Quando Tiberio dispose il proprio testamento fu per lui naturale inserire come eredi il nipote Tiberio Gemello, figlio di Druso minore, e il nipote Gaio, figlio di Germanico. Fu escluso il fratello di Germanico, Claudio, poiché ritenuto inadatto a governare. Dì li a poco Giunia morì di parto, mentre il nuovo prefetto al pretorio Macrone mostrava di appoggiare Caligola. Tiberio Gemello infatti era sospettato essere figlio adulterino di Claudia Livilla e Seiano. Le condizioni di Tiberio, già malato, peggiorarono nel 37 e il 16 marzo morì a Miseno. Alcuni insinuarono che ripresosi dopo un grave malore, venne fatto soffocare senza scrupoli dal prefetto Macrone, che già aveva acclamato il pronipote del principe, Caligola, come imperatore. Gaio Giulio Cesare Germanico era figlio di Germanico, a sua volta nipote di Tiberio e figlio di Druso Maggiore (fratello dell’imperatore), che seguì fin da piccolo nelle sue campagne in Germania, dove vendicò la sconfitta di Varo a Idistaviso, sconfiggendo Arminio. Proprio perché seguiva ovunque il padre negli accampamenti militari, il piccolo Gaio ricevette il soprannome scherzoso Caligola, ossia piccola caliga, la scarpa militare romana che indossava anche lui.

Un principe buono

Caligola, venticinquenne, era nel pieno delle forze e largamente amato in quanto figlio di Germanico, mentre su Tiberio Gemello, quindicenne, c’erano molti dubbi. Il senato annullò il testamento di Tiberio, riconoscendo Caligola come unico imperatore:

«Pertanto, quando lasciò Miseno, sebbene stesse accompagnando il feretro di Tiberio, vestito a lutto, tuttavia, tra le are e le vittime e le fiaccole ardenti, avanzò in mezzo a una fittissima ed entusiasta folla di gente che gli andava incontro e lo apostrofava, oltre che con nomi ben auguranti, «stella», «pulcino», «pupo», «figlio». E, appena entrato in città, subito per volere unanime del Senato e della folla che fece irruzione nella Curia, fu annullata la volontà di Tiberio che nel testamento gli aveva dato come coerede l’altro nipote ancora fanciullo. Gli vennero conferiti potere e autorità assoluti, in un tale tripudio popolare che nei tre mesi successivi, neppure interi, si dice che furono immolate oltre centosessantamila vittime.»

Svetonio, Caligola, 13

I primi mesi di Caligola furono improntati al buon governo. Tutto lasciava presagire un futuro roseo: la giovane età, la discendenza illustre, il nome che ricordava Giulio Cesare, il suo temperamento mite e giusto. Ma purtroppo si sbagliavano:

