Al principio del IV secolo a.C.. i galli senoni si erano espansi fin nelle Marche, divenendo rinomati mercenari e mettendo in pericolo le popolazioni locali umbre e picene. Artefice della loro ascesa era stato un tale Brenno. Il suo nome, che significava Corvo ed era un titolo assunto da numerosi comandanti gallici, potrebbe trarre le sue origini dalla storiografia greca, essendo lo stesso del capo celtico che nel 279 a.C. arrivò quasi a saccheggiare il santuario di Apollo a Delfi.

Il sacco di Roma

Nel 390 o 388 a.C. Brenno arrivò infine ad assediare Chiusi, città etrusca, che chiese aiuto a Roma. L’Urbe inviò tre ambasciatori della gens Fabia a trattare con Brenno, ma uno dei tre uccise uno dei capi gallici, stando a Tito Livio (Ab Urbe Condita, V, 36, 5-8):

“Domandando i Romani in nome di quale diritto richiedessero delle terre ai legittimi possessori e minacciassero la guerra, e che cosa avessero da fare i Galli in Etruria, avendo quelli risposto superbamente che essi riponevano il diritto nelle armi, e che tutto apparteneva agli uomini forti, riscaldatisi gli animi da ambo le parti si corse alle armi ed ebbe inizio la lotta. Allora, incombendo già il destino fatale sulla città di Roma, gli ambasciatori contravvenendo al diritto delle genti presero le armi; né poté rimaner celato il fatto che combattevano nelle prime file degli Etruschi tre giovani romani nobilissimi e valorosissimi, tanto rifulgeva il valore degli stranieri. Anzi Quinto Fabio, slanciatosi a cavallo fuori delle file, trafiggendolo nel fianco coll’asta uccise il condottiero dei Galli, che baldanzosamente si avventava contro le stesse insegne degli Etruschi; mentre ne raccoglieva le spoglie i Galli lo riconobbero, e per tutto l’esercito fu diffusa la voce che quello era un ambasciatore romano. Quindi deposta l’ira contro i Chiusini, i Galli suonarono la ritirata proferendo minacce contro i Romani. Alcuni erano del parere di marciare sùbito contro Roma, ma prevalse il consiglio dei più anziani, di mandare prima ambasciatori a protestare per l’offesa ed a chiedere che i Fabi fossero consegnati per aver violato il diritto delle genti.”

La responsabilità della sconfitta, avvenuta al fiume Allia, a undici miglia da Roma, è da attribuirsi alle pressioni della plebe, che non solo si rifiuta di condannare i Fabii violatori del diritto delle genti e responsabili del casus belii, ma addirittura li eleggono come loro tribuni militari.

“Erano a capo dello stato come tribuni quegli stessi uomini per la cui temerarietà era scoppiata la guerra, e tenevano la leva per nulla più rigorosamente di quanto si fosse soliti per le guerre ordinarie, sminuendo anzi la gravità della guerra. Frattanto i Galli, quando appresero che ai trasgressori del diritto umano i Romani avevano conferito per giunta un onore, e che si erano preso gioco della loro ambasceria, accesi d’ira, a cui quella gente si abbandona senza freno, sùbito levarono il campo e con rapida marcia si misero in cammino. Al rumore del loro rapido passaggio accorrendo alle armi le città spaventate e fuggendo i contadini, essi con alte grida proclamavano che andavano a Roma, e ovunque passavano coprivano coi loro cavalli e coi loro uomini un immenso spazio di terreno, marciando sparsi per gran tratto in lunghezza e in larghezza. La rapidità dei nemici, preceduta dalla fama e dai messaggeri giunti dai Chiusini e via via da altri popoli, gettò in Roma un grandissimo terrore; condotto in tutta fretta incontro ai nemici un esercito improvvisato, i Romani li fronteggiarono ad appena undici miglia dalla città, là dove il fiume Allia, scendendo dai monti Crustumini in un letto molto incassato, si getta nel Tevere poco sotto la strada. Già tutto lo spazio di fronte e all’intorno era pieno di nemici, e quella gente, incline per natura a vani tumulti, con canti selvaggi e dissonanti schiamazzi riempiva l’aria di un orrendo frastuono.”

