Domiziano andava ripetendo che nel testamento di Vespasiano sia lui che il fratello Tito erano designati come co-imperatori ma che quest’ultimo, abile calligrafo, lo avesse falsificato. Emblematico è anche Svetonio che narra di Tito, ormai prossimo alla morte, di non pentirsi di niente tranne di una cosa. Che fosse realmente il testamento falsificato e ci fosse Domiziano dietro la morte del fratello? O forse sapeva dell’indole di Domiziano e si pentiva di averlo lasciato in vita e non aver fatto nulla per impedirne la successione? O semplicemente rimpiangeva la regina Berenice, con cui aveva avuto una relazione durante la campagna giudaica ma che poi non aveva potuto proseguire? Probabilmente non lo sapremo mai.

“Alla morte del padre, a lungo rimase in dubbio se offrire ai soldati un donativo doppio e non esitò mai ad affermare che «era stato lasciato compartecipe dell’impero, ma che il testamento era stato modificato con la frode»”

«Dopo aver ottenuto il principato, non esitò a vantarsi in Senato di aver «dato lui l’impero al padre e al fratello e che essi glielo avevano restituito»; e a dichiarare, nel riprendere sua moglie dopo il divorzio, «che era stata richiamata nel suo sacro letto». E fu contento quando nell’anfiteatro, il giorno del banchetto, si sentì così acclamare: Evviva il Signore e la Signora!»

Svetonio, Domiziano, 2; 13

Un imperatore privo di freni

Domiziano divenne imperatore nell’81 d.C., alla morte del fratello Tito. Apprezzava decisamente le opere teatrali e gli spettacoli gladiatori, e il nuovo Colosseo sembrava fatto apposta per lui:

«Indiceva continuamente spettacoli splendidi e costosi, non solo nell’anfiteatro, ma anche nel circo, dove, oltre alle tradizionali corse di bighe e quadrighe, organizzò anche un doppio combattimento, di cavalieri e di fanti. Nell’anfiteatro diede un combattimento navale, e cacce e lotte di gladiatori anche di notte, alla luce delle fiaccole, e non solo combattimenti fra uomini, ma anche fra donne. Inoltre presenziava sempre agli spettacoli offerti dai questori che, dopo un periodo di sospensione, aveva ripristinati.»

Svetonio, Domiziano, 4

Inizialmente, come molti altri principi dimostratisi poi fuori dagli schemi, Domiziano perseverò con una politica tollerante e giusta, che non lasciava presagire le nefandezze future:

“Amministrò la giustizia con diligenza e con zelo, spesso anche, in via straordinaria, nel foro, dalla sua tribuna; annullò le sentenze dei centumviri 49 viziate da interesse; raccomandò ripetutamente ai recuperatori di non conformarsi a rivendicazioni mal documentate; bollò d’infamia i giudici corrotti con i rispettivi consiglieri. Sollecitò anche i tribuni della plebe ad accusare di concussione un edile disonesto e a chiedere al Senato un giudizio contro di lui. Pose tanta cura nel controllare anche i magistrati cittadini e i governatori delle province, che mai essi risultarono più moderati e più giusti, mentre dopo di lui ne abbiamo visti moltissimi colpevoli di ogni genere di reato. Impegnandosi nella riforma dei costumi, ostacolò l’andazzo di assistere agli spettacoli teatrali alla rinfusa, la plebe mescolata ai cavalieri. Fece distruggere, con ignominia degli autori, gli scritti diffamatori diffusi tra il popolo, che colpivano gli uomini e le donne più in vista. Rimosse dal Senato un personaggio del rango questorio, perché era preso dalla passione per la pantomima e la danza. Tolse alle donne di facili costumi il diritto di usare la lettiga e di ricevere lasciti ed eredità; radiò dall’albo dei giudici un cavaliere romano per aver ripreso in moglie la stessa donna che aveva in precedenza ripudiato sotto accusa di adulterio; in base alla legge Scantinia, condannò personaggi appartenenti ai due ordini. Punì con varie pene e molto rigore i rapporti sessuali sacrileghi delle vergini Vestali, sui quali, pure, suo padre e suo fratello avevano sorvolato: inizialmente con la pena di morte, in seguito secondo la vecchia tradizione. Infatti, mentre alle sorelle Occellate e similmente a Varronilla aveva consentito di scegliere liberamente come morire e aveva condannato all’esilio i loro seduttori, più tardi invece fece seppellire viva Cornelia, la grande Vestale che, assolta una prima volta, era stata, dopo lungo tempo, nuovamente accusata e riconosciuta colpevole; e fece flagellare a morte, nel luogo delle assemblee, i suoi stupratori, ad eccezione di una persona di rango pretorio, cui concesse l’esilio, in quanto aveva confessato ciò che lo riguardava, quando erano ancora indecisi gli esiti del processo e degli interrogatori mediante tortura. Affinché non fosse impunemente violato alcun sentimento di devozione agli dei, fece distruggere dai soldati il monumento funebre che un suo liberto aveva fatto costruire, in memoria del figlio, con pietre destinate al tempio di Giove Capitolino, e ordinò che fossero gettate in mare le ossa e i resti ch’esso conteneva. All’inizio aborriva a tal punto da ogni spargimento di sangue che, quando il padre era ancora lontano da Roma, ricordandosi il verso di Virgilio: Prima che l’empia gente si nutrisse di giovenchi uccisi, decise di promulgare un editto per vietare il sacrificio di buoi. Mai, finché fu semplice cittadino né, per lungo tempo, da imperatore, suscitò alcun sospetto di cupidigia o di avarizia; anzi, al contrario, diede spesso grandi prove non solo di disinteresse ma anche di generosità. Trattando con grande liberalità tutti quelli che gli stavano intorno, raccomandava loro soprattutto, con grande fermezza, di non agire mai in modo meschino. Non volle accettare eredità lasciategli da persone che avessero figli. Invalidò anche una clausola del testamento di Rustio Cepion, che aveva disposto che ogni anno il suo erede versasse una determinata somma ad ogni senatore che faceva il suo ingresso nella Curia. Liberò da ogni addebito tutti gli accusati i cui nomi fossero esposti presso l’erario da più di cinque anni e non permise che fossero citati di nuovo se non entro un anno e a condizione che l’accusatore che non riuscisse a vincere la causa fosse punito con l’esilio. Concesse l’amnistia per il passato ai segretari dei questori che avessero esercitato il commercio secondo la consuetudine, anche se contro la legge Clodia. Lasciò ai vecchi proprietari, per diritto di usucapione, quegli appezzamenti che erano rimasti liberi qua e là dopo la distribuzione delle terre ai veterani. Represse le denunce di frodi fiscali con gravi punizioni per gli accusatori, e veniva citata una sua battuta: «Un principe che non castiga i delatori li incoraggia».”

Svetonio, domiziano, 8-9

Per mostrare di essere pari al fratello e al padre, entrambi valenti comandanti, Domiziano diede il via alla guerra contro i Catti, nell’area compresa tra il Reno e il Danubio, formando i nuovi Agri Decumates, che per due secoli sarebbero stati un saliente in area germanica, ricchi di forti. L’area sarà poi abbandonata nel tardo III secolo e vi si insedieranno gli alemanni. Inoltre Domiziano cercò di respingere i daci, che sconfinavano tra Pannonia e Moesia, senza tuttavia riuscire a riportare una vittoria decisiva (sarà solo Traiano a risolvere il problema, annettendo la provincia).

In ogni caso la vittoria in Germania, anche se non riportata da lui, gli valse un trionfo nell’83. Tuttavia in Germania si ribellerà Antonio Saturnino, governatore della Germania Superiore; la rivolta sarà domata, ma da allora verrà decretato che non potesse stazionare in forte più di una legione (motivo, secondo l’imperatore, della rivolta di Antonio, che disponeva anche dei fondi di due legioni).

“Ma non perseverò a lungo nella clemenza e nel disinteresse. Ad ogni modo passò molto più rapidamente alla crudeltà che alla cupidigia. Fece uccidere un allievo del pantomimo Paride, benché ancora fanciullo e gravemente malato, perché nella bravura e nell’aspetto gli sembrava non dissimile dal maestro; e parimenti fece con Ermogene di Tarso per certe allusioni contenute nella sua opera storica, facendo perfino crocifiggere gli scrivani che l’avevano copiata. E, poiché un padre di famiglia durante uno spettacolo aveva osato dire che un gladiatore trace valeva quanto un mirmillone, ma non poteva farcela contro l’organizzatore dei giochi, lo fece trascinare giù dalle gradinate nell’arena e gettare ai cani con un cartello: «Parmulario, ha empiamente parlato». Fece uccidere parecchi senatori, di cui non pochi ex consoli: tra questi Civica Cereale addirittura mentre era proconsole in Asia, Salvidieno Orfito, Acilio Glabrione, che si trovavano in esilio, col pretesto che macchinavano una rivolta, altri per motivi vari e inconsistenti: Elio Lamia per delle battute in verità sospette, ma anche piuttosto fruste e innocue. Infatti, dopo che Domiziano gli aveva soffiato la moglie, a uno che lodava la sua voce aveva detto: «Vivo in castità!»; e a Tito che lo esortava a risposarsi, aveva risposto: «Non è che anche tu vuoi ammogliarti?»”