«E, appena entrato in città, subito per volere unanime del Senato e della folla che fece irruzione nella Curia, fu annullata la volontà di Tiberio che nel testamento gli aveva dato come coerede l’altro nipote ancora fanciullo. Gli vennero conferiti potere e autorità assoluti, in un tale tripudio popolare che nei tre mesi successivi, neppure interi, si dice che furono immolate oltre centosessantamila vittime. Quando poi, dopo alcuni giorni, si trasferì nelle isole vicine alla Campania, si fecero voti per il suo ritorno e nessuno trascurò la benché minima occasione di testimoniare la propria premura per la sua incolumità. Quando si ammalò, mentre tutti vegliavano di notte intorno alla reggia sul Palatino, vi fu chi fece voto di combattere con le armi per la sua guarigione e chi offrì la propria vita in cambio della sua, esponendo un cartello col voto espresso. A quell’immenso amore dei cittadini, si aggiunse anche un notevole favore degli stranieri. Infatti Atrabano, re dei Parti, che sempre aveva manifestato odio e disprezzo per Tiberio, chiese spontaneamente di essergli amico e venne a colloquio col legato consolare e, quando ebbe attraversato l’Eufrate, rese ossequio alle aquile e alle insegne romane e all’effigie dei Cesari. Del resto anch’egli alimentava il favore delle genti con ogni forma di popolarità. Dopo aver declamato in pubblico l’orazione funebre di Tiberio e dopo avere celebrato il funerale con grande solennità, subito si affrettò verso Pandataria e Ponza, per portar via di là le ceneri della madre e del fratello, nonostante vi fosse una terribile tempesta, affinché ancor più spiccasse la sua pietà filiale e vi si avvicinò con grande devozione e con le sue stesse mani le mise nelle urne cinerarie. Inoltre, con una messinscena altrettanto spettacolare, le portò ad Ostia, avendo issato a poppa un vessillo, e di lì, lungo il Tevere a Roma, facendo trainare la nave dai cavalieri più insigni e in pieno giorno, in mezzo alla folla, le fece portare su due lettighe nel Mausoleo, istituì in loro onore riti funebri con celebrazioni pubbliche annuali e inoltre, in onore di sua madre istituì giochi circensi e un carpento per trasportare in processione la sua effigie. Inoltre, per commemorare il padre, chiamò Germanico il mese di settembre. In seguito, con un’unica delibera del Senato, conferì alla nonna Antonia tutti gli onori che erano stati conferiti a Livia Augusta; assunse come collega nel consolato lo zio Claudio, fino ad allora semplice cavaliere romano, adottò il fratello Tiberio lo stesso giorno in cui quello assunse la toga virile e lo denominò principe della gioventù. In onore delle sue sorelle decretò che a tutti i giuramenti si aggiungesse la formula: «Non considererò me stesso e i miei figli più cari di Caio e delle sue sorelle» e allo stesso modo nelle relazioni dei consoli fece aggiungere la frase: «Che sia di buon augurio e di buona fortuna a Caio Cesare e alle sue sorelle». Con mossa egualmente popolare, graziò i condannati e i confinati e concesse indulgenza a tutte le imputazioni che fossero rimaste in sospeso dal periodo precedente. Fece bruciare tutti gli atti processuali relativi alle cause della madre e dei fratelli, dopo averli fatti raccogliere tutti nel foro, affinché nessun delatore o testimone avesse a temere ancora, e dopo aver chiamato a testimoni gli dèi che egli non ne aveva letto né toccato alcuno. Rifiutò di accettare un libello che denunciava rischi per la sua incolumità, contestando che non aveva fatto nulla per cui potesse essere odiato da qualcuno e disse di non avere orecchie per i delatori. Fece allontanare dalla città i cinedi che praticavano orribili atti di libidine, facendosi convincere a fatica a non farli gettare in mare. Permise che le opere di Tito Labieno, Cremuzio Cordo e Cassio Severo, tolte di mezzo per decreto del Senato, fossero ripescate e messe in giro e lette e rilette, perché era suo massimo interesse che tutti gli eventi accaduti fossero tramandati ai posteri. Rese pubblici i conti dello Stato, la cui pubblicazione, solitamente consentita da Augusto, era stata sospesa da Tiberio. Concesse ai magistrati libertà di giurisdizione senza doversi appellare a lui. Riesaminò con severità e attenzione, ma sempre con moderazione, i cavalieri romani e privò pubblicamente del cavallo chi si fosse macchiato di qualche misfatto o ignominia e fece soltanto tralasciare di nominare negli elenchi coloro che avevano commesso colpe minori. Per alleviare il lavoro dei giudici, aggiunse una quinta decuria alle quattro precedenti. Cercò anche di restituire al popolo il diritto di voto ripristinando l’uso dei comizi. Pagò i lasciti del testamento di Tiberio, sebbene fosse stato annullato, ma anche quelli del testamento di Giulia Augusta che Tiberio aveva tenuto nascosti e lo fece fedelmente senza sollevare obiezioni. Condonò il mezzo per cento delle vendite all’asta in Italia. Risarcì a molti i danni d’incendio. Quando restituì ad alcuni re i loro domini, rese loro anche il ricavato dei tributi e il reddito prodotto nell’interregno, come nel caso di Antioco Commageno, al quale restituì cento milioni di sesterzi confiscatigli. Per sembrare favorire al massimo ogni buon esempio, donò ottantamila sesterzi a una liberta che, sottoposta a terribili torture, non aveva confessato le colpe del suo padrone. Per questo gli venne attribuito, tra gli altri riconoscimenti, un clìpeo d’oro che una volta l’anno i collegi sacerdotali dovevano recare in Campidoglio seguiti dai senatori in processione, mentre un coro di nobili fanciulli e giovinette celebrava le sue virtù con un canto modulato in versi. Si deliberò inoltre che il giorno in cui aveva assunto il comando venisse chiamato Parile, come segno di una rifondazione di Roma.»

SVETONIO, CALIGOLA, 14-16

La follia

Tuttavia pochi mesi dopo l’inizio del suo principato Caligola cadde gravemente malato e per poco non rischiò di morire; non sappiamo quali siano state le sue reali condizioni di salute e cosa abbia causato tutto ciò, ma tutte le fonti sono concordi nell’identificare il principe venuto dopo la lunga degenza come un mostro. Pare che andasse ripetendo un verso di Accio, “Oderint, dum metuant”. Ossia “che mi odino, purchè mi temano”:

«Finora ho parlato più o meno del principe; mi resta ora di parlare del mostro. Dopo aver assunto vari epiteti (si faceva chiamare infatti Pio, Figlio dell’accampamento, Padre degli eserciti, Cesare Ottimo Massimo), quando sentì per caso alcuni re, giunti a Roma per rendergli ossequio, discettare durante la cena che si teneva alla sua mensa, della nobiltà di stirpe, esclamò: «Uno solo sia il sovrano, uno solo il re!». E mancò poco che si mettesse in testa immediatamente il diadema e mutasse la parvenza del principato nella forma effettiva del regno. Ma, poiché gli ricordarono che egli era andato ben oltre la grandezza dei principi e dei re, da quel momento iniziò ad attribuirsi la maestà divina. Diede incarico di portare dalla Grecia i simulacri degli dei, noti per la loro importanza religiosa o artistica, e tra questi la statua di Zeus Olimpio, e fece sostituire la testa di queste statue con la riproduzione della propria. Fece prolungare una parte del Palazzo fino al Foro e, trasformato il tempio di Castore e Polluce in vestibolo, si presentava spesso seduto tra i due Dioscuri a coloro che si recavano da lui, come terza divinità da adorare in mezzo agli altri due e alcuni lo salutavano anche come Giove Laziale. Instituí inoltre in onore del proprio nume un tempio, dei sacerdoti e vittime assai rare. Nel tempio era stata eretta una sua statua d’oro a grandezza naturale, che ogni giorno veniva avvolta da una veste identica a quella indossata da lui stesso. I cittadini più ricchi si contendevano le cariche di quel sacerdozio brigando e offrendo grandi somme di denaro per ottenerle. Le vittime erano fenicotteri, pavoni, urogalli, faraone, galli indiani, fagiani ed ogni giorno ne veniva immolata una specie diversa. Di notte poi invitava la luna piena e luminosa, con preghiere assidue, a far l’amore e a giacere con lui; di giorno invece conversava in segreto con Giove Capitolino, ora bisbigliando e porgendo a sua volta l’orecchio, ora a voce alta e lanciando improperi. Lo si udì infatti minacciare: «O tu togli di mezzo me, o io te!». Finché, supplicato, così andava dicendo, e anzi invitato a vivere con lui, fece unire il Palatino con il Campidoglio, facendo passare un ponte sopra il tempio del Divo Augusto. Subito dopo, per stargli ancora più vicino, fece gettare le fondamenta della nuova reggia proprio nell’area capitolina. Non voleva essere ritenuto, né detto nipote di Agrippa, in quanto questi non era nobile e si adirava se qualcuno, in un discorso o in un carme inseriva costui tra le figure dei Cesari. Diceva in giro che sua madre era nata da un rapporto incestuoso tra Augusto e sua figlia Giulia. Non contento di infamare così Augusto, vietò di celebrare con feste solenni le vittorie di Azio e di Sicilia, come funeste e rovinose per il popolo romano. Definiva la sua bisnonna Livia Augusta un Ulisse travestito da donna e osò anche accusarla, in una lettera al Senato, di ignobiltà, come se fosse nata da un avo materno, decurione di Fondi, mentre da documenti pubblici risulta che Aufidio Lurcone ricoprì cariche politiche a Roma. Alla nonna Antonia negò un’udienza privata, da lei richiesta, a meno che non fosse presente anche il prefetto Macrone. Con tali umiliazioni e dinieghi ne causò la morte, se addirittura, come pensano alcuni, non la fece avvelenare. Quando morì non le rese alcun onore e assistette alla sua cremazione dal triclinio. Fece uccidere suo fratello, Tiberio, quando questi meno se l’aspettava, inviandogli all’improvviso un tribuno militare e spinse Silano, suo suocero, ad uccidersi tagliandosi la gola con un rasoio. Addusse come pretesto, nel caso del suocero, il fatto che costui non aveva voluto seguirlo, una volta che egli si era imbarcato con mare assai agitato ed era rimasto a Roma, nella speranza di assumere il potere se gli fosse successo qualcosa durante la tempesta; nel caso del primo, il fatto che il suo alito emanava odore di medicinale, come se facesse uso di antidoti per premunirsi da un suo avvelenamento. In realtà, Silano aveva voluto evitare, non tollerandolo, il mal di mare e il disagio della navigazione e Tiberio aveva usato un medicamento perché affetto da una tosse insistente e sempre più ostinata. Risparmiò lo zio Claudio solo per farne il suo zimbello. Aveva abitualmente rapporti incestuosi con tutte le sue sorelle e in pieno banchetto a turno ne faceva sdraiare una alla sua destra, mentre teneva a fianco, dall’altro lato, la moglie. Si dice che abbia sedotto la sorella Drusilla, ancora vergine, quando ancora indossava la pretesta, e una volta fu anche sorpreso dalla nonna Antonia, che li allevava in casa sua, mentre giaceva con lei. Dopo averla data in sposa a Lucio Cassio Longino ex console, gliela portò via e la tenne con sé, pubblicamente, come una moglie legittima e, una volta che si era ammalato, la nominò erede dei suoi beni e del suo potere. Quando Drusilla morì, proclamò la sospensione dell’amministrazione della giustizia e in quel periodo fu ritenuto delitto capitale ridere, lavarsi, cenare con i genitori o con la moglie e i figli. Non sopportando tuttavia il