“Qui i tribuni militari, senza aver prima scelto una posizione per gli accampamenti, senza aver costruito un vallo dietro il quale potessero ritirarsi, senza curarsi, nonché degli uomini, neppure degli dèi, senza aver preso gli auspici né fatto i sacrifici propiziatori, schierarono l’esercito a battaglia allargando molto le ali, per evitare di essere circondati dal nemico superiore numericamente. Tuttavia il fronte non potè raggiungere l’estensione di quello nemico, sebbene assottigliando lo schieramento il centro rimanesse debole e poco compatto. Alla destra vi era un piccolo rialzo di terreno, dove si decise di porre le riserve; e se questo fatto segnò l’inizio del panico e della fuga, è pur vero che costituì l’unica salvezza per i fuggitivi. Infatti Brenno, capo dei Galli, temendo soprattutto un accorgimento dei nemici per controbilanciare l’inferiorità numerica, e ritenendo che con questo intendimento avessero occupata l’altura, affinché, quando i Galli fossero corsi a battaglia di fronte col nerbo della fanteria, le riserve li attaccassero alle spalle e di fianco, diresse l’attacco contro le truppe di riserva, non dubitando che se le avesse cacciate da quella posizione la vittoria nel terreno pianeggiante sarebbe stata facile, con forze così soverchianti: a tal punto non solo la fortuna, ma anche l’arte militare stava dalla parte dei barbari. Nell’opposto esercito in nulla i Romani erano simili a se stessi, né i comandanti né i soldati. Il panico e il pensiero della fuga avevano invaso gli animi, presi da tanto smarrimento, che la parte di gran lunga maggiore corse a rifugiarsi a Veio, città nemica, pur frapponendosi il Tevere, anziché fuggire per la via diretta a Roma presso le mogli e i figli. Per un po’ di tempo le truppe di riserva resistettero coll’ausilio della posizione; ma nel resto dell’esercito appena udirono le grida dei nemici, i più vicini di fianco, i più lontani alle spalle, prima quasi di aver visto quel nemico sconosciuto, ancora intatti e illesi fuggirono non solo senza tentare la lotta, ma senza neppure lanciare il grido di guerra. Non vi fu strage di combattenti: la retroguardia sola fu decimata, poiché nella confusione lottavano fra di loro stessi intralciandosi la fuga. Presso la riva del Tevere, dove abbandonate le armi fuggì tutta l’ala sinistra, avvenne una grande strage; molti, inesperti del nuoto o stanchi, appesantiti dalle corazze e dalla rimanente armatura, furono inghiottiti dai gorghi. Tuttavia la maggior parte si rifugiò incolume a Veio, donde non solo non fu mandato a Roma alcun aiuto, ma neppure un messaggero a portare notizia della disfatta. Le truppe dell’ala destra, che era lontana dal fiume e più vicina alle montagne, tutte si diressero a Roma, e senza nemmeno chiudere le porte della città si rifugiarono nella rocca. Anche i Galli rimasero quasi istupiditi per la meraviglia di una vittoria così improvvisa, e anch’essi dapprima stettero immobili per lo sbigottimento, quasi non capacitandosi di quanto era accaduto; poi cominciarono a temere un’insidia; da ultimo si diedero a spogliare i cadaveri e ad ammucchiare le armi, come è loro costume. Finalmente, non vedendo più alcuna traccia del nemico, si misero in cammino e giunsero presso Roma poco prima del tramonto. Quando i cavalieri mandati innanzi ad esplorare riferirono che le porte erano aperte, che non vi erano sentinelle a vegliare davanti alle porte, né armati sulle mura, un nuovo stupore simile al precedente li trattenne, e temendo le tenebre e i luoghi della città sconosciuta, si accamparono fra Roma e l’Aniene, mandando esploratori in giro per le mura e per le altre porte ad osservare quali intenzioni avesse il nemico in quella situazione disperata.”

Tito Livio, Ab Urbe Condita, V, 37, 3, 8; Tito Livio, Ab Urbe Condita, V, 38,1 – 39,3

Tuttavia già a questo punto il resoconto liviano, infarcito di enfasi, tradisce qualche inesattezza; appare infatti difficile coniugare il fatto che i romani avrebbero costruito un campo fortificato prima della battaglia, quando invece, stando a Frontino, i quiriti appresero tale tecnica solo osservando Pirro un secolo dopo. In ogni caso la fuga sarebbe stata talmente precipitosa che non vennero neanche richiuse le porte di Roma dietro ai fuggitivi, dando la possibilità ai galli di prendere subito l’Urbe, con la sola eccezione del Campidoglio. I più anziani, tra cui alcuni senatori, restarono in città, facendosi massacrare mentre sedevano sulle sedie curuli dei magistrati:

“… la situazione e lo spettacolo erano dei più miserandi, e soprattutto poi il pianto delle donne, e il loro affannoso accorrere ora dietro questi ora dietro quelli, domandando ai mariti e ai figli a quale sorte le abbandonassero, nulla lasciava mancare al quadro della sventura umana. Tuttavia gran parte delle donne seguì sulla rocca i suoi, senza che alcuno le impedisse o le chiamasse, poiché la decisione che sarebbe stata più utile per gli assediati, al fine di diminuire la popolazione inerme, pareva cosa disumana. Il resto della popolazione, soprattutto plebei, che un colle così ristretto non poteva contenere né nutrire, con tanta penuria di viveri, fuggita dalla città quasi in un’unica schiera si avviò verso il Gianicolo; di qui in parte si disperse per i campi, in parte si diresse verso le città vicine, senza un capo e senza un accordo, ciascuno seguendo le proprie speranze e i propri disegni, poiché disperavano ormai della sorte comune.”

“… per quanto era possibile in una tale situazione, la turba dei vecchi rientrata nelle case attendeva l’arrivo dei nemici con animo risoluto alla morte. Coloro che fra essi avevano ricoperto magistrature curuli, volendo morire con le insegne della fortuna antica e degli onori o della virtù, rivestiti della veste più augusta, quella che solevano indossare guidando i carri sacri nei giochi o durante il trionfo, si posero a sedere nel mezzo delle loro case sui seggi d’avorio. Alcuni tramandano che recitando una sacra formula dettata dal pontefice massimo Marco Folio offrirono in voto agli dèi la loro vita per la patria e per cittadini romani.”

Tito Livio, Ab Urbe Condita, V, 40, 3-6; V, 41, 1-3

I galli avrebbero probabilmente preso anche l’ultima roccaforte se non fossero accorse in aiuto ai romani le oche del Campidoglio, che avvertirono del tentativo di assalto nemico durante la notte:

“Li sentirono però le oche sacre a Giunone, che erano state risparmiate pur nella grande penuria di cibo. Questo fatto salvò i Romani; infatti destato dai loro schiamazzi e dallo sbattere delle ali Marco Manlio, che tre anni prima era stato console, uomo valoroso in guerra, afferrate le armi e insieme chiamando alle armi i compagni si fece avanti, e mentre gli altri erano presi dalla trepidazione, gettò giù urtandolo con lo scudo un Gallo che già aveva raggiunta la sommità. Questi precipitando avendo trascinato in basso i più vicini, Manlio ne uccise altri che impauriti avevano gettate via le armi e si erano aggrappati con le mani alle rocce a cui aderivano. Sùbito anche gli altri Romani accorsi si diedero a ricacciare i nemici con dardi e con sassi, e tutta la schiera dei Galli precipitando rovinosamente fu respinta al fondo”.

TITO LIVIO, AB URBE CONDITA, V, 47

La fame tuttavia attanagliava ormai sia i romani che i galli; quest’ultimi decisero di intavolare delle trattative per togliere l’assedio, e i romani acconsentirono a versare un tributo di mille libbre d’oro. Ma pare che i galli portarono dei pesi falsi; i romani se ne accorsero, al che il capo gallico avrebbe anche aggiunto la sua spada alla bilancia e esclamato: “vae victis“. “Guai ai vinti”:

“Allora si riunì il senato, il quale diede incarico ai tribuni militari di patteggiare le condizioni. Le trattative si conclusero in un colloquio fra il tribuno militare Quinto Sulpicio e il capo dei Galli Brenno: a mille libbre d’oro fu fissato il prezzo del popolo che ben presto avrebbe dominato su tutte le genti. Alla cosa già in se stessa vergognosissima si aggiunse un iniquo oltraggio: i Galli portarono dei pesi falsi, e alle proteste del tribuno il Gallo insolente aggiunse sulla bilancia la spada, pronunziando una frase intollerabile per i Romani: «Guai ai vinti».”

TITO LIVIO, AB URBE CONDITA, V, 48, 8-9

Ma proprio in quel momento sarebbe arrivato Marco Furio Camillo, nominato ditattore mentre si trovava ad Ardea, che avrebbe bloccato lo scambio, pronunciando un’altra frase celebre: “non auro sed ferro patria recuperanda est” (“non con l’oro, ma col ferro si deve salvare la patria”):

