L’imperatore Caligola

« Si decise di assalirlo [Caligola] in occasione dei giochi palatini a mezzogiorno, proprio quando avrebbe lasciato lo spettacolo, e la parte principale dell’azione fu reclamata da Cassio Cherea, il tribuno di una coorte pretoriana che Gaio, senza nessun riguardo per la sua età avanzata, aveva l’abitudine di insultare, come uomo molle ed effeminato: ora, quando gli chiedeva la parola d’ordine, Caligola rispondeva «Priapo» o «Venere», ora, quando, per un motivo qualsiasi, gli tendeva la mano da baciare, gli faceva un gesto o un movimento osceno. […] Il nono giorno prima delle calende di febbraio [il 24 gennaio del 41 d.C.], verso l’una, Caio [Caligola] era indeciso se andare a pranzo, avendo ancora lo stomaco in disordine per quanto aveva mangiato il giorno prima. Alla fine, persuaso dagli amici, uscì. In una galleria, che doveva attraversare, alcuni nobili giovinetti chiamati dall’Asia per rappresentare uno spettacolo in scena stavano provando. Caio si fermò a guardarli e ad incoraggiarli e, se il capo della compagnia non avesse detto che avevano freddo, avrebbe deciso di tornare indietro e far eseguire lo spettacolo. Da questo punto ci sono due versioni diverse: alcuni raccontano che, mentre stava parlando con questi ragazzi, Cherea da dietro lo colpì pesantemente alla nuca con la spada, di taglio, dopo aver detto «Colpisci!» e subito l’altro congiurato, il tribuno Cornelio Sabino, gli trafisse il torace. Secondo altri, invece, Sabino, fatta allontanare la folla da alcuni centurioni complici della congiura, aveva chiesto a Caio la parola d’ordine, secondo la consuetudine militare e, quando quello aveva risposto «Giove», Cherea da dietro aveva gridato: «Prendilo per certo» e, mentre si voltava, lo aveva colpito alla mascella. Mentre Caio a terra, con le membra contratte, gridava di essere ancora vivo, gli altri lo finirono con trenta ferite. Infatti la parola d’ordine per tutti era: «Colpisci ancora!». Alcuni gli trafissero anche i genitali. All’inizio del tumulto accorsero i portantini e anche le guardie del corpo germaniche che uccisero alcuni degli attentatori e anche alcuni senatori innocenti. Visse ventinove anni e fu imperatore per tre anni, dieci mesi e diciotto giorni. Il suo corpo fu portato di nascosto nei giardini di Lamia e, semicombusto su di un rogo allestito in gran fretta, fu coperto d’un leggero strato di terra. In seguito, le sorelle, tornate dall’esilio, lo riesumarono, lo cremarono e gli diedero sepoltura. Risulta che prima che ciò avvenisse, i custodi dei giardini erano perseguitati dai fantasmi e che, nella casa in cui era stato ucciso, non trascorse notte senza qualche motivo di terrore, finché la casa stessa non fu distrutta da un incendio. Insieme a Caio fu uccisa anche la moglie, Cesonia, trafitta da un centurione e la figlia, sfracellata contro un muro.»

Svetonio, Caligola, 56-59

Claudio: l’ultimo sopravvissuto

Dopo 4 anni finiva così l’impero di Caligola. Inizialmente accolto con ogni onore, in quanto figlio di Germanico e in contrapposizione all’osteggiato dal senato Tiberio, si comportò inizialmente con grande rispetto verso lo stato e i senatori. Ma pochi mesi dopo, colpito da un’improvvisa malattia, per poco non morì. Pare che l’uomo che ne uscì fuori divenne un’altra persona, privo di scrupoli e sempre pronto a ignorare le esigenze altrui:

«Ottenuto così il potere imperiale, esaudì i voti del popolo romano (o dovrei dire piuttosto dell’intero genere umano?), principe desideratissimo dalla maggior parte dei provinciali e dei soldati, che in molti lo avevano conosciuto da bambino, ma anche da tutta la plebe urbana memore del padre Germanico e impietosita dallo sterminio quasi totale della sua famiglia. Pertanto, quando lasciò Miseno, sebbene stesse accompagnando il feretro di Tiberio, vestito a lutto, tuttavia, tra le are e le vittime e le fiaccole ardenti, avanzò in mezzo a una fittissima ed entusiasta folla di gente che gli andava incontro e lo apostrofava, oltre che con nomi ben auguranti, «stella», «pulcino», «pupo», «figlio». E, appena entrato in città, subito per volere unanime del Senato e della folla che fece irruzione nella Curia, fu annullata la volontà di Tiberio che nel testamento gli aveva dato come coerede l’altro nipote ancora fanciullo. Gli vennero conferiti potere e autorità assoluti, in un tale tripudio popolare che nei tre mesi successivi, neppure interi, si dice che furono immolate oltre 160.000 vittime. Quando poi, dopo alcuni giorni, si trasferì nelle isole vicine alla Campania, si fecero voti per il suo ritorno e nessuno trascurò la benché minima occasione di testimoniare la propria premura per la sua incolumità. Quando si ammalò, mentre tutti vegliavano di notte intorno alla reggia sul Palatino, vi fu chi fece voto di combattere con le armi per la sua guarigione e chi offrì la propria vita in cambio della sua, esponendo un cartello col voto espresso. A quell’immenso amore dei cittadini, si aggiunse anche un notevole favore degli stranieri. Infatti Atrabano, re dei Parti, che sempre aveva manifestato odio e disprezzo per Tiberio, chiese spontaneamente di essergli amico e venne a colloquio col legato consolare e, quando ebbe attraversato l’Eufrate, rese ossequio alle aquile e alle insegne romane e all’effigie dei Cesari. […] Con mossa egualmente popolare, graziò i condannati e i confinati e concesse indulgenza a tutte le imputazioni che fossero rimaste in sospeso dal periodo precedente. Fece bruciare tutti gli atti processuali relativi alle cause della madre e dei fratelli, dopo averli fatti raccogliere tutti nel foro, affinché nessun delatore o testimone avesse a temere ancora, e dopo aver chiamato a testimoni gli dèi che egli non ne aveva letto né toccato alcuno. Rifiutò di accettare un libello che denunciava rischi per la sua incolumità, contestando che non aveva fatto nulla per cui potesse essere odiato da qualcuno e disse di non avere orecchie per i delatori. Permise che le opere di Tito Labieno, Cremuzio Cordo e Cassio Severo, tolte di mezzo per decreto del Senato, fossero ripescate e messe in giro e lette e rilette, perché era suo massimo interesse che tutti gli eventi accaduti fossero tramandati ai posteri. Rese pubblici i conti dello Stato, la cui pubblicazione, solitamente consentita da Augusto, era stata sospesa da Tiberio. Concesse ai magistrati libertà di giurisdizione senza doversi appellare a lui. Riesaminò con severità e attenzione, ma sempre con moderazione, i cavalieri romani e privò pubblicamente del cavallo chi si fosse macchiato di qualche misfatto o ignominia e fece soltanto tralasciare di nominare negli elenchi coloro che avevano commesso colpe minori. Per alleviare il lavoro dei giudici, aggiunse una quinta decuria alle quattro precedenti. Cercò anche di restituire al popolo il diritto di voto ripristinando l’uso dei comizi. Pagò i lasciti del testamento di Tiberio, sebbene fosse stato annullato, ma anche quelli del testamento di Giulia Augusta che Tiberio aveva tenuto nascosti e lo fece fedelmente senza sollevare obiezioni. Condonò il mezzo per cento delle vendite all’asta in Italia. Risarcì a molti i danni d’incendio. Quando restituì ad alcuni re i loro domini, rese loro anche il