dolore, partì all’improvviso di notte da Roma, andò in Campania, da lì si diresse a Siracusa e di nuovo tornò subito indietro, facendosi crescere i capelli e la barba. Da quel giorno in qualunque circostanza, anche nelle assemblee pubbliche e presso i militari, giurò solo sul nume di Drusilla. Non amò con eguale intensità e considerazione le altre sorelle, anzi spesso le fece prostituire ai suoi amasii e poi, proprio per questo potè più facilmente farle condannare come adultere e complici di una congiura ai suoi danni, nel processo contro Emilio Lepido. Inoltre, non soltanto rese pubbliche le lettere scritte di loro pugno, che era riuscito a raccogliere con l’inganno e con la violenza, ma consacrò a Marte Vendicatore tre spade approntate per la sua uccisione, facendovi incidere sopra un’epigrafe. È difficile discernere se sia stato più infame nel contrarre o nello sciogliere o nel gestire i suoi rapporti coniugali. Ordinò di portare da lui Livisa Orestilla, dopo aver assistito alle sue nozze con Caio Pisone ma, dopo alcuni giorni, la ripudiò e la relegò per due anni poiché gli era sembrato che in quel periodo di tempo la donna avesse ripreso i rapporti con il primo marito. Altri raccontano che, invitato al banchetto nuziale, aveva intimato a Pisone che gli stava di fronte: «Non stare così addosso a mia moglie!» e che se l’era portata via dal convito all’improvviso e il giorno dopo aveva dichiarato in un editto di essersi procurato una moglie seguendo l’esempio di Romolo e di Augusto. Avendo sentito dire che la nonna di Lollia Paolina, moglie di Caio Memmio, ex console e comandante dell’esercito, era stata una donna bellissima, fece venire subito dalla provincia Lollia e, toltala al marito, la sposò. Quasi subito dopo, la ripudiò e le vietò per tutta la vita di avere rapporti sessuali con alcuno. Amò invece più intensamente e con maggior costanza Cesonia che non era particolarmente bella, né giovane, ed aveva già avuto tre figlie da un altro marito, ma era sfrenatamente sensuale e dissoluta e spesso la mostrò ai soldati al suo fianco a cavallo, con la clamide, lo scudo e l’elmo e la mostrò anche nuda ai suoi amici. La onorò del titolo di moglie appena ebbe partorito e in quello stesso giorno si dichiarò suo sposo e padre della bambina appena nata. Poi portò in giro per tutti i templi delle dee quella bambina, che chiamò Giulia Drusilla, e la pose in grembo a Minerva raccomandandole di nutrirla e di allevarla. La riteneva del suo seme se non altro perché ne riconosceva i segni della crudeltà, che in lei era già fin da allora tale da spingerla a graffiare e ficcare le dita negli occhi dei bambini che giocavano con lei. Sarebbe futile e di poca importanza aggiungere a tutto questo in che modo abbia trattato parenti e amici: Tolomeo, figlio del re Giuba e suo cugino (era infatti anche lui nipote di Marco Antonio, essendo nato da sua figlia Selene) e soprattutto Macrone e la stessa Ennia, che l’avevano aiutato a prendere il potere. A tutti questi, per diritto di parentela e a ricompensa dei loro meriti, fu data una morte cruenta. E non ebbe maggior rispetto o umanità verso il Senato: ad alcuni che avevano rivestito altissime cariche fece la concessione di correre in toga presso il suo cocchio per molte miglia e di stare ai suoi piedi o alla spalliera, con un tovagliolo alla cintola, mentre egli cenava; altri, dopo averli fatti ammazzare di nascosto, continuò a farli convocare, come se fossero vivi e dopo alcuni giorni, dichiarò, mentendo, che si erano suicidati. Sospese l’incarico ai consoli che si erano dimenticati di annunziare al pubblico il suo giorno natale e lo Stato rimase per tre giorni senza la sua più alta carica. Fece flagellare il suo questore, indiziato di congiura, avendo fatto gettare sotto i piedi dei soldati la veste che gli era stata strappata di dosso, affinché potessero poggiarvisi più saldamente per frustarlo. Con eguale disprezzo e violenza trattò anche gli altri ordini. Irritato dal chiasso della folla che occupava i posti gratuiti del Circo nel bel mezzo della notte, fece scacciare tutti a bastonate. In quello scompiglio rimasero schiacciati più di venti cavalieri romani e altrettante matrone, oltre un numero imprecisato di altre persone della folla. Durante i ludi scenici, per creare la rissa tra la plebe e i cavalieri, dava le elargizioni prima del tempo previsto, affinché i posti riservati ai cavalieri fossero occupati dai più poveri. Durante alcuni spettacoli gladiatori, talvolta faceva togliere il velario quando il sole era più ardente, non permetteva a nessuno di uscire e, eliminato l’allestimento ordinario, offriva al pubblico bestie macilente, gladiatori scadentissimi e vecchissimi, talora gladiatori per burla, padri di famiglia noti per un qualche difetto fisico. Spesso minacciò di affamare il popolo, dopo aver fatto chiudere i granai pubblici. In questi modi rivelò al massimo la sua indole crudele. Poiché le bestie da dare in pasto alle fiere destinate allo spettacolo costavano troppo care, fece dare loro da sbranare alcuni condannati e, passando in rassegna le prigioni, senza guardare