svetonio, domiziano, 10

Domiziano si dedicò anche al restauro di molte opere pubbliche e fu molto meno parsimonioso del padre, finendo per dover sottrarre molte proprietà a senatori, dopo averli uccisi o fatti suicidare. Fu inoltre un moralizzatore e promosse in ogni modo la religione latina; fu estremamente duro con chi non rispettava i dettami religiosi: per le vestali che avevano infranto la castità decretò la morte (contrariamente al padre e il fratello che avevano fatto finta di nulla). Ma specialmente cominciò a gradire di essere chiamato dominus et deus, e cominciò a diventare sempre più autoritario:

«La sua crudeltà poi non solo era grande, ma anche subdola e imprevedibile. Il giorno prima di far crocifiggere il suo tesoriere, lo chiamò nella sua camera, lo costrinse a sedergli vicino sul letto, lo accomiatò rassicurato e contento, gli offrì perfino una parte della sua cena.»

(Svetonio, Domiziano, 11)

«Depauperato dalle spese sostenute per l’edilizia, per gli spettacoli e per l’aumento delle paghe, cercò, sì, di abbassare il numero dei soldati per alleviare le spese militari, ma, quando si avvide che, con questo provvedimento, da un lato rimaneva indifeso di fronte ai barbari, dall’altro si trovava non meno invischiato nell’affrontare le difficoltà finanziarie, allora non ebbe più nessuno scrupolo a rapinare in tutti i modi possibili e immaginabili. Dovunque, con qualsiasi accusatore e qualsiasi accusa, venivano sequestrati i beni dei vivi e dei morti. Bastava che fosse denunciato un gesto o una qualunque parola contro la maestà del principe. Venivano confiscate anche le eredità più impensabili, purché qualcuno comparisse a dire di aver udito dal defunto, quando era in vita, che suo erede era Cesare.»

(Svetonio, Domiziano, 11)

«Con pari arroganza, nel dettare una lettera circolare a nome dei suoi procuratori, così la iniziò: «Il nostro signore e dio comanda che ciò sia fatto». Per cui, in seguito, fu stabilito che non fosse chiamato altrimenti neppure negli scritti e nei discorsi di una qualsiasi persona. Non acconsentì che gli venissero erette statue in Campidoglio, se non d’oro e d’argento e di un determinato peso. Fece costruire nei vari quartieri della città tante e tali volte ed archi sormontati da quadrighe e insegne trionfali, che su uno di essi si trovò scritto in greco: Basta!»

(Svetonio, Domiziano, 13)

Domiziano si alienò le simpatie dei senatori, cercando sempre di più di essere equiparato a un dio; per accaparrarsi la loro simpatia allora perseguitò gli ebrei, sia col fiscus Iudaicus (istituito dopo la rivolta giudaica), sia eliminando chi si diceva discendere da re David o non sacrificava alla sua divinità. Infine, nella sua mania religiosa, fece rispettivamente uccidere e mandare in esilio Flavio Clemente e Flavia Domitilla Minore, suoi parenti, per ateismo, o comunque per sospette simpatie con l’ebraismo.

