Gaio Giulio Cesare Germanico nacque il 31 agosto del 12 d.C. Fin da piccolo seguì il padre Germanico nelle sue campagne in Germania, dove vendicò la sconfitta di Varo a Idistaviso, sconfiggendo Arminio. Proprio perché seguiva ovunque il padre negli accampamenti militari, il piccolo Gaio ricevette il soprannome scherzoso Caligola, ossia piccola caliga, la scarpa militare romana che indossava anche lui.

Germanico morì di lì a poco, assassinato forse da Pisone, che lo aveva affiancato come governatore della Siria, mentre si trovava in oriente con un imperium pronconsulare maius. Alcuni insinuarono anche che Tiberio fosse coinvolto nella sua morte. Al ritorno a Roma, Gaio e la madre Agrippina maggiore non furono visti di buon occhio; Agrippina in un banchetto rifiutò platealmente del cibo offerto da Tiberio, che la accusò di lesa maestà, esiliandola a Ventotene, dove morì nel 33, mentre il fratello di Gaio Nerone venne mandato a Ponza, e morì nel 31. Gaio, rimasto solo, venne allevato nella casa della bisnonna Livia, la moglie di Augusto, che morì nel 29. Ne pronunciò l’elogio funebre, poi si trasferì dalla nonna Antonia, madre di Germanico e di Claudio.

Nonostante il passato, Caligola raggiunse Capri invitato da Tiberio, rimanendo insieme all’imperatore negli anni successivi e sposando nel 33 Giunia Claudia. Quando Tiberio dispose il proprio testamento fu per lui naturale inserire come eredi il nipote Tiberio Gemello, figlio di Druso minore, e il nipote Gaio, figlio di Germanico. Fu escluso il fratello di Germanico, Claudio, poiché ritenuto inadatto a governare. Dì li a poco Giunia morì di parto, mentre il nuovo prefetto al pretorio Macrone mostrava di appoggiare Caligola. Tiberio Gemello infatti era sospettato essere figlio adulterino di Claudia Livilla e Seiano.

Il terzo imperatore

Le condizioni di Tiberio peggiorarono nel 37 e il 16 marzo morì a Miseno. Alcuni insinuarono che ripresosi dopo un grave malore, venne fatto soffocare senza scrupoli dal prefetto Macrone, che già aveva acclamato Caligola come imperatore.

Caligola, venticinquenne, era nel pieno delle forze e largamente amato in quanto figlio di Germanico, mentre su Tiberio Gemello, quindicenne, c’erano molti dubbi. Il senato annullò il testamento di Tiberio, riconoscendo Caligola come unico imperatore:

La morte di Tiberio

«Pertanto, quando lasciò Miseno, sebbene stesse accompagnando il feretro di Tiberio, vestito a lutto, tuttavia, tra le are e le vittime e le fiaccole ardenti, avanzò in mezzo a una fittissima ed entusiasta folla di gente che gli andava incontro e lo apostrofava, oltre che con nomi ben auguranti, «stella», «pulcino», «pupo», «figlio». E, appena entrato in città, subito per volere unanime del Senato e della folla che fece irruzione nella Curia, fu annullata la volontà di Tiberio che nel testamento gli aveva dato come coerede l’altro nipote ancora fanciullo. Gli vennero conferiti potere e autorità assoluti, in un tale tripudio popolare che nei tre mesi successivi, neppure interi, si dice che furono immolate oltre centosessantamila vittime.»

(Svetonio, Caligola, 13-14)

«Dopo aver declamato in pubblico l’orazione funebre di Tiberio e dopo avere celebrato il funerale con grande solennità, subito si affrettò verso Pandataria [Ventotene] e Ponza, per portar via di là le ceneri della madre e del fratello, nonostante vi fosse una terribile tempesta, affinché ancor più spiccasse la sua pietà filiale e vi si avvicinò con grande devozione e con le sue stesse mani le mise nelle urne cinerarie. Inoltre, con una messinscena altrettanto spettacolare, le portò ad Ostia, avendo issato a poppa un vessillo, e di lì, lungo il Tevere a Roma, facendo trainare la nave dai cavalieri più insigni e in pieno giorno, in mezzo alla folla, le fece portare su due lettighe nel Mausoleo, istituì in loro onore riti funebri con celebrazioni pubbliche annuali e inoltre, in onore di sua madre istituì giochi circensi e un carpento [un cocchio] per trasportare in processione la sua effigie. Inoltre, per commemorare il padre, chiamò Germanico il mese di settembre.»