le note di alcuno, ordinò di farli uscire tutti, «da quel calvo a quell’altro calvo», standosene soltanto in mezzo al portico. Pretese che un tale che aveva promesso di battersi come gladiatore per la guarigione dell’imperatore, mantenesse il voto e stette a guardarlo mentre combatteva con la spada e non lo fece smettere finché non risultò vincitore e solo dopo essersi fatto pregare a lungo. Un altro che, per lo stesso motivo, aveva fatto voto di uccidersi, lo consegnò a dei ragazzi affinché cinto di verbene e bende sacre, lo spintonassero da un rione all’altro fino a farlo precipitare da un’altura. Condannò molti cittadini di onorevole condizione, dopo averli sfregiati col marchio d’infamia, ai lavori forzati nelle miniere e nella lastricazione delle strade, o li fece rinchiudere in gabbia costringendoli a stare a quattro zampe, come bestie, altri li fece segare in due e non per gravi colpe, magari perché avevano giudicato male un suo spettacolo o non avevano mai giurato sul suo genio. Costringeva i genitori ad assistere alla tortura dei figli e ad un genitore che aveva addotto il pretesto di un’indisposizione per sottrarsi, fece mandare una lettiga; un altro, subito dopo averlo fatto assistere al supplizio, lo invitò a pranzo e lo provocava a ridere e scherzare, con ogni tipo di allettamento. Fece battere con le catene in sua presenza per svariati giorni un organizzatore di spettacoli e di cacce, e lo fece uccidere solo quando il lezzo della sua testa, per le ferite marcite d’infezione, divenne insopportabile. Fece bruciare vivo in mezzo all’arena dell’anfiteatro il compositore di un’atellana, per un verso di senso ambiguo. Ordinò di far ritirare dall’arena un cavaliere romano, condannato ad esser dato in pasto alle belve, che si proclamava innocente: gli fece strappare la lingua e poi lo mandò di nuovo nell’arena. Una volta, poiché aveva chiesto a un tale che tornava da un lungo esilio, come fosse solito passare il tempo laggiù e quello, per adularlo, gli aveva risposto: «Pregavo sempre gli dei di far morire Tiberio, come poi è accaduto, e che divenissi tu imperatore», pensando che anche quelli condannati da lui all’esilio chiedessero in preghiera la sua morte, mandò degli emissari nelle isole per ucciderli tutti. Essendogli venuta la voglia di fare a pezzi un senatore, istigò alcuni affinché, appena fosse entrato nella Curia, lo assalissero, proclamandolo nemico pubblico e dopo averlo trafitto con gli stili, lo dessero da straziare alla folla e fu pago solo dopo aver visto le membra e gli arti e le viscere di quello trascinati per le strade e poi ammucchiate davanti a sé. E aggiungeva all’atrocità delle sue azioni quella delle parole. Diceva che la cosa che più lodava e approvava della propria indole era, per usare un suo termine, la ἀδιατρεψίαν (cioè l’impudenza). Alla nonna Antonia che lo rimproverava, come se non bastasse solo disobbedire, disse: «Ricordati che a me è concesso fare ogni cosa e contro chiunque!». Quando stava per uccidere il fratello e sospettava che quello, temendo d’essere avvelenato, prendesse un antidoto, disse: «Un antidoto contro Cesare?». Minacciava le sorelle che aveva relegato in esilio, dicendo che egli oltre alle isole possedeva anche le spade. Un ex pretore, da Anticira, dove si era ritirato per motivi di salute, aveva chiesto insistentemente di potere prolungare il congedo. Caligola, avendo ordinato di ucciderlo, soggiunse che a una persona alla quale non era giovato per tanto tempo l’elleboro, sarebbe giovato un salasso di sangue. Quando ogni dieci giorni firmava l’elenco dei prigionieri da torturare, diceva che egli «regolava i conti». Avendo condannato contemporaneamente dei Galli e dei Greci, si vantava di «aver soggiogato la Gallogrecia». Non permise che si suppliziasse alcuno se non con colpi brevi e frequenti, per via di quel suo precetto noto e spesso da lui ribadito: «Ferisci in modo che senta di morire!». Una volta, avendo fatto punire per un errore di nominativo una persona diversa, disse che anche quello aveva meritato eguale sorte. Di tanto in tanto andava ripetendo quel verso di una tragedia: Odino, purché temano. Spesso inveì contro tutti i senatori allo stesso modo, appellandoli clienti di Seiano, delatori di sua madre e delle sue sorelle, tirando fuori i documenti che aveva fatto finta di bruciare, difendendo la efferatezza di Tiberio come inevitabile se si doveva prestar fede a così tanti accusatori. Denigrò spesso l’ordine dei cavalieri come dedito agli spettacoli del Circo. Adirato con la folla che plaudiva contrariamente alle sue preferenze, esclamò: «Ah, se il popolo romano avesse una sola testa!». Quando venne richiesto il ladro Tetrinio, disse che erano Tetrinii anche quelli che lo richiedevano. Cinque reziari tunicati che combattevano in gruppo erano stati vinti da altrettanti avversari senza opporre alcuna resistenza. Avendo ordinato che fossero uccisi, uno di loro, afferrata di nuovo la fiocina, uccise tutti i vincitori: egli allora condannò come esecrabile quella strage e imprecò contro quelli che avevano tollerato un simile spettacolo.»

