Alla morte di Costantino gli successero i suoi tre figli superstiti, Costantino II, Costanzo II e Costante. Il più grande, Costantino II, aveva solamente 21 anni ed era diventato il figlio maggiore dopo la morte, in circostanze mai chiarite, di Crispo, avvenuta nel 326. Ma, nonostante la primogenitura, a lui venne confermata la Gallia (dove già aveva governato come Cesare), mentre al più piccolo Costante andava l’Italia, l’Africa e l’Illirico, e a Costanzo l’oriente e la Tracia.

Dunque dall’incontro di Viminacium del 338 erano usciti vincitori Costante e Costanzo. Poco dopo, nel 340, Costantino decise di prendersi anche la parte del fratello minore, ma venne sconfitto e perse la vita. Nel 350 invece, dopo l’usurpazione di Magnezio in Gallia, anche Costante uscì di scena. Sconfitto poi anch’egli da Costanzo a Mursa, in Pannonia, e a Mons Seleucus, nei pressi di Lugdunum (Lione), l’ultimo figlio di Costantino rimase unico imperatore.

La differenza tra i fratelli era inoltre anche religiosa; mentre in occidente prendeva piede il credo niceno formulato dal Concilio di Nicea del 325, con Costante che professava quel credo, Costanzo era ariano. Le divergenze non furono appianate neanche dal Concilio di Serdica del 343, fortemente voluto da Costante, e in cui non si presentò nessuno dei due fratelli. Anzi, alla notizia della vittoria di Costanzo contro i persiani, i vescovi orientali abbandonarono il Concilio.

Unico imperatore

Costanzo, unico figlio di Costantino rimasto, era nato a Sirmio, il 7 agosto del 317. I figli del primo imperatore cristiano erano riusciti a prendere il potere anche grazie a un bagno di sangue, avvenuto nell’estate del 337, dopo la morte del padre, quando fecero uccidere quasi tutti i loro zii e cugini, lasciandone in vita solo due, Gallo e Giuliano.

Infatti fu proprio Gallo a essere associato come Cesare nel 351, dopo la sconfitta di Magnezio. Nonostante i successi contro i barbari, pare forse dietro le pressioni di alcuni comandanti e cortigiani, Costanzo diventò geloso dell’operato di Gallo, che fece arrestare e uccidere nel 354.

Ma si ripresentava il problema dell’occidente, che aveva bisogno di un imperatore: Costanzo fu costretto a eleggere come Cesare l’ultimo cugino che gli era rimasto, Giuliano, nel 355. Poco dopo, nel 357, si recò a Roma per festeggiare i vicennalia, i vent’anni di regno, dove fece dono di un obelisco alla città, ora a San Giovanni:

«Poiché gli adulatori, che, come al solito, gonfiavano Costanzo, gli ripetevano continuamente che Ottaviano Augusto aveva fatto trasportare due obelischi da Eliopoli in Egitto, dei quali uno fu sistemato nel Circo Massimo, l’altro nel Campo Marzio, ma non aveva osato né toccare né smuovere quest’ultimo che di recente è stato fatto arrivare, spaventato com’era dalle difficoltà causate dalla sua dimensione, sia ben chiaro a quanti l’ignorano che quell’antico imperatore, il quale pur ne aveva trasferiti alcuni, lasciò intatto quest’obelisco perché, consacrato come dono particolare al dio Sole e posto nel recinto sacro di un tempio sontuoso, si ergeva come una cima fra tutti gli edifici. Ma Costantino, senza tenere in alcun conto tutto ciò, ordinò che questa mole fosse strappata dal suo posto e, ritenendo giustamente di non mancare di rispetto alla religione se, avendo tolto quell’opera mirabile dal suo tempio, la consacrasse a Roma che è il tempio di tutto il mondo, lasciò che per lungo tempo giacesse al suolo finché fossero preparati i mezzi necessari per il trasporto. Allorché l’obelisco fu trasportato su un’imbarcazione lungo il Nilo sino ad Alessandria, fu costruita una nave di proporzioni sin’allora inusitate, che doveva essere mossa da trecento rematori. Quando questi preparativi furono portati a compimento, l’imperatore summenzionato morì per cui venne meno la fretta nell’esecuzione di quest’impresa. Infine, parecchio tempo dopo, l’obelisco fu caricato sulla nave ed attraverso i mari e la corrente del Tevere che, per così dire, temeva di far giungere fra le mura dei suoi figli, a causa dei pericoli della foce, ciò che gli aveva mandato il Nilo a lui quasi sconosciuto, fu trasportato nel Vicus Alexandri a tre miglia dalla città. In questa località fu posto su tregge e venne trascinato con somma cura attraverso la porta Ostiense e la Piscina Publica sino al Circo Massimo. Bisognava quindi sollevarlo, operazione questa che si riteneva di poter compiere a stento o addirittura si disperava di effettuare. Ma fu eseguita nel modo seguente: furono ammucchiate, erette ed ordinate perpendicolarmente delle alte travi (sembrava addirittura un bosco di macchine) su cui furono legate grosse e lunghe funi, simili a molteplici licci che nascondevano il cielo per il gran numero. A queste fu legata quella montagna fregiata d’incisioni e lentamente fu sollevata nel vuoto. L’obelisco rimase a lungo sospeso mentre migliaia di uomini facevano girare delle ruote simili a quelle dei molini. Collocato nel mezzo del Circo, gli fu sovrapposta una sfera di bronzo, splendente di lamine d’oro; ma, colpita poco tempo dopo dal fulmine e perciò tolta di lì, fu sostituita dall’immagine di una torcia di bronzo ricoperta, come la precedente, di lamine d’oro che sembrava risplendere di fiamme abbondanti. Le generazioni successive trasportarono altri obelischi, dei quali uno fu eretto in Vaticano, un altro negli orti sallustiani e due furono elevati presso il mauseoleo di Augusto. Il testo poi inciso sull’antico obelisco, che vediamo nel Circo, viene da noi qui di séguito trascritto in greco secondo l’interpretazione esposta nel libro di Ermapione. Cominciando dal lato volto a sud, la traduzione della prima riga è la seguente:

Il Sole dice al re Ramestes: Ho concesso a te, che sei amato dal Sole, di regnare con gioia su tutto il mondo abitato. Apollo potente ed amante della verità, figlio di Erone, divino creatore dell’universo, che il Sole scelse, il re Ramestes, valoroso figlio di Ares, a cui è sottoposta tutta la terra grazie al suo valore ed alla sua audacia. Il re Ramestes figlio del Sole, dall’eterna vita.

RIGA SECONDA. Apollo potente, il quale si erge sulla verità, signore del diadema, che tutti considerano padrone dell’Egitto, il quale ha reso splendida Eliopoli, ed ha creato il resto dell’universo e che ha molto onorato gli dèi collocati in Eliopoli, che il Sole ama.

RIGA TERZA. Apollo potente, figlio splendente del Sole, che il Sole scelse ed Ares valoroso fornì di doni. I suoi beni durano in ogni tempo, ed Ammone lo ama, riempiendo il tempio dei frutti della palma. A lui gli dèi donarono il tempo della vita. Apollo potente, figlio di Erone, Ramestes sovrano dell’universo, che difese l’Egitto vincendo i popoli stranieri, che Elios ama, a cui gli dèi donarono molto tempo di vita. Ramestes, signore dell’universo, dall’eterna vita.

LATO OCCIDENTALE, RIGA SECONDA. Il dio Sole, grande Signore del cielo. Ti ho concesso una vita dalla durata imprevedibile. Apollo potente, incomparabile signore del diadema, che ha eretto le statue degli dèi in questo regno, dominatore dell’Egitto, ed adornò Eliopoli in maniera eguale al Sole, signore del cielo. Compì un’opera buona il figlio del Sole, il re dell’eterna vita.

RIGA TERZA. Il dio Sole, signore del cielo, al re Ramestes. Ti ho concesso la potenza ed il dominio su tutti. Lui Apollo, amante della verità, signore dei tempi, ed Efesto, padre degli dèi, scelse per causa di Ares. Re lietissimo, figlio del Sole ed amato dal Sole.

LATO ORIENTALE, RIGA PRIMA. Il grande dio di Eliopoli, il celeste e potente Apollo, figlio di Erone, che il Sole amò, che gli dèi onorarono, sovrano di tutta la terra, che il Sole scelse, il re valoroso per causa di Ares, che Ammone ama. E lo splendente avendo dichiarato eterno re ecc.»

(Ammiano Marcellino, Storie, XVII, 4, 12-23)

La fine

Mentre Giuliano mieteva i primi successi in occidente, Costanzo andò prima sul Danubio, dove inflisse pesantissime sconfitte ai quadi e ai sarmati, tanto da essere acclamato Sarmaticus Maximus. Nel 358 i persiani, guidati da Sapore II, ripresero tuttavia le ostilità:

«Costanzo Augusto e Sapore re dei Persiani trattano indarno la pace per mezzo di lettere ed ambasciatori. Sotto il consolato di Daziano e Cereale (358 d.C.), mentre con sollecitudine e con grande prudenza si poneva ordine alla situazione delle Gallie e la paura dovuta alle esperienze passate rallentava gli attacchi barbarici, il re dei Persiani, il quale si trovava ancora ai confini con i popoli più lontani e stava ormai per ritornare nei suoi territori dopo aver stretto amicizia con i Chioniti ed i Gelani, popolazioni bellicosissime, ricevette una lettera da Tamsapore, il quale l’informava che l’imperatore romano gli chiedeva supplichevolmente la pace. Perciò, immaginando che egli tentasse questa via soltanto in séguito all’indebolirsi delle forze dell’impero, gonfio ancor più di superbia, accettò il pretesto della pace per porre gravi condizioni. Inviò con doni come ambasciatore un certo Narseo, a cui affidò una lettera per Costanzo. In essa, senza mai rinunciare all’innata superbia, scriveva press’a poco quanto segue: «Io Sapore, re dei re, compagno delle stelle, fratello del Sole e della Luna, saluto di cuore mio fratello Costanzo Cesare. «Mi rallegro e finalmente provo piacere che tu sia ritornato alla via migliore e che abbia riconosciuto l’inviolabile sanzione della giustizia, dopo aver appreso dagli avvenimenti quali sciagure alle volte abbia causato la brama dei beni altrui. Poiché la considerazione della verità dev’essere del tutto libera ed è giusto che coloro che occupano cariche più elevate esprimano i loro reali sentimenti, esporrò in breve il mio pensiero ricordando d’aver più volte ripetuto quanto sto per dire. Pure i vostri storici antichi testimoniano che i miei antenati estesero il loro impero sino al fiume Strimone ed ai confini della Macedonia; è giusto dunque che io esiga la restituzione di questi territori (né sembrino presuntuose le mie richieste) dato che supero gli antichi sovrani per magnificenza ed una serie di doti insigni. Ma mi sta sempre a cuore la giustizia ed essendo stato educato in essa sin dalla fanciullezza, mai ho commesso un’azione di cui poi mi dovessi pentire. Perciò ritengo mio diritto riacquistare l’Armenia con la Mesopotamia, strappata al mio avo con la frode. Da parte nostra non sarà mai accettato il principio che voi con baldanza sostenete, secondo il quale si debbono esaltare tutti gli esiti favorevoli delle guerre senza che sia fatta alcuna distinzione fra il valore e l’inganno. Infine se vorrai seguire veramente il mio parere, trascura una parte esigua, che sempre è stata per te causa di lutti e di stragi, per poter governare senza preoccupazione il resto dell’impero, e considera saggiamente che anche i medici alle volte cauterizzano, tagliano ed amputano membra, perché le altre parti del corpo rimangano sane. Lo stesso fanno spesso anche le bestie, le quali accortesi che l’uomo dà loro la caccia particolarmente per una parte del loro corpo, spontaneamente se ne disfanno per poter vivere di poi senza paura. Dichiaro intanto con sicurezza che se questa mia ambasceria ritornerà senza alcun risultato, dopo il periodo di quiete invernale con tutte le mie forze mi affretterò a venire fin dove la ragione me lo consentirà. Infatti la mia speranza di successo si fonda sulla fortuna e sull’equità delle condizioni che ho proposto». A questa lettera, che fu a lungo esaminata, fu risposto, come si suol dire, con animo schietto e con ponderatezza nel modo seguente: «Io Costanzo, sempre Augusto, vittorioso per terra e per mare, saluto di tutto cuore mio fratello il re Sapore. «Mi rallegro della tua salute dato che, se vuoi, diverrò tuo amico, ma disapprovo assai la tua cupidigia insaziabile e senza limiti. Tu esigi la Mesopotamia, come se fosse tua, e così pure l’Armenia e cerchi di convincermi a tagliare delle membra da un corpo sano, affinché la sua salute possa di nuovo consolidarsi. È questo un consiglio piuttosto meritevole di confutazione che di consenso. Apprendi dunque la verità che non è nascosta da inganni, ma è chiara e non si lascia spaventare da minacce vane. Il mio prefetto del pretorio, ritenendo di agire nell’interesse pubblico, ha condotto, a mia insaputa, trattative di pace con un tuo generale per tramite di alcuni funzionari di infimo grado. Noi non rifiutiamo né respingiamo la pace, purché sia decorosa ed onorevole, e non rechi alcun pregiudizio al nostro sentimento d’onore ed alla nostra maestà. Infatti sarebbe incongruente e da stolti cedere regioni che, mentre eravamo confinati nei ristretti territori dell’Oriente, a lungo conservammo intatte, per di più proprio ora che una serie d’imprese (l’invidia ci ascolti placata) ci risplendette favorevole in varie maniere e che, abbattuti i tiranni, tutto l’orbe romano obbedisce a noi. Si ponga fine inoltre, di grazia, alle intimidazioni che vengono esercitate su di noi come di consueto, poiché è fuori dubbio che noi alle volte abbiamo subito attacchi, anziché sferrarli, non per inerzia, ma per un senso di misura. Così pure sia ben chiaro che, ogniqualvolta siamo provocati, siamo soliti difendere quanto ci appartiene con l’energia che proviene dalla retta coscienza, ben sapendo per esperienza e dalla storia che la potenza romana di rado vacillò in alcuni combattimenti, ma mai fu disfatta in una guerra». A quest’ambasceria, che fu rimandata dal re senza che si giungesse ad alcun risultato, — né si poteva rispondere altrimenti alla sfrenata cupidigia del re — pochissimi giorni dopo fece séguito da parte romana quella del comes Prospero, del tribuno e notaro Spettato, a cui fu aggiunto, per suggerimento di Musoniano, il filosofo Eustazio, in quanto maestro nell’arte della persuasione. Questi portarono una lettera ed i doni dell’imperatore e dovevano cercare nel frattempo di far sospendere, in qualche maniera, i preparativi di Sapore, affinché le province settentrionali non fossero fortificate oltre ogni limite.»

