Dopo la distruzione di Alba Longa ad opera del re Tullio Ostilio, i notabili cittadini vennero cooptati nel senato di Roma. Tra di loro c’era anche la gens Qunctia:

«Frattanto Roma si ingrandisce sulle rovine di Alba. Il numero dei cittadini fu raddoppiato; venne aggiunto alla città il monte Celio, e per invogliare ad abitarlo Tullo vi pose la sede della reggia, e vi abitò stabilmente. Ammise poi nel senato le principali famiglie albane, perché anche questa parte dello stato crescesse: i Giulii, i Servili, i Quinzi, i Gegani, i Curiazi, i Cleli; e fissò come sede delle adunanze per il consesso così accresciuto la curia che fino al tempo dei nostri padri fu chiamata Ostilia. Infine, per incrementare le forze di tutti gli ordini con l’apporto del nuovo popolo, formò dieci squadroni di cavalleria con uomini albani, accrebbe gli effettivi delle vecchie legioni di fanteria nella stessa proporzione e ne costituì delle nuove.»

Tito Livio, AUC, I, 30, 1-3

Le origini

Lucio Quinzio Cincinnato (“il riccioluto”) nacque attorno al 520 a.C.; il primo a ricoprire il consolato fu il fratello Tito Quinzio Barbato nel 471, 468 e 465. Cincinnato divenne console nel 460 per la prima volta come consul suffectus (sostituto di Publio Valerio Publicola, morto durante gli scontri con Appio Erdonio), nonostante i timori dei plebei. Infatti il figlio di Cincinnato, Cesone Quinzio, era stato allontanato da Roma da poco. Quest’ultimo si era fatto promotore della parte dei patrizi nella lotta contro i plebei e aveva una tale presenza fisica da far fuggire tutti; finché non venne accusato di omicidio negli scontri che seguirono e, dopo il processo, allontanato da Roma:

«Vi era un giovane, Cesone Quinzio, fiero della sua nobile discendenza e della sua corporatura imponente e robusta. A questi doni divini egli aveva saputo aggiungere molti meriti militari e un’arte oratoria che lo rendeva capace di parlare nel Foro: nessuno era considerato, in tutta la città, più pronto di lingua e di mano. Quando si piazzava in mezzo al gruppo dei patrizi egli torreggiava tra gli altri quasi che nelle sue parole e nella sua forza, fossero radunati tutti i consolati e tutte le dittature; lui, da solo, sosteneva tutti gli attacchi dei tribuni e del popolo. Più volte, quando egli ebbe in mano la situazione, i tribuni furono cacciati dal Foro, più volte la plebe (il popolo) fu dispersa e messa in fuga. Chi osava tenergli testa se ne andava malconcio e privo di ogni difesa ed era evidente che, se gli fosse stato permesso di agire in quel modo, per la legge non c’era speranza. […]Tito Quinzio Capitolino Barbato, che era stato tre volte console, ricordava i molti titoli di merito di Cesone e della famiglia, affermando che mai nemmeno a Roma si era avuto un ingegno così grande e precoce valore. Cesone era stato suo soldato di prima fila e aveva combattuto il nemico proprio sotto i suoi occhi. Spurio Furio ricordava che Cesone, mandato da Quinzio Capitolino era corso in suo aiuto in un frangente di grande pericolo; si diceva convinto, anche che nessuno più di Cesone avesse contribuito a risollevare le sorti della battaglia. Lucio Lucrezio, console l’anno precedente, e le cui gloriose imprese erano ancora ben vive nella memoria di tutti, divideva i suoi meriti con Cesone, ricordava gli scontri, enumerava le sue splendide azioni in missione e sul campo di battaglia. […] Volscio gridava queste accuse in tutte le occasioni, e l’animo della gente ne fu tanto inasprito che poco mancò che Cesone fosse linciato dal popolo. Virginio ordina che sia arrestato e messo in carcere. I Patrizi oppongono violenza a violenza. […] I tribuni cui Cesone si era appellato esercitano il diritto di intercessione con una decisione che accontenta tutti: si oppongono alla sua carcerazione, deliberano che l’imputato compaia in giudizio e che, in previsione di una sua possibile fuga, fornisca una garanzia in denaro al popolo. […]Virginio volle tenere lo stesso i comizi, ma i suoi colleghi cui era stato interposto appello, sciolsero l’adunanza. Con grande rigore la cauzione fu richiesta al padre il quale fu costretto a vendere tutti i suoi beni e ad andare a vivere per un po’ di tempo in un tugurio, oltre il Tevere, quasi fosse stato condannato al confino.»

