare a Roma senza garanzie.

La guerra civile

Alla fine Cesare decise di prendere l’iniziativa e nel gennaio del 49 a.C. varcò il Rubicone, che delimitava il pomerium (il confine invalicabile in armi). Il senato, senza legioni da opporre nell’immediato a Cesare, fuggì in Grecia guidato da Pompeo.

Lo scontro finale avvenne a Farsalo nel 48 a.C.: Cesare sconfisse Pompeo e perdonò molti pompeiani (tra i quali diversi parteciparono al suo omicidio). Pompeo, fuggito presso la corte tolemaica, venne assassinato a tradimento per compiacere Cesare. Nel soggiorno Alessandrino Cesare fece la conoscenza di Cleopatra e i due ebbero un figlio, Cesarione.

I successivi due anni portarono alla fine dei focolai di ribellione; nel 47 a.C. aveva stroncato la ribellione di Farnace, re del Ponto, in pochi giorni, tanto da coniare la celebre frase “veni vidi vici” (venni, vidi, vinsi). Nel 45 a.C., a Munda, in Spagna, sconfisse il traditore Tito Labieno: Cesare aveva in mano la repubblica.

Le idi di marzo

Nel frattempo Cesare era diventato dittatore, e fu console ininterrottamente dal 46 al 44 a.C., l’ultimo con collega Marco Antonio. Il 14 febbraio fu nominato dittatore a vita (prima era decennale) e il 15, durante la festa dei lupercali, rifiutò la corona offertagli tre volte, l’ultima da Marco Antonio.

Tra molti senatori si credeva ormai che fosse questione di tempo prima che Cesare diventasse re. Gaio Cassio Longino convinse Marco Giunio Bruto (discendente di Lucio, che aveva cacciato Tarquinio il Superbo) a prendere parte a una congiura per assassinare il dittatore.

Nonostante i cattivi presagi (scie di fuoco nel cielo, sacrifici dagli esiti negativi, la moglie Calpurnia che sognò la notte precedente la morte del marito), Cesare la mattina del 15 marzo 44 a.C. si recò comunque in senato, nonostante le titubanze, grazie alle pressioni del congiurato Decimo Bruto. La notte prima, del tutto casualmente, durante una cena con Marco Emilio Lepido, Cesare -interpellato sulla questione- aveva detto di preferire una morte improvvisa a qualunque altra.

Molti dei congiurati erano stati compagni di Cesare in guerra o perdonati da lui stesso dopo Farsalo. Avvicinato da un aruspice, Spurinna, che gli aveva detto di temere le idi di marzo, Cesare gli rispose che erano arrivate e non era successo nulla; Spurinna allora obiettò che non erano ancora passate.

Una persona a conoscenza dell’attentato gli passò anche un foglietto che svelava la congiura, ma Cesare, nella folla, non lo lesse. Gaio Trebonio trattenne fuori dalla curia Marco Antonio (console in carica insieme a Cesare); Bruto si era opposto alla sua uccisione, contrariamente a Cassio (Bruto pensava che morto Cesare si sarebbe ristabilito naturalmente l’ordine della repubblica).

Entrato in senato, Cesare fu accerchiato dai congiurati. Il primo a colpire fu Publio Servilio Casca; Cesare afferrò il pugnale con le mani e tentò di difendersi, ma completamente accerchiato, fu colpito da 23 pugnalate.

Si narra che alla vista di Bruto, ultimo a colpire, abbia pronunciato in greco “Kai su teknon?” (anche tu, figlio?). Cesare si coprì con la toga come poteva mentre cadeva esanime davanti la statua di Pompeo (per dei lavori nella curia il senato si riuniva nel tempio posto in cima al teatro di Pompeo).