Assassinio di un deus

«Divenuto, per questi motivi, oggetto di terrore e di odio per tutti, rimase alla fine vittima di una congiura *** ordita dai suoi più intimi amici e liberti e dalla sua stessa moglie. Già da tempo egli sospettava quali sarebbero stati l’ultimo anno e l’ultimo giorno della sua vita, e prevedeva anche l’ora e il modo della sua morte. I Caldei gli avevano predetto tutto fin da quando era un ragazzo. E anche il padre lo aveva apertamente canzonato, come ignaro della sua sorte, una volta che, a cena, si asteneva dai funghi: perché non aveva piuttosto paura del ferro? Perciò era sempre timoroso e ansioso, turbato oltremodo anche dai minimi sospetti. Si pensa che, a revocare l’editto già pubblicato sul taglio delle vigne, non l’abbia spinto altra ragione se non il fatto che erano stati diffusi dei libelli con questi versi: Se pur fino alla radice mi divori, ugualmente ancora darò frutti, da libare sopra te, o caprone, quando sarai sacrificato. Per la medesima paura, sebbene fosse molto amante di tutti quegli omaggi, rifiutò un nuovo ed eccezionale onore offertogli dal Senato: per esso era stabilito che, a ogni suo consolato, lo dovessero precedere, tra i littori e i battistrada, alcuni cavalieri romani, tratti a sorte, col mantello bianco e con le lance di guerra. Ma, avvicinandosi il momento del temuto pericolo, di giorno in giorno sempre più agitato* fece rivestire di lastre di fengite le pareti dei portici sotto cui aveva l’abitudine di passeggiare, in modo da vedere davanti a sé, riflesso nella loro superficie brillante, tutto ciò che accadeva alle sue spalle. Di solito non interrogava i prigionieri se non in segreto e da solo, reggendo lui stesso le loro catene. E, per persuadere i domestici che non si doveva osare uccidere il padrone neppure in circostanze plausibili, condannò alla pena di morte Epafrodito, il suo segretario per le petizioni, perché si credeva che avesse aiutato Nerone, ormai destituito, a darsi la morte. Infine, all’improvviso, in seguito ad un lievissimo sospetto, fece uccidere Flavio Clemente, suo cugino paterno, che aveva appena lasciato il consolato. Era costui assai disprezzato per l’inettitudine, ma Domiziano ne aveva adottato i figli, ancora piccoli, designandoli ad essere suoi successori e a mutare i loro nomi precedenti, per chiamarsi l’uno Vespasiano e l’altro Domiziano. Fu soprattutto con questa azione che affrettò la propria fine.»

svetonio, domiziano, 14-15

Nell’85, perseguendo il suo obiettivo di moralizzatore, si fece nominare censore perpetuo. Era troppo per i senatori; anche se era in parte amato dall’esercito, sia perché figlio di Vespasiano, sia perché primo ad aumentare la paga dai tempi di Cesare da 225 a 300 denari annui, sia perché fece diverse elargizioni ai soldati. Odiato da chiunque, venne infine assassinato nel 96 d.C. e ne fu decretata la damnatio memoriae:

«Sulle modalità della congiura e della morte queste sono, più o meno, le notizie divulgate. Giacché i cospiratori erano incerti sul quando e sul come dovessero aggredirlo, se mentre si lavava o mentre pranzava, Stefano, amministratore di Domitilla, accusato in quel periodo di appropriazione indebita, offrì il proprio consiglio e il proprio aiuto. Per alcuni giorni, allo scopo di allontanare ogni sospetto, tenne fasciato il braccio sinistro, come se fosse infermo, con bende di lana, poi, quando si avvicinò l’ora convenuta, vi nascose un pugnale. Quindi, avendo annunciato di voler svelare un complotto, fu introdotto per questo motivo alla presenza dell’imperatore. Mentre questi leggeva un libello che lui stesso gli aveva consegnato, lo trafisse all’inguine. Domiziano era rimasto attonito. Benché ferito, tentava ancora di difendersi; ma il corniculario Clodiano, Massimo, liberto di Partenio, Saturo, capo dei camerieri, e alcuni gladiatori gli balzarono addosso e lo trucidarono con sette pugnalate. Un ragazzo, che per consuetudine si prendeva cura dei Lari della camera da letto e aveva assistito all’uccisione, raccontava che Domiziano, al primo colpo, sùbito, gli aveva ordinato di porgergli un pugnale nascosto sotto il cuscino e di chiamare i servi, ma che al capezzale egli non aveva trovato altro che l’impugnatura e che inoltre tutte le porte erano chiuse; e Domiziano intanto aveva afferrato e trascinato a terra Stefano e aveva lottato a lungo, cercando di strappargli il pugnale e di cavargli gli occhi con le dita, benché le avesse tutte lacerate. Fu ucciso il 18 settembre [del 96 d.C.], a quarantacinque anni, nel quindicesimo anno del suo impero. Al suo cadavere, trasportato fuori città dai becchini in una bara comune, la nutrice Fillide tributò le estreme onoranze nella sua casa di periferia sulla via Latina, ma segretamente trasferì i suoi resti nel tempio della gens Flavia e li unì alle ceneri di Giulia, figlia di Tito, essa pure da lei allevata.»

Svetonio, Domiziano, 17

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