ricavato dei tributi e il reddito prodotto nell’interregno, come nel caso di Antioco Commageno, al quale restituì cento milioni di sesterzi confiscatigli. Finora ho parlato più o meno del principe; mi resta ora di parlare del mostro. Dopo aver assunto vari epiteti (si faceva chiamare infatti Pio, Figlio dell’accampamento, Padre degli eserciti, Cesare Ottimo Massimo), quando sentì per caso alcuni re, giunti a Roma per rendergli ossequio, discettare durante la cena che si teneva alla sua mensa, della nobiltà di stirpe, esclamò: «Uno solo sia il sovrano, uno solo il re!». E mancò poco che si mettesse in testa immediatamente il diadema e mutasse la parvenza del principato nella forma effettiva del regno. Ma, poiché gli ricordarono che egli era andato ben oltre la grandezza dei principi e dei re, da quel momento iniziò ad attribuirsi la maestà divina. Diede incarico di portare dalla Grecia i simulacri degli dei, noti per la loro importanza religiosa o artistica, e tra questi la statua di Zeus Olimpio, e fece sostituire la testa di queste statue con la riproduzione della propria. Fece prolungare una parte del Palazzo fino al Foro e, trasformato il tempio di Castore e Polluce in vestibolo, si presentava spesso seduto tra i due Dioscuri a coloro che si recavano da lui, come terza divinità da adorare in mezzo agli altri due e alcuni lo salutavano anche come Giove Laziale. Instituí inoltre in onore del proprio nume un tempio, dei sacerdoti e vittime assai rare. Nel tempio era stata eretta una sua statua d’oro a grandezza naturale, che ogni giorno veniva avvolta da una veste identica a quella indossata da lui stesso. I cittadini più ricchi si contendevano le cariche di quel sacerdozio brigando e offrendo grandi somme di denaro per ottenerle. Le vittime erano fenicotteri, pavoni, urogalli, faraone, galli indiani, fagiani ed ogni giorno ne veniva immolata una specie diversa. Di notte poi invitava la luna piena e luminosa, con preghiere assidue, a far l’amore e a giacere con lui; di giorno invece conversava in segreto con Giove Capitolino, ora bisbigliando e porgendo a sua volta l’orecchio, ora a voce alta e lanciando improperi. Lo si udì infatti minacciare: «O tu togli di mezzo me, o io te!». Finché, supplicato, così andava dicendo, e anzi invitato a vivere con lui, fece unire il Palatino con il Campidoglio, facendo passare un ponte sopra il tempio del Divo Augusto. Subito dopo, per stargli ancora più vicino, fece gettare le fondamenta della nuova reggia proprio nell’area capitolina. Non voleva essere ritenuto, né detto nipote di Agrippa, in quanto questi non era nobile e si adirava se qualcuno, in un discorso o in un carme inseriva costui tra le figure dei Cesari. Diceva in giro che sua madre era nata da un rapporto incestuoso tra Augusto e sua figlia Giulia. Non contento di infamare così Augusto, vietò di celebrare con feste solenni le vittorie di Azio e di Sicilia, come funeste e rovinose per il popolo romano. Definiva la sua bisnonna Livia Augusta un Ulisse travestito da donna e osò anche accusarla, in una lettera al Senato, di ignobiltà, come se fosse nata da un avo materno, decurione di Fondi, mentre da documenti pubblici risulta che Aufidio Lurcone ricoprì cariche politiche a Roma. Aveva abitualmente rapporti incestuosi con tutte le sue sorelle e in pieno banchetto a turno ne faceva sdraiare una alla sua destra, mentre teneva a fianco, dall’altro lato, la moglie. Si dice che abbia sedotto la sorella Drusilla, ancora vergine, quando ancora indossava la pretesta, e una volta fu anche sorpreso dalla nonna Antonia, che li allevava in casa sua, mentre giaceva con lei. Dopo averla data in sposa a Lucio Cassio Longino ex console, gliela portò via e la tenne con sé, pubblicamente, come una moglie legittima e, una volta che si era ammalato, la nominò erede dei suoi beni e del suo potere. Quando Drusilla