SVETONIO, CALIGOLA, 22-30

Forse l’imperatore era impazzito, forse era già pazzo, o forse semplicemente molte delle fonti essendo scritte da senatori sono ostili nei suoi confronti per partito preso, o forse tutte le cose messe insieme. Si fece costruire perfino delle enormi navi nel lago di Nemi, dove passava il tempo libero, che vennero poi ritrovate durante il periodo fascista quando il lago fu prosciugato (e successivamente distrutte durante la seconda guerra mondiale in circostanze non del tutto chiaro). E’ difficoltoso distinguere la propaganda dalla realtà, ma è estremamente probabile sia che la malattia abbia compromesso le sue facoltà mentali, sia che nei suoi modi di fare ci fosse una deliberata sfida al senato:

«Eguale crudeltà, sia negli atti che nelle parole, mostrava anche quando si dedicava agli svaghi ed era intento al gioco o a banchettare. Spesso, mentre pranzava e sbevazzava, faceva svolgere in sua presenza interrogatori con torture, e un soldato abile a decapitare mozzava il capo ad alcuni prigionieri tratti dal carcere. A Pozzuoli, mentre si dedicava a quel ponte da lui escogitato, di cui abbiamo parlato prima, dopo aver invitato molti dalla riva ad avvicinarglisi, improvvisamente li gettò tutti in mare e con remi e pali ricacciò in acqua quelli che cercavano di salvarsi aggrappandosi ai timoni. A Roma, durante un banchetto pubblico, affidò immediatamente al carnefice un servo che aveva rubato una lamina d’argento da un letto tricliniare, e ordinò che le mani gli fossero mozzate e appese al collo e che fosse portato in giro tra i convitati così conciato, preceduto da un cartello che spiegava il motivo di quella punizione. Trafisse con un pugnale un gladiatore mirmillone che era venuto dalla palestra per addestrarlo al combattimento con armi spuntate: quando questi si lasciò cadere spontaneamente a terra, egli lo trafisse e poi andò in giro correndo con la palma in mano a mo’ di vincitore. Una volta, condotta una vittima all’altare, egli, con le vesti succinte da sacerdote sacrificatore, librato in aria il maglio, ammazzò il sacerdote che doveva sgozzare la vittima. Durante un assai lauto banchetto, scoppiò improvvisamente a ridere e ai consoli seduti al suo fianco, che gli chiedevano perché mai ridesse in tal modo, rispose: «Di cos’altro se non del fatto che a un mio solo cenno voi due potreste essere immediatamente sgozzati?». Tra le varie sue beffe, una volta, stando in piedi presso la statua di Giove, chiese ad Apelle, un attore tragico, chi dei due gli sembrasse più grande e, poiché quello esitava, lo frustò e mentre l’attore lo supplicava, egli magnificava quella voce come dolcissima perfino nei gemiti. Ogni volta che baciava il collo della moglie o di un’amante qualsiasi, soggiungeva: «Un collo così bello sarà spezzato appena lo vorrò». E a volte soleva anche ripetere che anche con le corde avrebbe cercato di far confessare alla sua Cesonia perché mai l’amasse tanto. E con livore e cattiveria pari a tale arroganza e crudeltà, perseguitò quasi tutti gli uomini d’ogni età. Fece abbattere e rompere le statue degli uomini illustri che Augusto aveva fatto trasportare dalla piazza del Carìipidoglio alquanto angusta, al Campo Marzio, in modo tale che, in seguito, quando furono restaurate, non si poterono ricostruire le iscrizioni e vietò di erigere alcuna statua ad alcun uomo ancora vivo in alcun luogo se non con il suo consenso o per sua iniziativa. Pensò persino di far distruggere i poemi omerici, chiedendosi «perché mai non dovesse esser lecito a lui ciò che lo era stato per Platone, che aveva bandito Omero dalla sua repubblica ideale». E poco mancò che non facesse togliere da tutte le biblioteche i libri e le immagini di Virgilio e Tito Livio, criticando l’uno come privo d’ingegno e di scarsissima cultura, l’altro come prolisso e trascurato nella narrazione storica. Anche dei giureconsulti spesso diceva in giro che aveva intenzione di abolire ogni uso della loro scienza e che egli «avrebbe fatto in modo, sì, per Ercole, che nessuno oltre lui amministrasse la giustizia». Tolse ai cittadini più nobili gli antichi stemmi gentilizi: ai Torquati la collana; ai Cincinnati il ricciolo; ai Pompei, di antica stirpe, l’appellativo Magno. Dopo aver invitato dal suo regno Tolomeo (del quale ho già parlato) e dopo averlo accolto con i dovuti onori, lo fece uccidere per la sola ragione che quello, al suo ingresso nell’anfiteatro, in occasione di uno spettacolo gladiatorio fatto allestire da Caligola, aveva attirato su di sé l’attenzione di tutti col suo splendido mantello di porpora. Ogni volta che gli capitavano davanti giovani belli, dai bei capelli, ne deturpava l’aspetto, facendo radere loro la nuca. Esio Proculo, figlio di un primipilo, per la sua notevole mole e bellezza fisica, era soprannominato Colossero: Caligola lo fece arrestare all’improvviso, mentre assisteva a uno spettacolo e lo costrinse a duellare prima con un gladiatore trace e subito di seguito con un oplòmaco e, poiché era riuscito entrambe le volte vincitore, ordinò di incatenarlo immediatamente, di trascinarlo per i rioni della città, mostrandolo alle donne ricoperto di stracci, e poi sgozzarlo. Nessuno per lui fu tanto povero o disgraziato da non trovare il modo di recargli danno. Istigò contro il sacerdote principale di Diana Nemorense, poiché da molti anni