Tito Livio, AUC, III, 11-13

Cincinnato era dunque in aperto scontro con i tribuni della plebe per la sorte del figlio quando venne eletto. Decise subito di arruolare l’esercito per fare la guerra a equi e volsci, ma i tribuni si opposero. Il console rispose:

«Ma noi non abbiamo bisogno di alcuna leva perché quando Publio Valerio diede le armi alla plebe per riconquistare il Campidoglio, tutti hanno giurato di radunarsi agli ordini del console e di non sciogliersi mai senza suo ordine. Quindi ecco il nostro editto: voi che avete giurato, dovete trovarvi domani presso il lago Regillo.»

Tito Livio, AUC, III, 20

I cittadini, costretti a votare nei comizi sotto giuramento militare, non avrebbero dunque potuto opporsi al volere di Cincinnato e votare la lex Terentilia, che voleva limitare i poteri dei consoli. Il console comunque non pose veti e si rimise al senato che deliberò, nel suo interesse, che la legge non doveva essere votata, ma che l’esercito non doveva essere convocato. I consoli non si ripresentarono per le elezioni successive ma i tribuni lo fecero, scatenando l’ira dei patrizi, che volevano rieleggere Cincinnato, il quale rifiutò. Vennero eletti consoli Quinto Fabio Vibulano per la terza volta e Lucio Cornelio Maluginense:

«Allora, dopo che il console ebbe riferite le richieste dei tribuni e della plebe, il senato prese la seguente deliberazione: né i tribuni dovevano presentare la legge per quell’anno, né i consoli condurre l’esercito fuori della città; per il futuro poi il senato giudicava anticostituzionale che fossero prorogate le magistrature e fossero rieletti gli stessi tribuni. I consoli si sottomisero alla decisione del senato, ma i tribuni furono rieletti, malgrado le proteste dei consoli. Anche i patrizi allora, per non cedere in nulla alla plebe, volevano anch’essi far rieleggere console Lucio Quinzio. Ma il console tenne il discorso più violento di tutto l’anno, dicendo: «Debbo ancora meravigliarmi, o senatori, se la vostra autorità è nulla presso la plebe? Voi stessi la sminuite, dal momento che, avendo la plebe calpestata la decisione del senato circa la proroga delle cariche, anche voi volete violarla, per non rimanere indietro in impudenza alla folla, come se in questo consistesse l’aver maggior potere nella città, nel dimostrare maggior leggerezza e licenza! Poiché è certo cosa più leggera e più vana il venir meno ai decreti e alle deliberazioni proprie che a quelle altrui. Imitate pure, o senatori, la turba dissennata, e voi, che dovreste essere di esempio agli altri, peccate pure seguendo l’esempio altrui, anziché dare agli altri l’esempio di agire rettamente, purché a me sia concesso di non imitare i tribuni e di non consentire ad essere proclamato console contro un decreto del senato. Te poi, o Gaio Claudio, io esorto affinché anche per parte tua cerchi di stornare il popolo romano da questa illegalità, e riguardo a me ti convinca di questo, che io non giudicherò avermi tu impedito il conseguimento della carica, ma piuttosto aver accresciuta la gloria del mio rifiuto ed evitata l’impopolarità che mi deriverebbe da una proroga». Allora concordemente prescrissero che nessuno votasse Lucio Quinzio come console; se qualcuno l’avesse votato, avrebbero considerato come nullo quel voto. Furono eletti consoli Quinto Fabio Vibulano per la terza volta e Lucio Cornelio Maluginense. In quell’anno si tenne il censimento; ma a causa dell’occupazione del Campidoglio e della morte del console si ritenne contrario alla religione il compiere la purificazione finale.»

