«δοκεῖ δέ μοι καὶ Καρχηδόνα μὴ εἶναι»
«Ceterum censeo Carthaginem esse delendam»
«Inoltre ritengo che Cartagine debba essere distrutta»

Plutarco, vita di Catone il Censore, 27

Così era solito terminare i propri discorsi in senato Marco Porcio Catone, detto il Censore per via della carica che aveva ricoperto e della sua vena censoria. A cinquant’anni dalla fine della seconda guerra punica (218-202 a.C.) scadevano i tributi di guerra che Cartagine doveva pagare (200 talenti l’anno – ossia più di 5 tonnellate d’argento) e molti senatori erano timorosi di una possibile rinascita della potenza nordafricana.

La terza guerra punica

I romani temevano una ripresa di Cartagine a causa della fine del tributo, che le avrebbe permesso di espandersi in Africa, riarmarsi e minacciare nuovamente Roma. Ancora erano calde le ferite della guerra annibalica e i romani volevano assolutamente mantenere Cartagine al proprio posto. Tale era il terrore provocato da Annibale durante la seconda guerra punica che ovunque si urlava “Hannibal ad portas” (Annibale è alle porte!); gran parte d’Italia aveva subito danni considerevoli dalla guerra, sia economici sia demografici. Diverse legioni erano state distrutte e intere generazioni spezzate.

Fu proprio nel momento in cui Cartagine terminava di pagare il suo debito cinquantennale che Massinissa andava formando il suo regno numida in nordafrica, minacciando anche i territori cartaginesi. Nel 193 a.C. aveva occupato Emporia, nel 174 a.C. Tisca. I cartaginesi, sentitesi minacciati dal re ormai ultraottantenne, nel 150 a.C. decise di riarmarsi e formò un esercito di circa 50.000 uomini per opporsi ai numidi e rioccupare la città di Oroscopa.

«I Cartaginesi che contro i patti avevano portato guerra a Massinissa, vinti da lui, vecchio di novantadue anni e abituato a cibarsi di solo pane senza companatico, si meritarono per di più la guerra dei Romani.»

Tito Livio, Ab Urbe Condita, XLVIII, frammenti

Tuttavia i numidi ebbero ancora la meglio. Ma ormai il dado era tratto: i romani, che avevano appoggiato Massinissa per cinquant’anni, decisero di imporre un ultimatum a Cartagine. Il senato infatti, contrariamente al parere di Catone che voleva la distruzione immediata della città, chiese agli abitanti punici di abbandonare il sito, demolire ogni edificio e ricostruire Cartagine ad almeno 5 km dal mare. I cartaginesi rifiutarono l’offerta.

Furono inviati, nel 149 a.C., i consoli Lucio Marcio Censorino e Manio Manilio Nepote in Africa a condurre la guerra con 80.000 uomini. Con loro, come tribuno, c’era anche Scipione Emiliano, figlio di Lucio Emilio Paolo Macedonico (suo nonno era dunque l’Emilio Paolo morto a Canne), adottato dalla gens Cornelia attraverso il figlio dell’Africano. I cartaginesi, impauriti, offrirono 300 ostaggi e la resa, ma i romani ormai erano implacabili. Nonostante i punici avessero consegnato a Utica ai romani armature, armi e macchine d’assedio, Censorino replicò che la città doveva essere distrutta e gli abitanti andare a vivere a molte miglia dal mare, in modo da non impensierire Roma, ormai padrona del Mediterraneo. Gli ambasciatori punici obiettarono che Roma aveva promesso la salvezza e Censorino replicò che Roma aveva promesso la salvezza ai cittadini di Cartagine, non alla città.

Rientrati in in città, gli ambasciatori furono quasi scannati dalla folla. Subito dopo furono uccisi tutti gli italici, liberati gli schiavi, richiamato Asdrubale e gli esuli e preparata la difesa, chiedendo una moratoria di 30 giorni a Roma per prendere tempo. Venne fuso tutto il metallo disponibile, compreso oro e argento, per forgiare armi e armature. Quando i consoli arrivarono alle mura i cartaginesi erano pronti a difendersi.