ormai era in carica, un avversario più vigoroso. Un giorno in cui si teneva uno spettacolo gladiatorio, poiché l’essedario Porio, mentre affrancava un suo schiavo per festeggiare il successo riportato nel combattimento, era stato applaudito dalla folla con particolare entusiasmo, Caligola si slanciò dagli spalti contro di lui con tale foga che, inciampando nell’orlo della toga, ruzzolò per i gradini, esecrando indignato che un popolo, signore delle genti, per una cosa così insignificante tributasse più onore a un gladiatore che ai prìncipi deificati o a lui stesso, vivo e presente. Non rispettò né il suo né l’altrui pudore. Si racconta che abbia avuto relazioni scandalose con Marco Lepido, con il pantomimo Mnestere e con alcuni ostaggi. Valerio Catullo, giovane di famiglia consolare, raccontava in giro di averlo posseduto e di essersi sfiancato in quegli amplessi. Oltre ai rapporti incestuosi con le sorelle e alla sua ben nota passione per la prostituta Pirallide, non risparmiò donna alcuna di rango elevato: le invitava per lo più a cena con i loro mariti, le faceva sfilare ai suoi piedi, le esaminava con cura e a lungo, come fanno i mercanti di schiavi, sollevandone con la mano il volto, se alcune, vergognandosi, chinavano il mento. Poi, quando gli veniva l’uzzolo, uscito dalla sala del triclinio, faceva chiamare quella che aveva trovato più piacente e poco dopo tornava in sala con i segni ancora evidenti dell’amplesso lascivo, e pubblicamente esprimeva elogi o critiche elencando pregi e difetti del corpo della donna e dell’amplesso. Ad alcune, a nome del marito, se costui era assente, comunicava il ripudio e ordinava che venisse registrato agli atti. Nel dissipare, fu superiore in ingegno a qualsiasi scialacquatore. Ideò un nuovo tipo di bagni e straordinarie qualità di cibi e di cene, sì che si lavava con unguenti caldi e freddi, sorbiva preziosissime perle sciolte nell’aceto, faceva imbandire pani e vivande d’oro agli invitati, ripetendo spesso che o si era un uomo frugale o si era Cesare. E persino lanciò alla plebe dall’alto della Basilica Giulia, per alcuni giorni, monete in gran quantità. Fece costruire anche navi liburniche a dieci ordini di rematori con poppe incastonate di gemme, vele variopinte, con dovizia di terme, portici e triclinii e grande varietà di viti e di alberi da frutta, a bordo delle quali, sdraiato, banchettava di giorno, tra danze e musiche, navigando lungo le coste della Campania. Quando si faceva costruire ville e palazzi, senza alcun senso della misura, desiderava soprattutto la realizzazione di opere ritenute impossibili: costruire moli in acque di mare agitate e profonde, fendere rupi di pietra durissima, portare i campi all’altezza delle colline mediante terrapieni, spianare i gioghi dei monti con opere di scavo, il tutto con eccezionale rapidità, poiché ogni indugio si pagava con la vita. Per non elencare ogni cosa, in meno di un anno, dissipò immense ricchezze e l’intero tesoro di Tiberio, duemila e settecento milioni di sesterzi. Prosciugato il patrimonio, avendo bisogno di ricchezze, si diede alle ruberie, escogitando in maniera assai astuta ogni forma di calunnie, di aste giudiziarie e di tributi. Non riconosceva il diritto di cittadinanza ai discendenti di coloro che l’avevano ottenuta per sé e per i propri posteri, eccettuati i loro figli. Sosteneva infatti che non si dovessero intendere come posteri quelli che venivano dopo il primo grado e, se gli portavano come prove i diplomi del Divo Giulio o del Divo Augusto, li stracciava in quanto vecchi e obsoleti. Denunciava come false le dichiarazioni di quei censi che, per un qualsiasi motivo, successivamente fossero aumentati. Annullò i testamenti dei primipilari che, dall’inizio del principato di Tiberio, non avevano nominato come eredi né quello né lui stesso, in quanto esempi di ingratitudine ma ritenne nulli e vani anche i testamenti di chi, a detta di qualcuno, aveva deciso di nominare erede l’imperatore. Instillò in tutti una tale paura, che lo nominavano erede, insieme ai loro familiari, anche persone a lui sconosciute e dei genitori lo inserirono, insieme ai propri figli, nei loro testamenti ed egli osava anche dire che lo avevano preso in giro, se continuavano a vivere dopo il testamento e a molti di loro fece recapitare manicaretti avvelenati. Giudicava le cause solo dopo aver fissato la somma per la cui acquisizione si doveva procedere, e solo una volta ottenutala si levava la seduta. Inoltre, non sopportando anche il più piccolo indugio, una volta arrivò a condannare con una sola sentenza più di quaranta imputati di cause diverse e si vantò con Cesonia, che si era appena ridestata, di aver fatto tutto questo nel tempo che lei riposava dopo pranzo. Faceva mettere all’asta ciò che rimaneva dopo gli spettacoli e lo esponeva e lo vendeva fissando lui stesso i prezzi e facendoli salire a tal punto che alcuni, costretti a comprare a un prezzo altissimo e avendo perso così tutti i loro beni, si tagliarono le vene. È ben noto che una volta Caio avvertì il banditore di non lasciarsi sfuggire l’ex pretore Aponio Saturnino che, sonnecchiando lì tra i sedili, chinava ogni tanto il capo in avanti, come se annuisse, e non si ultimò la licitazione se non quando, senza che quello lo sapesse, gli furono aggiudicati tredici gladiatori per nove milioni di sesterzi.»