«Ma la morte imminente fu annunciata a Cesare da chiari prodigi. Pochi mesi prima, i coloni condotti a Capua, in virtù della legge Giulia, stavano demolendo antiche tombe per costruirvi sopra case di campagna. Lavoravano con tanto ardore che scoprirono, esplorando le tombe, una gran quantità di vasi di antica fattura e in un sepolcro trovarono una tavoletta di bronzo nella quale si diceva che vi era sepolto Capi, il fondatore di Capua. La tavola recava la scritta in lingua e caratteri greci, il cui senso era questo: «Quando saranno scoperte le ossa di Capi, un discendente di Iulo morrà per mano di consanguinei e ben presto sarà vendicato da terribili disastri dell’Italia.» Di questo episodio, perché qualcuno non lo consideri fantasioso o inventato, ha reso testimonianza Cornelio Balbo, intimo amico di Cesare. Negli ultimi giorni Cesare venne a sapere che le mandrie di cavalli che aveva consacrato, quando attraversò il Rubicone, al dio del fiume, e lasciava libere di correre, senza guardiano, si rifiutavano di nutrirsi e piangevano continuamente. Per di più, mentre faceva un sacrificio, l’aruspice Spurinna lo ammonì di «fare attenzione al pericolo che non si sarebbe protratto oltre le idi di marzo». Il giorno prima delle idi un piccolo uccello, con un ramoscello di lauro nel becco, volava verso la curia di Pompeo, quando volatili di genere diverso, levatisi dal bosco vicino, lo raggiunsero e lo fecero a pezzi sul luogo stesso. Nella notte che precedette il giorno della morte, Cesare stesso sognò di volare al di sopra delle nubi e di stringere la mano di Giove; la moglie Calpurnia sognò invece che crollava la sommità della casa e che suo marito veniva ucciso tra le sue braccia; poi, d’un tratto, le porte della camera da letto si aprirono da sole. In seguito a questi presagi, ma anche per il cattivo stato della sua salute, rimase a lungo indeciso se restare in casa e differire gli affari che si era proposto di trattare davanti al Senato; alla fine, poiché Decimo Bruto lo esortava a non privare della sua presenza i senatori accorsi in gran numero che lo stavano aspettando da un po’, verso la quinta ora uscì. Camminando, prese dalle mani di uno che gli era venuto incontro un biglietto che denunciava il complotto, ma lo mise insieme con gli altri, come se volesse leggerlo più tardi. Dopo aver fatto quindi molti sacrifici, senza ottenere presagi favorevoli, entrò in curia, passando sopra ogni scrupolo religioso, e si prese gioco di Spurinna, accusandolo di dire il falso, perché le idi erano arrivate senza danno per lui. Spurinna, però, gli rispose che erano arrivate, ma non erano ancora passate.

Mentre prendeva posto a sedere, i congiurati lo circondarono con il pretesto di rendergli onore e subito Cimbro Tillio, che si era assunto l’incarico di dare il segnale, gli si fece più vicino, come per chiedergli un favore. Cesare però si rifiutò di ascoltarlo e con un gesto gli fece capire di rimandare la cosa a un altro momento; allora Tillio gli afferrò la toga alle spalle e mentre Cesare gridava: “Ma questa è violenza bell’e buona!” uno dei due Casca lo ferì, colpendolo poco sotto la gola. Cesare, afferrato il braccio di Casca, lo colpì con lo stilo, poi tentò di buttarsi in avanti, ma fu fermato da un’altra ferita. Quando si accorse che lo aggredivano da tutte le parti con i pugnali nelle mani, si avvolse la toga attorno al capo e con la sinistra ne fece scivolare l’orlo fino alle ginocchia, per morire più decorosamente, con anche la parte inferiore del corpo coperta. Così fu trafitto da ventitré pugnalate, con un solo gemito, emesso sussurrando dopo il primo colpo; secondo alcuni avrebbe gridato a Marco Bruto, che si precipitava contro di lui: “Anche tu, figlio?”. Rimase lì per un po’ di tempo, privo di vita, mentre tutti fuggivano, finché, caricato su una lettiga, con il braccio che pendeva fuori, fu portato a casa da tre schiavi. Secondo quanto riferì il medico Antistio, di tante ferite nessuna fu mortale ad eccezione di quella che aveva ricevuto per seconda in pieno petto.I congiurati avrebbero voluto gettare il corpo dell’ucciso nel Tevere, confiscare i suoi beni e annullare tutti i suoi atti, ma rinunciarono al proposito per paura del console Marco Antonio e del comandante della cavalleria Lepido»

Svetonio, Cesare, 81-82

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