L’assedio e la conquista

L’assedio fu particolarmente duro. I difensori si opposero strenuamente e le operazioni andarono avanti per mesi. Nel 148 presero il comando i nuovi consoli Lucio Calpurnio Pisone e Lucio Ostilio Mancino. Il primo fu sconfitto ripetutamente, mentre Asdrubale appendeva sulle mura i prigionieri romani mutilati. Nel 147, infine, nonostante non avesse raggiunto l’età legale, Scipione Emiliano, distintosi in combattimento, fu eletto console insieme a Gaio Livio Druso.

Scipione cambiò tattica: mentre i suoi predecessori avevano attaccato le città intorno, sperando che senza rifornimenti la città sarebbe caduta, l’Emiliano decise invece di concentrarsi su Cartagine, convinto che se fosse caduta la guerra sarebbe finita. Decise dunque di attaccare il porto, bloccandolo con una diga; dopo aspri scontri infine i romani ebbero la meglio. Con il blocco del porto era solo questione di tempo prima che i difensori capitolassero. Infine nella primavera del 146 a.C. Scipione lanciò l’assalto: nonostante la difesa strenua dei difensori, casa per casa, per quindici giorni, la città cadde. Alcuni si rifugiarono sull’Acropoli e resistettero altri otto giorni. La moglie di Asdrubale si sarebbe poi gettata tra le fiamme del tempio dell’Acropoli, come Didone. Iniziò il saccheggio della città, che venne sistematicamente distrutta. Polibio narra che Scipione pianse alla vista della città in fiamme, presagendo una futura simile fine di Roma.

«Cartagine, il cui perimetro si estendeva per ventitré miglia, fu assediata con grande fatica e conquistata un po’ per volta dapprima dal legato Mancino e poi dal console Scipione, cui era stato assegnato senza sorteggio come campo d’azione l’Africa. I Cartaginesi, costruito un nuovo porto, perché l’antico era stato bloccato da Scipione, e messa insieme segretamente e in poco tempo una possente flotta, combatterono in battaglia navale con infelice esito. Anche il campo di Asdrubale, loro comandante, situato nei pressi della città di Neferi in posizione difficile, fu distrutto insieme con l’esercito da Scipione, che finalmente espugnò la città settecento anni dopo la sua fondazione. La maggior parte della preda fu restituita ai Siculi, cui era stata sottratta. Nell’estremo sterminio della città, dopo la resa di Asdrubale a Scipione, la moglie di lui che pochi giorni avanti non era riuscita ad ottenere dal marito di passare al vincitore, coi due figli si precipitò dalla rocca in mezzo all’incendio della città in preda alle fiamme. Scipione, sull’esempio di suo padre Emilio Paolo, vincitore della Macedonia, dette giuochi e offrì in pasto alle belve disertori e fuggiaschi.»

Tito Livio, AUC, LI, frammenti

Sale sulle rovine?

Secondo la tradizione sulle rovine della città sarebbe stato sparso il sale. Tuttavia non ci sono attestazioni coeve di questa pratica (che sarebbe stata anche particolarmente onerosa). Nell’ottocento lo storico Fernidand Gregoriovius commise un errore di interpretazione di un testo che si rifaceva alla distruzione di Palestrina ad opera di papa Bonifacio VIII, leggendo che la città era stata cosparsa di sale come a Cartagine, mentre invece si faceva riferimento al fatto che dopo aver raso al suo Palestrina il pontefice vi fece passare sopra l’aratro, come a Cartagine.

Secondo ogni probabilità la città fu dunque “semplicemente” rasa al suolo e abbandonata a se stessa. Alcuni decenni dopo Gaio Gracco fece fondare una prima colonia a Cartagine, ma fu solo con Cesare che la città venne rifondata, e cominciò a prosperare a partire da Augusto, diventando la capitale della provincia d’Africa. Importantissima, era affidata ad un proconsole, che fino a Caligola era formalmente indipendente dall’imperatore e aveva al suo comando la legio III Augusta. Da Gaio anche l’Africa divenne una provincia imperiale e passò sotto il controllo diretto dell’imperatore. Nerone poi espropriò molte proprietà da senatori costretti al suicidio. Sotto il principato il limite tra proprietà dello stato e dell’imperatore era piuttosto flebile e dunque le casse imperiali potevano usare i proventi dei latifondi africani per pagare le legioni, stipendiate direttamente dall’imperatore e non dallo stato.

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Carthago delenda est
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