morì, proclamò la sospensione dell’amministrazione della giustizia e in quel periodo fu ritenuto delitto capitale ridere, lavarsi, cenare con i genitori o con la moglie e i figli. E non ebbe maggior rispetto o umanità verso il Senato: ad alcuni che avevano rivestito altissime cariche fece la concessione di correre in toga presso il suo cocchio per molte miglia e di stare ai suoi piedi o alla spalliera, con un tovagliolo alla cintola, mentre egli cenava; altri, dopo averli fatti ammazzare di nascosto, continuò a farli convocare, come se fossero vivi e dopo alcuni giorni, dichiarò, mentendo, che si erano suicidati. Sospese l’incarico ai consoli che si erano dimenticati di annunziare al pubblico il suo giorno natale e lo Stato rimase per tre giorni senza la sua più alta carica. Fece flagellare il suo questore, indiziato di congiura, avendo fatto gettare sotto i piedi dei soldati la veste che gli era stata strappata di dosso, affinché potessero poggiarvisi più saldamente per frustarlo. Con eguale disprezzo e violenza trattò anche gli altri ordini. Irritato dal chiasso della folla che occupava i posti gratuiti del Circo nel bel mezzo della notte, fece scacciare tutti a bastonate. In quello scompiglio rimasero schiacciati più di venti cavalieri romani e altrettante matrone, oltre un numero imprecisato di altre persone della folla. Durante i ludi scenici, per creare la rissa tra la plebe e i cavalieri, dava le elargizioni prima del tempo previsto, affinché i posti riservati ai cavalieri fossero occupati dai più poveri. Durante alcuni spettacoli gladiatori, talvolta faceva togliere il velario quando il sole era più ardente, non permetteva a nessuno di uscire e, eliminato l’allestimento ordinario, offriva al pubblico bestie macilente, gladiatori scadentissimi e vecchissimi, talora gladiatori per burla, padri di famiglia noti per un qualche difetto fisico. Spesso minacciò di affamare il popolo, dopo aver fatto chiudere i granai pubblici. In questi modi rivelò al massimo la sua indole crudele. Poiché le bestie da dare in pasto alle fiere destinate allo spettacolo costavano troppo care, fece dare loro da sbranare alcuni condannati e, passando in rassegna le prigioni, senza guardare le note di alcuno, ordinò di farli uscire tutti, «da quel calvo a quell’altro calvo», standosene soltanto in mezzo al portico. Favorì chi gli stava a cuore, fino alla follia. Inviava baci all’attore di pantomimo Mnestere, anche durante lo spettacolo e se qualcuno faceva anche un minimo rumore mentre quello danzava, lo faceva trascinare presso di sé e lo flagellava con le sue stesse mani. A un cavaliere romano che dava fastidio, fece notificare l’ordine di partire senza il minimo indugio per Ostia e recare al re Tolomeo, in Mauritania, un plico il cui contenuto era: «Non fare né bene né male al latore della presente». Nominò a capo della sua guardia del corpo germanica alcuni Traci. Alleggerì l’armatura dei mirmilloni. A uno di essi, di nome Colombo, che aveva vinto il combattimento ma era rimasto leggermente ferito, fece stillare nella piaga un veleno che poi chiamò Colombino. Fu trovato infatti insieme agli altri veleni così denominato con una scritta di suo pugno. Era accanito sostenitore dei Verdi tanto che spesso si intratteneva a cena nelle scuderie e, durante una di queste gozzoviglie, diede vari doni per un valore di due milioni di sesterzi all’auriga Eutico. Per il suo cavallo Incitato faceva imporre e rispettare il silenzio, anche con l’intervento delle guardie, la sera prima della corsa, affinché non fosse disturbato. Gli donò, oltre una stalla di marmo e una greppia d’avorio, coperte di porpora e bardamenti di pietre preziose e anche una casa con tanto di servitù e mobilio, perché le persone che faceva invitare a nome del cavallo fossero ospitate assai degnamente. Si dice che volesse persino candidarlo al consolato.»

