Marco Aurelio Valerio Claudio era nativo della Mesia, dove nacque forse il 10 maggio del 214. Fece carriera nell’esercito romano e alla morte di Gallieno venne eletto imperatore dai soldati, nel settembre-ottobre 268.

Il vincitore dei goti

«Non posso negare che il suo impero ebbe breve durata, ma sarebbe apparso comunque breve, anche se un uomo di quel genere avesse potuto regnare per tutto il tempo che può durare la vita umana. Che cosa infatti v’è in lui che non sia degno di ammirazione? Che cosa, che non abbia a risaltare? Che cosa, che non lo ponga al di sopra dei personaggi che celebrarono il trionfo nei tempi più antichi? In lui erano presenti la virtù di Traiano, la bontà di Antonino, la moderazione di Augusto e le qualità dei grandi sovrani, non nel senso che lui prendesse a modello gli altri, ma che, anche se quelli non fossero esistiti, sarebbe stato lui a lasciare un esempio per tutti i successori.»

(Historia Augusta, il divo Claudio, 2, 1-3)

Il senato ratificò subito la scelta di Claudio, elogiato per la sua clemenza e pietas. Lasciò infatti in vita chi non aveva approvato la sua elezione e divinizzò Gallieno. Ma quando Aureolo si arrese a Mediolanum i soldati lo ammazzarono senza pensarci su. Claudio sconfisse poi gli alemanni che forse lo stesso Aureolo aveva chiamato in Italia al lago Benacus (il lago di Garda). Nel frattempo Postumo veniva ucciso e Claudio recuperava la Narbonense e la Spagna.

Successivamente si dedicò ai goti, che continuavano a stazionare sul Danubio, sconfiggendoli pesantemente nel 269: la vittoria fu così travolgente che i goti non furono più un problema per un secolo e gli venne riconosciuto il titolo di Gothicus Maximus (ecco perché il nome “Gotico”):

«Possediamo una lettera che egli inviò al senato perché fosse letta al popolo, nella quale dà indicazione del numero dei barbari, e che suona così: «Claudio imperatore al senato e al popolo romano» (si dice che l’abbia dettata egli stesso; io non starò comunque a cercare la conferma dal direttore di cancelleria). «O senatori ascoltate – e sbalordite! – quello che non è altro che la verità. Trecentoventimila barbari sono entrati in armi nel territorio romano: se riuscirò a vincerli, voi ricompensatemi secondo i miei meriti; se non ci riuscirò, sappiate che io mi sforzo di combattere venendo dopo il regno di Gallieno. Lo Stato è completamente stremato. Ci troviamo a combattere dopo Valeriano, dopo Ingenuo, dopo Regiliano, dopo Lolliano, dopo Postumo, dopo Celso, dopo mille altri che, per disprezzo nei confronti di un tale principe, si ribellarono allo Stato. Non rimangono ormai più scudi, né spade, né giavellotti. La Gallia e la Spagna, che sono il nerbo dell’impero, sono nelle mani di Tetrico, e tutti gli arcieri – mi fa vergogna dirlo – sono sotto il controllo di Zenobia. Qualunque cosa riusciremo a fare, sarà già abbastanza grande». Costoro, comunque, Claudio seppe, grazie al suo innato valore, sconfiggerli, e in breve tempo sbaragliarli, e solo alcuni di essi riuscirono a sfuggirgli ritornando in patria. Di fronte ad una tale vittoria, io chiedo, quale ricompensa sono mai un clipeo appeso nella Curia e un’unica statua d’oro? Dice di Scipione Ennio: «Quale statua, quale colonna ti potrà erigere il popolo romano, che possa esprimere le tue gesta?». Possiamo ben dire che Flavio Claudio fu l’unico principe al mondo a non ricevere lustro da colonne o statue, ma dal fascino esercitato dalla sua fama. Avevano inoltre duemila navi, cioè un numero doppio di quello con cui un tempo l’intera Grecia e tutta la Tessaglia intrapresero assieme la conquista delle città dell’Asia. Ma quelle sono le invenzioni dello stilo di un poeta, questo invece fa parte della storia reale. E dunque noi scrittori aduliamo Claudio, uno che sbaragliò, sgominò, annientò duemila navi barbare e trecentoventimila soldati, e che l’imponente apparato di carriaggi, che questo numero di armati poté disporre ed allestire per le proprie esigenze, in parte lo diede alle fiamme, in parte lo destinò, assieme a tutte le persone al seguito, al servizio dei Romani, come si apprende da una sua lettera, scritta a Giunio Brocco, che aveva il comando nell’Illirico: «Claudio a Brocco. Abbiamo sbaragliato trecentoventimila Goti, abbiamo affondato duemila navi. I fiumi sono ricoperti di scudi, tutte le spiagge sono disseminate di spade e lance. I campi neanche più si vedono, nascosti come sono dalle ossa, non esiste più una strada sgombra, una gran quantità di carriaggi è stata abbandonata. Abbiamo catturato tante donne, che i nostri soldati vincitori se ne possono prendere per sé due o tre a testa.»

(Historia Augusta, il divo Claudio, 7,1 – 8,6)

La morte

Nonostante la vittoria, Claudio dovette trasferirsi a Sirmium, per affrontare i vandali e gli iutungi. Ma nel 270, poco dopo lo scoppio di una violenta epidemia (peste?) l’imperatore, ammalatosi, morì. Fu un fatto straordinario, pochissimi durante l’anarchia militare non morirono di morte violenta:

«Terminata così la guerra gotica, dilagò una gravissima epidemia, nel corso della quale anche Claudio, colpito dal male, lasciò i mortali per salire al cielo, dimora naturale per le sue virtù. Mentre dunque egli passava tra gli dei, lassù fra gli astri, suo fratello Quintillo, uomo di elevate virtù e degno fratello – come potrei davvero dire – di suo fratello, assunse l’impero conferitogli per consenso unanime, non per diritto di eredità, ma per merito delle sue doti: ché egli sarebbe stato eletto imperatore anche se non fosse stato il fratello dell’imperatore Claudio. Sotto il suo regno i barbari superstiti tentarono di mettere a sacco Anchialo e di occupare Nicopoli. Ma furono annientati dai valorosi provinciali. Quintillo peraltro, per via della brevità del periodo in cui regnò, non poté compiere nulla che fosse degno di un imperatore; infatti, al diciassettesimo giorno di regno, per essersi mostrato severo e fermo nei confronti dei soldati, facendo presagire che sarebbe stato un vero sovrano, venne ucciso alla stessa maniera di Galba e di Pertinace.»

(Historia Augusta, il divo Claudio, 12, 2-5)

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