Tito Livio, AUC, III, 21,2-22,1

La dittatura

«Durante il seguente anno, a causa del blocco di un esercito romano sul monte Algido a circa dodici miglia dalla città, Lucio Quinzio Cincinnato, che possedeva soltanto quattro acri di terra e lo coltivava con le proprie mani, venne nominato dittatore. Egli trovandosi al lavoro impegnato nell’aratura, si deterse il sudore, indossò la toga praetexta, accettò la carica, sconfisse i nemici e liberò l’esercito.»

Eutropio, Breviarium ab Urbe condita lib. I,17

Nel 458 a.C. il console Lucio Minucio Esqulino Augurino era rimasto assediato nel suo accampamento durante la guerra contro gli equi, mentre l’altro console Gaio Nauzio Rutilo, che combatteva i sabini, non poteva portargli aiuto. Fu allora che si decise di eleggere Cincinnato come dittatore, mentre si trovava ai Prata Quinctia a coltivare personalmente la terra.

«Una grande moltitudine di Sabini giunse fin quasi alle mura di Roma saccheggiando e devastando: le campagne furono rovinate, e nella città si sparse il terrore. Allora la plebe prese le armi senza fare difficoltà; fra le vane proteste dei tribuni furono arruolati due grandi eserciti. Uno Nauzio lo condusse contro i Sabini, e posto il campo ad Ereto, con piccole scorrerie, per lo più con incursioni notturne, ricambiò la devastazione nel territorio sabino, con tanta rovina che in paragone il territorio romano sembrava quasi intatto dalla guerra. Minucio non ebbe la stessa fortuna né la stessa energia nella condotta delle operazioni; infatti, dopo aver posto il campo a breve distanza dal nemico, pur senza aver subito alcun grave rovescio si manteneva timoroso dentro gli accampamenti. Quando i nemici si accorsero di ciò, la loro audacia crebbe per l’altrui paura, come suole avvenire, e assalirono di notte il campo; ma visto che l’assalto diretto aveva dato scarsi risultati, il giorno seguente si diedero a costruire opere di fortificazione tutto intorno.Prima che le fortificazioni circondando interamente il campo romano chiudessero ogni via di uscita, cinque cavalieri passando fra i posti di guardia nemici recarono a Roma la notizia che il console era assediato col suo esercito. Nulla poteva capitare di più inatteso ed impensato; perciò così grande fu lo sgomento e la trepidazione come se i nemici assediassero la città, non gli accampamenti. Richiamarono in patria il console Nauzio, ma non offrendo la sua persona bastante garanzia, e sembrando necessario nominare un dittatore che rimediasse alla critica situazione, venne prescelto all’unanimità Lucio Quinzio Cincinnato. Conviene che prestino attento orecchio coloro i quali disprezzano ogni altra cosa che non sia la ricchezza, e non ritengono esservi posto per un grande onore e per la virtù, se non dove sovrabbondano le ricchezze: l’unica speranza dell’impero del popolo romano, Lucio Quinzio, coltivava un podere di quattro iugeri, che ora si chiama prato Quinzio, oltre il Tevere, dirimpetto a quel luogo dove ora vi sono le banchine del porto. Colà, sia che appoggiato alla pala stesse vangando, o sia che arasse, comunque mentre era intento alla fatica dei campi, come concordemente viene tramandato, i messi, dopo aver scambiato il saluto, lo pregano di ascoltare con la toga gli ordini del senato, augurando che ciò tornasse in bene a lui e alla repubblica. Rimase allora stupito, e domandando: «Che c’è di nuovo?», ordinò alla moglie Racilia di portargli sùbito la toga dalla capanna. Appena deterso il sudore e la polvere e indossata la toga si fece avanti, i messi congratulandosi con lui lo salutano dittatore, lo chiamano in città e gli espongono in quale pericolo si trovi l’esercito. Una navicella era stata preparata per Quinzio a spese dello stato, e giunto al di là del fiume lo accolsero i tre figli venuti ad incontrarlo, poi altri parenti e amici, e infine gran parte dei senatori. Stretto da tutta questa gente e preceduto dai littori fu scortato a casa. Anche la plebe accorse in gran folla; ma essa non era altrettanto lieta alla vista di Quinzio, giudicando il potere dittatoriale eccessivo, e l’uomo più autoritario di quanto il potere già di per sé comportasse. In quella notte in città non si fece che vegliare. Il giorno seguente il dittatore, giunto nel foro prima dell’alba, nominò maestro della cavalleria Lucio Tarquizio, di stirpe patrizia, che pur essendo stato costretto a prestare servizio come fante per la sua povertà, tuttavia era giudicato di gran lunga il più valoroso in guerra fra i giovani romani. Insieme al maestro della cavalleria si presentò all’assemblea, ordinò la sospensione degli affari civili, fece chiudere