Svetonio, Caligola, 14; 15; 16; 22-23; 24; 26-27; 55

Fu così che i pretoriani, d’accordo col senato, decisero di eliminare un imperatore ormai allo sbando, secondo quanto ci riporta Svetonio. D’altra parte il racconto di Tacito a riguardo, probabilmente ancorato più saldamente ai fatti, è andato perduto, in quando raccolto tra il libri VII e X a noi non pervenuti degli Annales, per cui dobbiamo fare riferimento principalmente alla versione di Svetonio, che descrive Caligola come un pazzo assetato di potere.

Se c’era certezza da parte di tutti sul voler eliminare Caio, non ce n’era alcuna su cosa sarebbe dovuto accadere dopo; infatti non c’era un successore designato e d’altronde nella famiglia giulio-claudia molti elementi erano stati assassinati o erano morti nel corso del tempo. Tra loro restava lo zio di Caio e fratello di Germanico, rimasto in disparte fin dalla tenera età in quanto zoppo e balbuziente, quasi ripudiato dalla madre e perfino tra gli ultimi nel testamento di Augusto, ma grande esperto di cultura, Claudio:

«Ritiratosi insieme agli altri, quando i congiurati che attentavano alla vita di Caio, con la scusa che l’imperatore voleva stare solo, avevano fatto allontanare la folla, era entrato in una stanzetta chiamata Ermèo. Poco dopo, terrorizzato dai rumori di quell’omicidio, strisciò fino al terrazzo adiacente e si nascose tra le pieghe della tenda della porta. Mentre se ne stava così nascosto, un soldato, che passava di lì per caso, notò i piedi, lo tirò fuori per scoprire chi fosse e, riconosciutolo, mentre quello gli si gettava ai piedi tremante di paura, lo salutò imperatore; quindi lo trascinò presso gli altri suoi commilitoni ancora tutti confusi e tremanti. Questi lo posero su di una lettiga e, poiché i suoi servitori erano scappati, portandolo a turno a spalla, lo accompagnarono sgomento e tremante fino al Castro, mentre la folla che lo incontrava provava pietà per lui, pensando che venisse ingiustamente condotto al supplizio. Lo fecero entrare nel vallo e lì trascorse la notte tra le sentinelle con speranze inferiori alla fiducia. Infatti i consoli avevano occupato il foro e il Campidoglio insieme al Senato e alle coorti urbane, con l’intenzione di restaurare la libertà repubblicana. Claudio, convocato in Senato dai tribuni della plebe per esprimere il suo parere, rispose che «era impedito da cause di forza maggiore». Il giorno seguente, però, poiché il Senato era troppo lento nel perseguire i suoi intenti, vuoi per stanchezza, vuoi per dissensi interni, e la folla d’intorno chiedeva insistentemente che le venisse dato un governatore unico e faceva proprio il suo nome, [Claudio] consentì che l’esercito, riunito in assemblea, gli prestasse giuramento. Promise a ciascuno quindicimila sesterzi e fu il primo tra i Cesari a comprare la fedeltà dell’esercito.»

Svetonio, Claudio, 10

Un pretoriano, riconosciuto Claudio nascosto dietro una tenda nel palazzo imperiale (Caligola era stato assassinato in un tunnel che portava dal Circo Massimo al Palatino), lo acclamò immediatamente imperatore: chi altri, se non un membro della famiglia imperiale, poteva garantire loro la paga? Infatti pare che il senato, riunito in assemblea, stesse già meditando se ristabilire la repubblica, e aveva il controllo delle coorti urbane. Le quali però erano di molto inferiori alle nove coorti di pretoriani stabilite dei castra praetoria, creati da Tiberio, zio di Claudio.

Fu proprio lì che venne portato, in lettiga, dai pretoriani stessi (i suoi servitori erano fuggiti per la paura). Ma, mentre Claudio passò una notte terribile, temendo di venire assassinato, il giorno seguente i pretoriani, schierati nel castra, lo acclamarono imperatore, mentre anche il popolo romano faceva pressione affinché ci fosse un nuovo Cesare. Il senato non poté fare nulla per opporsi, sia perché aveva perso troppo tempo, sia perché il popolo e i pretoriani erano dalla parte di Claudio, che decise di dare subito un donativo di 15.000 sesterzi ai pretoriani, cui doveva il potere:

«Reso stabile il suo potere, nulla gli sembrò più urgente che cancellare il ricordo di quei due giorni in cui si era rischiato di mutare la costituzione dello stato. Pertanto sancì il perdono e l’oblio perpetuo di quanto fosse stato detto o fatto in quei due giorni, limitandosi a far giustiziare soltanto alcuni tribuni e centurioni che avevano fatto parte della congiura contro Caio, per dare un esempio, ma anche perché aveva saputo che quelli avevano chiesto anche la sua uccisione. Si volse quindi ai doverosi atti di devozione e stabilì che il suo giuramento più sacro e più consueto sarebbe stato quello prestato su Augusto. Si assicurò che venissero conferiti onori divini alla nonna Livia e che nella processione circense venisse trasportata su un carro trainato da elefanti, simile a quello di Augusto. Istituì pubbliche cerimonie funebri per i suoi genitori e inoltre ludi circensi da festeggiare ogni anno nella ricorrenza della nascita del padre e un carro dedicato alla madre Antonia su cui trasportarne l’immagine durante la processione circense. Le fece anche conferire il titolo di Augusta, titolo da lei rifiutato in vita. Riguardo alla memoria del fratello, da lui celebrata in ogni circostanza, fece anche allestire a Napoli, in un agone, una commedia greca scritta da quello, che fu da lui premiata con una corona, secondo la sentenza degli arbitri di gara. Non lasciò privo di onori e di menzioni di gratitudine neanche Marco Antonio, infatti in un editto una volta dichiarò che chiedeva la celebrazione dell’anniversario della nascita di suo padre, Druso, tanto più insistentemente in quanto coincideva con quella di suo nonno Antonio. Fece eseguire la costruzione dell’arco di marmo dedicato a Tiberio accanto al teatro di Pompeo, che un tempo il Senato aveva decretato e che poi non aveva avuto seguito. Quanto a Caio, pur avendo annullato tutti i suoi atti, vietò che fosse considerato festivo il giorno della sua uccisione, sebbene fosse anche il primo del suo principato.»

Svetonio, Claudio, 11

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Claudio: l’imperatore dietro la tenda
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