“Ma gli dèi e gli uomini non vollero che i Romani sopravvivessero riscattati. Infatti la sorte volle che prima che fosse compiuto il vergognoso mercato, mentre ancora si discuteva, non essendo stato pesato tutto l’oro, sopraggiungesse il dittatore: sùbito ordinò che fosse tolto di mezzo l’oro e che i Galli fossero allontanati. Poiché quelli si rifiutavano dicendo che il patto era già stato concluso, egli negò che fosse valido quell’accordo stretto senza sua autorizzazione da un magistrato inferiore in grado, dopo che egli già era stato nominato dittatore, ed intimò ai Galli di prepararsi a combattere. Diede ordine ai suoi di deporre i bagagli, di preparare le armi e di riconquistare la patria col ferro, non con l’oro, avendo davanti agli occhi i templi degli dèi, le mogli, i figli, il suolo della patria deturpato dai mali della guerra, e tutte le cose che era sacro dovere difendere e riprendere e vendicare. Schierò poi l’esercito come lo permetteva la natura del luogo, sul suolo della città semidistrutta, e già di sua natura accidentato, e prese tutte quelle misure che l’arte militare poteva escogitare e preparare per avvantaggiare i suoi. I Galli sorpresi dal repentino mutamento della situazione prendono le armi, e si gettano contro i Romani più con ira che con prudenza. Già la fortuna era cambiata, già la protezione degli dèi e l’intelligenza umana appoggiavano le sorti dei Romani; quindi al primo scontro i Galli furono disfatti con la stessa facilità con cui avevano vinto presso l’Allia. Furono poi vinti, sempre sotto la guida e gli auspici di Camillo, in una seconda battaglia più regolare, a otto miglia da Roma sulla via di Gabi, dove si erano raccolti dopo la fuga. Qui la strage fu generale: furono presi gli accampamenti, e non sopravvisse neppure uno che potesse recare la notizia della disfatta. Il dittatore ritolta la patria ai nemici tornò trionfando in città, e fra i rozzi canti scherzosi, che i soldati sogliono improvvisare in tali occasioni, fu chiamato Romolo, padre della patria e secondo fondatore di Roma, con lodi non immeritate. Dopo aver salvata la patria in guerra la salvò poi sicuramente una seconda volta in pace, quando impedì che si emigrasse a Veio, mentre i tribuni avevano ripreso con maggior accanimento la loro proposta dopo l’incendio della città, ed anche la plebe era di per sé più incline a quell’idea. Questa fu la causa per cui non abdicò alla dittatura dopo il trionfo, poiché il senato lo scongiurava di non abbandonare la repubblica in un momento difficile.”

Tito Livio, Ab Urbe Condita, V, 49, 1- 9

Il dittatore, schierato l’esercito a battaglia, avrebbe poi sconfitto i galli, che si sarebbero dovuti ritirare. Mancano però fonti che possano confermare quanto raccontato, dato che tutti gli archivi del tempo andarono in fumo; è possibile pure che a quel tempo Camillo fosse già morto. Le fonti arcaiche d’altra parte lasciano intendere che Roma venne presa dai galli, come fa Ennio (“quella notte i galli attaccarono le più alte mura della cittadella e fecero improvvisa strage dei difensori”), Silio Italico (“le armi portate in processione da Camillo al suo ritorno, quando i galli furono cacciati dalla cittadella”) e Polibio, che ignora completamente la storia di Camillo. Cacciati i galli da Roma, restava il problema di come ricostruire la città; mentre si discuteva se spostarsi a Veio, appena finito il discorso in senato di Camillo, che voleva rimanere a Roma, un centurione di passaggio al di fuori della curia avrebbe fatto piantare le insegne esclamando “qui rimarremo ottimamente”. Il gesto fu interpretato come di buon auspicio dai senatori, mentre di Brenno si perdono le tracce:

“Ma a togliere ogni incertezza sopraggiunse una frase pronunziata proprio a tempo: mentre poco dopo il discorso di Camillo il senato era riunito nella curia Ostilia per discutere della questione, e delle coorti inquadrate ritornando dai presidii per caso attraversavano il foro, un centurione nella piazza del Comizio esclamò: «O alfiere, pianta l’insegna, qui rimarremo felicemente». Udita quella voce il senato uscito dalla curia gridò che accoglieva quello come un augurio, e la plebe accorsa intorno approvò. Respinta quindi la proposta di legge si cominciò a ricostruire la città disordinatamente. Le tegole furono fornite a spese dello stato, e fu dato il permesso di prendere le pietre e il legname di costruzione dove ciascuno volesse, dietro garanzia di condurre a termine gli edifici entro l’anno. Nella fretta non si presero cura di tracciare vie diritte, e senza distinzione di proprietà si edificava sul terreno trovato libero. Questo è il motivo per cui le vecchie cloache, che prima passavano sotto il suolo pubblico, ora in molti punti passano sotto case private, e inoltre la topografia della città fa pensare che il suolo cittadino sia stato occupato a caso e non distribuito secondo un piano.”

TITO LIVIO, AB URBE CONDITA, V, 55, 1- 5

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