le botteghe per tutta la città, proibì a chiunque di dedicarsi ad occupazioni private. Poi ordinò a tutti gli uomini in età di portare le armi di trovarsi armati nel Campo Marzio prima del tramonto del sole con cibi pronti per cinque giorni e con dodici paletti per il vallo; i cittadini che non erano più in età di combattere dovevano cuocere i cibi per i loro vicini mobilitati, mentre questi preparavano le armi e andavano a procurarsi i paletti. Così i giovani corsero alla ricerca dei pali: li presero nel primo luogo che capitava, senza che alcuno lo impedisse; tutti si trovarono per tempo a disposizione secondo gli ordini del dittatore. Quindi, schierato l’esercito in formazione di battaglia più che di marcia, per fronteggiare ogni evenienza, il dittatore in persona guida i fanti, il maestro della cavalleria i suoi cavalieri. Ad entrambe le formazioni erano stati dati gli ammonimenti richiesti dalla circostanza: affrettassero il passo, perché era necessario far presto, in modo da giungere a contatto del nemico nella notte; il console e l’esercito romano erano assediati, e già da tre giorni erano tagliati fuori dall’esterno; non si sapeva che cosa potesse portare ogni notte ed ogni giorno: spesso in un solo minuto si decideva l’esito di grandi avvenimenti. Per compiacere ai capi, anche i soldati fra loro gridavano: «Alfiere, più presto!», «Soldati, statemi dietro!». A mezzanotte giunsero sull’Algido, e quando si accorsero di essere ormai vicini al nemico arrestarono la marcia. A questo punto il dittatore, fatto un giro d’esplorazione a cavallo ed esaminata l’estensione e la forma degli ’ accampamenti, per quanto si poteva vedere di notte, ordinò ai tribuni militari di far radunare i bagagli in un sol punto, e di far poi tornare i soldati ai loro reparti con le armi e i pali. Gli ordini furono eseguiti; poi, mantenendo lo schieramento tenuto durante il cammino, il dittatore dispone tutto l’esercito in lunga fila intorno al campo nemico, e dà ordine di levare tutti insieme il grido di guerra quando sia dato il segnale, e subito dopo di scavare la fossa e di piantare i pali dello steccato nel tratto che ciascuno aveva davanti a sé. Alla spiegazione degli ordini seguì il segnale della tromba: i soldati eseguono il comando. Il grido risuona tutto intorno ai nemici, oltrepassa i loro quartieri e giunge nell’accampamento del console, recando in un campo il terrore, nell’altro un grande entusiasmo. I Romani si esprimono a vicenda la loro gioia: sono grida di concittadini, sono arrivati i soccorsi; e provocano minacciosamente il nemico dai posti di guardia avanzati. Il console dice che non si deve attendere oltre: quel grido di guerra significa che i concittadini non solo sono giunti, ma hanno iniziata l’azione, e non c’è dubbio che già il campo nemico viene attaccato dall’esterno; pertanto dà ordine ai suoi di prendere le armi e di seguirlo. La battaglia comincia nella notte: col grido di guerra gli assediati annunciano alle legioni del dittatore che anche da quella parte si è iniziata la lotta. Già gli Equi si accingevano ad impedire che le opere di fortificazione fossero circondate, quando gli assediati scatenarono il loro attacco; allora, per impedire che riuscissero ad aprirsi un varco attraverso ai loro accampamenti, rivoltisi da quelli che stavano fortificandosi contro gli attaccanti, lasciarono che il lavoro continuasse indisturbato per tutta la notte, e combatterono contro il console fino all’alba. Allo spuntar del giorno già erano completamente circondati dal vallo del dittatore, e facevano difficoltà a reggere all’urto di un solo esercito. Allora l’esercito di Quinzio, che sùbito appena terminato il lavoro aveva ripreso le armi, assalì il vallo nemico. Qui infuriò una nuova battaglia, mentre la precedente non aveva perduto d’intensità. Allora presi fra due fuochi i nemici passarono dalla lotta alle preghiere, supplicando da un lato il dittatore e dall’altro il console di non voler spingere la vittoria fino alla loro completa distruzione, e di lasciarli scampare disarmati. Il console li rimandò al dittatore, il quale duramente aggiunse delle clausole disonoranti: ordinò che gli fossero consegnati legati il comandante Gracco Clelio e gli altri capi, e impose l’abbandono della città di Corbione: del sangue degli Equi egli non aveva bisogno; potevano andarsene, ma, perché confessassero infine che la loro gente era stata sottomessa e domata, dovevano passare sotto il giogo. Il giogo è fatto di tre aste, due piantate a terra, ed una legata sopra a quelle trasversalmente: sotto a questo giogo il dittatore fece passare gli Equi.»