(Ammiano Marcellino, Storie, XVII, 5, 1-15)

Costanzo infine si decise a chiedere alcune truppe a Giuliano, per la guerra persiana. Ma alla notizia i soldati galli e barbari si ribellarono, asserendo che gli era stato promesso che non si sarebbero dovuti allontanare dalle loro case, e acclamarono Giuliano Augusto. Inizialmente Costanzo cominciò comunque la campagna persiana, ma poi decise di andare incontro al cugino. Tuttavia, non lontano da Tarso, a Mobsucrenae, trovò la morte per una febbre, il 3 novembre del 361. Pare che in punto di morte avesse deciso di adottare il cugino Giuliano.

Costanzo Augusto muore a Mobsucrenae in Cilicia.

«Pertanto Costanzo, entrato in fretta ad Antiochia e pronto ad insorgere avidamente (com’era sua abitudine) per opporsi ai moti delle lotte civili, aveva grandissima fretta di partire dopo aver portato a termine tutti i preparativi, sebbene moltissimi lo trattenessero sia pure solo con mormorii, giacché nessuno osava dissuaderlo apertamente o vietarglielo. Egli partì che l’autunno era ormai avanzato e, giunto a giorno fatto in un podere suburbano di nome Ippocefalo, sito a tre miglia dalla città, vide alla destra il cadavere di un uomo ucciso con il capo mozzo, disteso verso occidente. Spaventato da questo presagio, sebbene il destino preparasse la sua fine, continuò con maggior ostinazione la marcia e giunse a Tarso, dove fu colto da una leggera febbre. Ma, siccome riteneva che il movimento del viaggio avrebbe potuto allontanare il pericolo di una malattia, si diresse per strade difficili verso Mobsucrenae, situata alle pendici del Tauro ed ultima stazione della Cilicia per quelli che provengono da Antiochia. Il giorno seguente tentò di riprendere il cammino, ma fu impedito dall’aggravarsi della malattia. Poiché a poco a poco un eccessivo calore cominciò a bruciargli le vene, al punto che non si poteva neppure toccargli il corpo che ardeva come un braciere, le medicine non gli arrecarono alcun sollievo per cui morendo piangeva il proprio destino. Si dice che, mentre ancora era in possesso delle sue facoltà, nominasse come suo successore Giuliano. Avvicinandosi quindi il rantolo della morte, tacque e, dopo aver a lungo lottato per la vita che ormai se n’andava, morì il 5 ottobre nel trentottesimo anno dell’impero dopo essere vissuto quarantaquattro anni e pochi mesi. Quindi, dopo che fu chiamato fra i gemiti per l’ultima volta, scoppiarono i lamenti ed i pianti e le massime autorità di corte deliberavano che cosa si dovesse fare o che cosa macchinare. Di nascosto si sondò l’opinione di pochi sull’eventualità di eleggere un imperatore, per istigazione, a quanto si diceva, di Eusebio, il quale era spinto a ciò dalla consapevolezza delle sue malefatte. Ma, poiché la vicinanza di Giuliano impediva ogni tentativo di rivolta, furono inviati a lui i comites Teolaifo ed Aligildo ad annunciargli la morte del congiunto ed a pregarlo che, senz’alcun indugio, partisse per prendere possesso dell’Oriente, che era pronto ad obbedirgli. Tuttavia, secondo voci non confermate, Costanzo nelle sue ultime volontà aveva nominato erede, come abbiamo già detto, Giuliano, ed aveva lasciato legati e fidecommessi a quelli che amava. Lasciò la moglie incinta, e la figlia postuma ricevette il nome della madre e, giunta in età matura, andò sposa a Graziano.»

(Ammiano Marcellino, Storie, XXI, 15, 1-6)

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