«Sotto l’impero di quel Filippo […] i Goti malcontenti che non si pagasse più loro il tributo, si trasformarono in nemici da amici che erano. Infatti pur vivendo sotto i loro re in una regione remota, erano federati dell’Impero e ricevevano un contributo annuo. […] Ostrogota passa il Danubio con i suoi cominciando a devastare la Mesia e la Tracia, mentre Filippo gli mandava contro il senatore Decio. Quest’ultimo non riportando alcun successo, congedò i suoi soldati rimandandoli alle loro case e ritornandosene da Filippo […]. Ostrogota, re dei Goti, [poco dopo e nuovamente] marciò contro i Romani alla testa di trentamila armati a cui si aggiunsero anche guerrieri taifali, asdingi e tremila Carpi, quest’ultimo popolo assai bellicoso e spesso funesto per i Romani.»

(Giordane, De origine actibusque Getarum, XVI, 1-3)

Un nuovo imperatore consolare

Decio

Filippo aveva dato il comando del fronte danubiano-dacico al consolare Decio, che aveva riportato alcune vittorie e placato alcune usurpazioni. I soldati infine, temendo di essere puniti per le rivolte, e sperando nel donativo, acclamarono imperatore Decio. Come spesso riportano le fonti, i soldati pare minacciarono Decio, che fu in qualche modo costretto ad assumere la porpora. Lo scontro finale con Filippo sarebbe avvenuto a Verona, e avrebbe visto la vittoria di Decio.

Le persecuzioni e la crisi dell’impero

Il senato concesse a Decio il nome di Traiano; non sappiamo se perché ottenne molte vittorie sul fronte danubiano o se per i suoi rapporti (buoni) con i senatori. Anche in quest’ottica va vista la politica tradizionalista dell’imperatore, che andando contro il sincretismo religioso promosso da Filippo e in qualche modo iniziato sotto i Severi, cercò di ripristinare la religione antica e il mos maiorum.

Diede infatti ordine di intraprendere persecuzioni contro chi si rifiutava di sacrificare e onorare l’imperatore, lasciando comunque libertà di culto. Tra i maggiormente colpiti ci furono i cristiani; sebbene a Decio sembrasse sufficiente lasciare libertà di venerare il proprio dio e al contempo venerare l’imperatore, per i cristiani era qualcosa di incomprensibile.

Molti vennero uccisi, molti tornarono pagani (lapsi), molti altri fecero finta di abbandonare il cristianesimo, molti altri comprarono attestati (libellatici) falsi di aver sacrificato. Alcuni andarono incontro al martirio.

La guerra contro i goti e la fine

Nel 250 Kniva, capo dei goti e di una confederazione danubiana di tribù barbare, attaccò le province romane, arrivando fino in Mesia e assediando Filippopoli in Tracia e Nicopoli in Mesia. Decio lasciò Roma al senatore Valeriano, nominò Cesare i figli Erennio Etrusco e Ostiliano.

«Decio, con lo scopo di soccorrere la città di Beroea […], qui vi faceva riposare le truppe ed i cavalli quando Cniva lo assalì improvvisamente e, dopo aver inflitto all’esercito romano gravi perdite, ricacciò in Mesia l’imperatore ed i pochi superstiti della Tracia, attraverso le montagne. In Mesia Gallo, comandante di quel settore di frontiera, disponeva di numerose forze. Decio riunendole a quanti dei suoi erano sopravvissuti al nemico, si dispose a continuare la campagna militare.»

(Giordane, De origine actibusque Getarum, XVIII, 2)

Dopo un primo scontro favorevole a Decio, Kniva vinse a Beroea; il governatore Prisco (che era forse il fratello di Filippo?) venne acclamato imperatore e si unì ai goti, che saccheggiarono comunque Filippopoli. Di Prisco poi non si sa altro, probabilmente morì dì a poco.

Nel 251 Decio vinse i germani e nominò Augusti entrambi i figli (c’erano dunque tre imperatori), e decise di distruggere definitivamente l’esercito goto che ancora stazionava tra Mesia e Tracia. Lo scontro finale avvenne ad Abrittus, il 1 luglio; ma lo scontro fu concitato e pare che il figlio Erennio venne ucciso da una freccia. Decio avrebbe allora deciso di lanciarsi da solo contro i nemici, trovando la morte in battaglia:

«E subito il figlio di Decio cadde mortalmente trafitto da una freccia. Alla notizia il padre, sicuramente per rianimare i soldati, avrebbe detto “Nessuno sia triste, la perdita di un solo uomo non deve intaccare le forze della Repubblica”. Ma poco dopo, non resistendo al dolore di padre, si lanciò contro il nemico cercandovi o la morte o la vendetta per il figlio. […] Perse pertanto impero e vita.»

(Giordane, De origine actibusque Getarum, XVIII, 3)


«[..] Gallo, deciso a ribellarsi [a Decio], inviò dei messaggeri presso i barbari, invitandoli a partecipare al complotto contro Decio. Accolta in modo favorevole la proposta, mentre Gallo rimaneva a guardia, i barbari si divisero in tre armate: disposero la prima in una località davanti alla quale si estendeva una palude. Dopo che Decio ebbe ucciso molti di loro, subentrò la seconda armata, e quando anche questa fu messo in fuga, apparvero solo pochi soldati presso la palude del terzo contingente. Gallo consigliò allora a Decio di attraversare la paude e inseguire i barbari. L’Imperatore, che non conosceva quei luoghi, mosse all’attacco senza alcuna precauzione. Bloccato, però dal fango con tutto l’esercito e colpito da ogni parte dagli arcieri dei barbari, fu ucciso insieme alla sua armata, non potendo più fuggire. Questa fu la fine di Decio, che aveva regnato in modo eccellente.»

(Zosimo, Storia nuova, I, 23, 2-3)

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