Tito Livio, AUC, III, 26,1-29,11

Il dittatore radunò l’esercito e riuscì ad arrivare in soccorso ad Augurino. Romani ed equi si combatterono alla battaglia del Monte Algido, che vide la vittoria dei romani. Cincinnato distribuì il bottino e le punizioni ai soldati, mentre Lucio Minucio, che aveva ricevuto una corona d’oro, deponeva la carica di console e rimase sotto al comando del dittatore. Il quale, celebrato il trionfo, dopo soli sedici giorni, depose la dittatura nonostante durasse sei mesi. Cincinnato tornò dunque a coltivare la sua terra.

Tra il 451 a.C. e il 449 a.C. vennero redatte le dodici Tavole: in quell’occasione il decemviro Appio Claudio ostacolò apertamente l’elezione di Cincinnato per il 450. Nel 445, dopo l’approvazione della lex Canuleia, che abrogava l’impedimento di matrimonio tra patrizi e plebei approvato dalle XII tavole. Fu allora che Gaio Claudio, zio di Appio, tentò di eliminare i tribuni della plebe: Tito Quinzio Capitolino Barbato e Cincinnato si opposero.

Nel 439 su indicazione di Barbato, console per la sesta volta, Cincinnato venne eletto dittatore per la seconda volta. Spurio Melio aveva infatti cercato di farsi nominare rex; Cincinnato scelse come magister equitum Gaio Servilio Strutto Ahala