SVETONIO, CALIGOLA, 32-38

Gli atteggiamenti sempre più orientaleggianti, la lussuria, la mancanza di contegno, tipica del mos maiorum, condussero il principe, forse in parte impazzito, alla lotta aperta col senato, deridendolo affidando al suo cavallo preferito, Incitato, le insegne di console. La misura era ormai colma e nel 41, d’accordo con i pretoriani, i senatori decisero di sbarazzarsi dell’imperatore:

«Favorì chi gli stava a cuore, fino alla follia. Inviava baci all’attore di pantomimo Mnestere, anche durante lo spettacolo e se qualcuno faceva anche un minimo rumore mentre quello danzava, lo faceva trascinare presso di sé e lo flagellava con le sue stesse mani. A un cavaliere romano che dava fastidio, fece notificare l’ordine di partire senza il minimo indugio per Ostia e recare al re Tolomeo, in Mauritania, un plico il cui contenuto era: «Non fare né bene né male al latore della presente». Nominò a capo della sua guardia del corpo germanica alcuni Traci. Alleggerì l’armatura dei mirmilloni. A uno di essi, di nome Colombo, che aveva vinto il combattimento ma era rimasto leggermente ferito, fece stillare nella piaga un veleno che poi chiamò Colombino. Fu trovato infatti insieme agli altri veleni così denominato con una scritta di suo pugno. Era accanito sostenitore dei Verdi tanto che spesso si intratteneva a cena nelle scuderie e, durante una di queste gozzoviglie, diede vari doni per un valore di due milioni di sesterzi all’auriga Eutico. Per il suo cavallo Incitato faceva imporre e rispettare il silenzio, anche con l’intervento delle guardie, la sera prima della corsa, affinché non fosse disturbato. Gli donò, oltre una stalla di marmo e una greppia d’avorio, coperte di porpora e bardamenti di pietre preziose e anche una casa con tanto di servitù e mobilio, perché le persone che faceva invitare a nome del cavallo fossero ospitate assai degnamente. Si dice che volesse persino candidarlo al consolato.»

SVETONIO, CALIGOLA, 55

Fine di un princeps

Le continue stravaganze ed eccessi di Caligola non potevano durare a lungo nella Roma del I secolo d.C. Attiratosi le antipatie di senatori e soldati, era solo una questione di tempo. La morte giunse infine il 24 gennaio del 41 d.C., per mano dei pretoriani, con l’appoggio del senato:

« […] verso l’una, Caio era indeciso se andare a pranzo, avendo ancora lo stomaco in disordine per quanto aveva mangiato il giorno prima. Alla fine, persuaso dagli amici, uscì. In una galleria, che doveva attraversare, alcuni nobili giovinetti chiamati dall’Asia per rappresentare uno spettacolo in scena stavano provando. Caio si fermò a guardarli e ad incoraggiarli e, se il capo della compagnia non avesse detto che avevano freddo, avrebbe deciso di tornare indietro e far eseguire lo spettacolo. Da questo punto ci sono due versioni diverse: alcuni raccontano che, mentre stava parlando con questi ragazzi, Cherea da dietro lo colpì pesantemente alla nuca con la spada, di taglio, dopo aver detto «Colpisci!» e subito l’altro congiurato, il tribuno Cornelio Sabino, gli trafisse il torace. Secondo altri, invece, Sabino, fatta allontanare la folla da alcuni centurioni complici della congiura, aveva chiesto a Caio la parola d’ordine, secondo la consuetudine militare e, quando quello aveva risposto «Giove», Cherea da dietro aveva gridato: «Prendilo per certo» e, mentre si voltava, lo aveva colpito alla mascella. Mentre Caio a terra, con le membra contratte, gridava di essere ancora vivo, gli altri lo finirono con trenta ferite. Infatti la parola d’ordine per tutti era: «Colpisci ancora!». Alcuni gli trafissero anche i genitali. All’inizio del tumulto accorsero i portantini e anche le guardie del corpo germaniche che uccisero alcuni degli attentatori e anche alcuni senatori innocenti.»

Svetonio, Caligola, 58

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Caligola: oderint dum metuant
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