(Svetonio, Caligola, 15)

I primi mesi di Caligola furono improntati al buon governo:

Fece allontanare dalla città i cinedi che praticavano orribili atti di libidine, facendosi convincere a fatica a non farli gettare in mare. Permise che le opere di Tito Labieno, Cremuzio Cordo e Cassio Severo, tolte di mezzo per decreto del Senato, fossero ripescate e messe in giro e lette e rilette, perché era suo massimo interesse che tutti gli eventi accaduti fossero tramandati ai posteri. Rese pubblici i conti dello Stato, la cui pubblicazione, solitamente consentita da Augusto, era stata sospesa da Tiberio. Concesse ai magistrati libertà di giurisdizione senza doversi appellare a lui. Riesaminò con severità e attenzione, ma sempre con moderazione, i cavalieri romani e privò pubblicamente del cavallo chi si fosse macchiato di qualche misfatto o ignominia e fece soltanto tralasciare di nominare negli elenchi coloro che avevano commesso colpe minori. Per alleviare il lavoro dei giudici, aggiunse una quinta decuria alle quattro precedenti. Cercò anche di restituire al popolo il diritto di voto ripristinando l’uso dei comizi. Pagò i lasciti del testamento di Tiberio, sebbene fosse stato annullato, ma anche quelli del testamento di Giulia Augusta che Tiberio aveva tenuto nascosti e lo fece fedelmente senza sollevare obiezioni. Condonò il mezzo per cento delle vendite all’asta in Italia. Risarcì a molti i danni d’incendio. Quando restituì ad alcuni re i loro domini, rese loro anche il ricavato dei tributi e il reddito prodotto nell’interregno, come nel caso di Antioco Commageno, al quale restituì cento milioni di sesterzi confiscatigli. Per sembrare favorire al massimo ogni buon esempio, donò ottantamila sesterzi a una liberta che, sottoposta a terribili torture, non aveva confessato le colpe del suo padrone. Per questo gli venne attribuito, tra gli altri riconoscimenti, un clìpeo d’oro che una volta l’anno i collegi sacerdotali dovevano recare in Campidoglio seguiti dai senatori in processione, mentre un coro di nobili fanciulli e giovinette celebrava le sue virtù con un canto modulato in versi. Si deliberò inoltre che il giorno in cui aveva assunto il comando venisse chiamato Parile, come segno di una rifondazione di Roma.

(Svetonio, Caligola, 16)

L’assolutismo

Dopo un primo periodo idilliaco di governo in collaborazione con il senato, nell’ottobre del 37 venne colpito da una grave malattia. Quando si riprese non fu più lo stesso:

«[…] non passò molto tempo e l’uomo che era stato considerato benefattore e salvatore […] si trasformò in essere selvaggio o piuttosto mise a nudo il carattere bestiale che aveva nascosto sotto una finta maschera»

(Filone di Alessandria, De Legatione ad Gaium, 22)

«Affetto sin dall’infanzia dall’epilessia, nell’adolescenza, pur sopportando abbastanza la fatica, tuttavia talvolta, per collassi improvvisi, non ce la faceva neanche a camminare, stare in piedi, tirarsi su e reggersi dritto. Era consapevole egli stesso della sua debolezza mentale, tanto da pensare talvolta di ritirarsi e curarsi la mente. Si crede che la moglie Cesonia gli avesse propinato un filtro amoroso che lo aveva reso folle. Era afflitto soprattutto dall’insonnia e non dormiva mai più di tre ore a notte e neanche queste tranquille bensì agitate da incubi strani, come quando gli sembrò di vedere il fantasma del mare parlare con lui. Quindi, stufo di star disteso gran parte della notte senza dormire, soleva invocare e attendere l’alba, standosene seduto sul letto oppure percorrendo i lunghissimi porticati.»

(Svetonio, Caligola, 50)

Non è chiaro quale fosse stata la causa, ma da allora il modo di governare cambiò completamente: cominciò a governare in modo assolutistico, senza tenere più in considerazione il senato, che anzi dispregiava; arrivò anche a considerare di dare il consolato al suo carissimo cavallo Incitatus:


«Per il suo cavallo Incitato faceva imporre e rispettare il silenzio, anche con l’intervento delle guardie, la sera prima della corsa, affinché non fosse disturbato. Gli donò, oltre una stalla di marmo e una greppia d’avorio, coperte di porpora e bardamenti di pietre preziose e anche una casa con tanto di servitù e mobilio, perché le persone che faceva invitare a nome del cavallo fossero ospitate assai degnamente. Si dice che volesse persino candidarlo al consolato.»

(Svetonio, Caligola, 55)

Caligola divenne insomma autoritario e dispotico, mettendosi contro praticamente tutti. Venne accusato di adulterio, di uccidere per divertimento, di dilapidare il tesoro pubblico (che reintegrava uccidendo senatori e intascandone le proprietà); infine giunse nel 40 a far porre per disprezzo una sua statua colossale nel tempio di Gerusalemme, causando quasi una rivolta. Si sentiva in tutto e per tutto un dio:

Dopo aver assunto vari epiteti (si faceva chiamare infatti Pio, Figlio dell’accampamento, Padre degli eserciti, Cesare Ottimo Massimo), quando sentì per caso alcuni re, giunti a Roma per rendergli ossequio, discettare durante la cena che si teneva alla sua mensa, della nobiltà di stirpe, esclamò: «Uno solo sia il sovrano, uno solo il re!». E mancò poco che si mettesse in testa immediatamente il diadema e mutasse la parvenza del principato nella forma effettiva del regno. Ma, poiché gli ricordarono che egli era andato ben oltre la grandezza dei principi e dei re, da quel momento iniziò ad attribuirsi la maestà divina. Diede incarico di portare dalla Grecia i simulacri degli dei, noti per la loro importanza religiosa o artistica, e tra questi la statua di Zeus Olimpio, e fece sostituire la testa di queste statue con la riproduzione della propria. Fece prolungare una parte del Palazzo fino al Foro e, trasformato il tempio di Castore e Polluce in vestibolo, si presentava spesso seduto tra i due Dioscuri a coloro che si recavano da lui, come terza divinità da adorare in mezzo agli altri due e alcuni lo salutavano anche come Giove Laziale. Instituí inoltre in onore del proprio nume un tempio, dei sacerdoti e vittime assai rare. Nel tempio era stata eretta una sua statua d’oro a grandezza naturale, che ogni giorno veniva avvolta da una veste identica a quella indossata da lui stesso. I cittadini più ricchi si contendevano le cariche di quel sacerdozio brigando e offrendo grandi somme di denaro per ottenerle. Le vittime erano fenicotteri, pavoni, urogalli, faraone, galli indiani, fagiani ed ogni giorno ne veniva immolata una specie diversa. Di notte poi invitava la luna piena e luminosa, con preghiere assidue, a far l’amore e a giacere con lui; di giorno invece conversava in segreto con Giove Capitolino, ora bisbigliando e porgendo a sua volta l’orecchio, ora a voce alta e lanciando improperi. Lo si udì infatti minacciare: «O tu togli di mezzo me, o io te!». Finché, supplicato, così andava dicendo, e anzi invitato a vivere con lui, fece unire il Palatino con il Campidoglio, facendo passare un ponte sopra il tempio del Divo Augusto. Subito dopo, per stargli ancora più vicino, fece gettare le fondamenta della nuova reggia proprio nell’area capitolina.

(Svetonio, Caligola, 22)

Caligola fece annettere la Mauretania, uccidendo suo cugino Tolomeo di Mauretania, discendente di Antonio e Cleopatra. Fu poi divisa in Mauretania Tingitana e Mauretania Cesariensis. Militarmente reclutò due nuove legioni, la XV Primigenia e la XXII Primigenia, ammassando truppe sul Reno, senza però fare nulla. Portò poi l’esercito sul mare, di fronte la Britannia:

“Infine, come se volesse porre fine alla guerra, schierato l’esercito lungo le spiagge dell’Oceano e disposte le baliste e le macchine senza che alcuno sapesse o potesse avere idea di cosa intendesse fare, improvvisamente ordinò di raccogliere conchiglie e riempirne gli elmi e i mantelli, dicendo: «Sono le spoglie dell’Oceano che spettano al Campidoglio e al Palazzo». Per lasciare un segno di questa vittoria, fece erigere un’altissima torre dalla quale, come da quella di Faro, di notte dovevano lampeggiare i fuochi per illuminare la rotta ai naviganti. Dopo aver annunciato ai soldati una ricompensa di cento denari ciascuno, come se avesse superato ogni altro esempio di generosità, disse: «Andate in letizia, andate in ricchezza».”

(Svetonio, Caligola, 46)

L’impero di Caligola

Morte

Le continue stravaganze ed eccessi di Caligola non potevano durare a lungo nella Roma del I secolo d.C. Attiratosi le antipatie di senatori e soldati, era solo una questione di tempo. La morte giunse infine il 24 gennaio del 41 d.C., per mano dei pretoriani, con l’appoggio del senato:

« […] verso l’una, Caio era indeciso se andare a pranzo, avendo ancora lo stomaco in disordine per quanto aveva mangiato il giorno prima. Alla fine, persuaso dagli amici, uscì. In una galleria, che doveva attraversare, alcuni nobili giovinetti chiamati dall’Asia per rappresentare uno spettacolo in scena stavano provando. Caio si fermò a guardarli e ad incoraggiarli e, se il capo della compagnia non avesse detto che avevano freddo, avrebbe deciso di tornare indietro e far eseguire lo spettacolo. Da questo punto ci sono due versioni diverse: alcuni raccontano che, mentre stava parlando con questi ragazzi, Cherea da dietro lo colpì pesantemente alla nuca con la spada, di taglio, dopo aver detto «Colpisci!» e subito l’altro congiurato, il tribuno Cornelio Sabino, gli trafisse il torace. Secondo altri, invece, Sabino, fatta allontanare la folla da alcuni centurioni complici della congiura, aveva chiesto a Caio la parola d’ordine, secondo la consuetudine militare e, quando quello aveva risposto «Giove», Cherea da dietro aveva gridato: «Prendilo per certo» e, mentre si voltava, lo aveva colpito alla mascella. Mentre Caio a terra, con le membra contratte, gridava di essere ancora vivo, gli altri lo finirono con trenta ferite. Infatti la parola d’ordine per tutti era: «Colpisci ancora!». Alcuni gli trafissero anche i genitali. All’inizio del tumulto accorsero i portantini e anche le guardie del corpo germaniche che uccisero alcuni degli attentatori e anche alcuni senatori innocenti.»

(Svetonio, Caligola, 58)

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