«Il giorno seguente, allorché disposto un servizio di guardia discese nel foro, la plebe rivolse gli sguardi su di lui meravigliata e stupita, e mentre Melio stesso e i suoi seguaci comprendevano che contro di loro era diretta la forza di un così alto potere, e coloro che non erano a conoscenza del complotto monarchico si domandavano quale pericolo, quale guerra improvvisa avesse richiesto i poteri dittatoriali, e un Quinzio a capo della repubblica ad ottant’anni compiuti, il maestro della cavalleria Servilio, mandato dal dittatore, disse a Melio: «Il dittatore ti chiama». Poiché quello intimorito domandava che cosa volesse, Servilio gli notificò che doveva difendersi e giustificarsi davanti al senato dell’accusa mossagli da Minucio; Melio allora si ritrasse fra la schiera dei suoi, e dapprima guardandosi intorno tergiversava; poi, quando il littore per ordine del maestro dei cavalieri stava per condurlo via, fu sottratto all’arresto dai suoi seguaci, e fuggendo implorava la protezione della plebe romana, dicendo che una congiura dei patrizi voleva la sua rovina, perché aveva beneficato la plebe; pregava che lo soccorressero nell’estremo pericolo, e non lo lasciassero trucidare davanti ai loro occhi. Mentre così gridava, Servilio Aala lo raggiunse e lo uccise, e macchiato di sangue, cinto da una schiera di giovani patrizi, annuncia al dittatore che Spurio Melio, chiamato alla sua presenza, aveva subito la giusta punizione per aver respinto il littore e sobillata la folla. Allora il dittatore disse: «Sia gloria a te, o Gaio Servilio, per aver liberata la repubblica». Poi, essendo il popolo in tumulto e incerto su come giudicare il fatto, diede ordine di convocare l’assemblea, e proclamò che Melio era stato ucciso giustamente, anche se fosse stato innocente del reato di aspirare al regno, perché chiamato dal maestro della cavalleria non si era presentato al dittatore. Egli era salito al tribunale per istruire il processo, e dopo che fossero stati esaminati tutti gli elementi della causa Melio avrebbe avuta una sorte conforme alle risultanze; ma poiché si apprestava a ricorrere alla violenza per sottrarsi al giudizio, con la violenza era stato punito. Né era da trattarsi alla stregua di un cittadino un uomo che, nato in un popolo libero, sotto l’impero del diritto e delle leggi, in una città dalla quale sapeva che erano stati cacciati i re, e dove in quel medesimo anno, scopertasi una congiura per riaccogliere nella città i membri della famiglia regale, erano stati decapitati dal padre i nipoti del re, figli del console liberatore della patria; dalla quale il console Collatino Tarquinio per l’impopolarità del nome era stato costretto a deporre la carica e ad andare in esilio; nella quale alcuni anni dopo era stato giustiziato Spurio Cassio per aver ordito un complotto per giungere al regno; nella quale poco addietro i decemviri erano stati condannati alla perdita dei beni, all’esilio, alla morte, per la loro tirannica prepotenza, proprio in questa città lui, Spurio Melio, aveva nutrito speranza di regno. E che uomo era? Per quanto nessuna nobiltà, nessuna carica, nessun merito potesse aprire la via della tirannide ad alcuno, almeno i Claudii e i Cassii si erano insuperbiti per i loro consolati e decemvirati, per gli onori propri e degli avi, per lo splendore della famiglia, fino ad ambire l’illecito: ma Spurio Melio, che avrebbe potuto desiderare più che sperare il tribunato della plebe, ricco accaparratore di frumento, aveva sperato di comperare con due libbre di farina la libertà dei suoi concittadini, e aveva creduto di poter indurre in schiavitù il popolo vincitore di tutte le genti vicine col gettargli del pane, sì che la città accettasse di sopportare come re, fornito delle insegne e del potere del fondatore Romolo, nato da un dio e accolto fra gli dèi, lui che a stento avrebbe tollerato come senatore! Più che un delitto, un mostruoso prodigio si doveva considerare quel fatto, e il suo sangue non era sufficiente ad espiarlo, se non si distruggevano i tetti e i muri entro cui era stata concepita tanta follia, e non si vendevano all’incanto quei beni, contaminati quale moneta per la compera del regno. Ordinava pertanto ai questori di vendere i suoi beni a beneficio del pubblico erario. Ordinò poi che fosse distrutta subito la sua casa, affinché l’area rimanesse a ricordo del nefando progetto sventato; il luogo fu poi chiamato Equimelio. A Lucio Minucio fu fatto dono fuori della porta Trigemina di un bue dalle corna dorate, senza che la plebe fosse contraria, poiché Minucio aveva distribuito alla plebe il frumento di Melio al prezzo di un asse per moggio. Presso alcuni storici trovo riportato che questo Minucio passò dalla classe patrizia a quella plebea, e che cooptato come undicesimo tribuno della plebe sedò la rivolta sorta dall’uccisione di Melio. Ma è poco attendibile che i patrizi abbiano lasciato aumentare il numero dei tribuni, e che un tale esempio sia stato introdotto proprio da un patrizio, e inoltre che una volta ottenuta questa concessione la plebe non l’abbia più conservata, o almeno non abbia cercato di conservarla. Ma soprattutto dimostra la falsità dell’iscrizione posta sotto la sua immagine una legge emanata pochi anni prima, la quale vietava ai tribuni di cooptare un collega.»

Tito Livio, AUC, IV, 14,1-16,4

Gli scontri tra patrizi e plebei sarebbero continuati ancora fino al 367 a.C., con l’approvazione delle leges Liciniae Sextiae e avrebbe visto fino ad allora una situazione di compromesso, con l’elezione o dei consoli patrizi di sei tribuni militum consulari potestate.

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