Nel 226 a.C. Roma stipulò il trattato dell’Ebro con Cartagine, che prevedeva la sfera di influenza cartaginese fino al fiume Ebro in Spagna. Tuttavia Roma aveva un trattato precedente con la città di Sagunto, che però si trovava nella sfera cartaginese e che venne assediata da Annibale:

«Annibale era dominato dalla propria impulsività e dal proprio odio [antiromano], e non si legava a motivi reali, ma andava a cercare inutili pretesti […] come fanno coloro che non tengono in considerazione ciò che è giusto.»

Polibio, Storie, III, 15, 9

A Roma non si sa sapeva cosa fare e si discuteva, ma nel mentre la città venne espugnata:

«Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur»
«Mentre a Roma si discute, Sagunto è espugnata»

Tito Livio, Ab Urbe condita libri, XXI, 7

Il passo successivo fu la richiesta di spiegazioni da parte di un’ambasciata guidata da Fabio Massimo, che però non ottenne nulla. La guerra era iniziata e i romani erano sicuri che Annibale si sarebbe imbarcato a Marsiglia. Invece, meravigliò tutti passando le Alpi in inverno con gli elefanti. A chi gli diceva che la strada fosse impraticabile pare avesse risposto: “inveniam viam aut faciet” (Seneca, Hercules Furens, Atto II, Scena 1, linea 276), ovvero “o troveremo una strada o ne costruiremo una”.

«Mio padre Amílcare, quando io ero fanciullo, non avevo più di nove anni, partendo da Cartagine come comandante per la Spagna, sacrificò vittime a Giove Ottimo Màssimo; e mentre si svolgeva il sacro rito, chiese a me se volevo partire con lui per la guerra. Io accettai volentieri la sua proposta e cominciai a chiedergli che non esitasse a portarmi con sé; allora lui: “sì”, disse, “se mi farai la promessa che ti chiedo”. Così dicendo mi condusse all’ara sulla quale aveva cominciato il sacrificio e, allontanati tutti gli altri, mi fece giurare con la mano su di essa, che mai sarei stato amico del popolo romano. Io, questo giuramento fatto al padre, l’ho mantenuto fino ad oggi in modo tale che non può esservi dubbio per nessuno, che io non rimanga dello stesso avviso per tutto il resto della vita. Perciò se avrai sentimenti di amicizia nei confronti dei Romani, sarai stato prudente a tenermene all’oscuro; ma se preparerai la guerra, ingannerai te stesso, se non darai a me il supremo comando».

CORNELIO NEPOTE, DE VIRIS ILLUSTRIBUS, 23 (ANNIBALE), 2

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L’inizio della seconda guerra punica

«Si dice anche che Annibale all’età di circa nove anni abbia pregato con le moine dei fanciulli il padre Amilcare di condurlo con sé in Ispagna, mentr’egli, sul punto di far passare colà l’esercito — al termine della guerra africana — compiva un sacrificio; e, fatto avvicinare all’altare, toccati i sacri oggetti del culto, sia stato costretto a giurare che, non appena gli fosse possibile, sarebbe stato nemico del popolo romano. Quell’uomo dall’orgoglio smisurato era tormentato dalla perdita della Sicilia e della Sardegna; giacché la Sicilia era stata ceduta per l’eccessiva precipitazione nel perdere ogni speranza e la Sardegna durante la ribellione africana era stata sottratta con l’inganno dai Romani, che per di più avevano imposto il pagamento di una indennità di guerra.»

Tito Livio, auc XXI, 1

«A questa età che abbiamo detto, partì dunque col padre per la Spagna; dopo la morte di questo, mentre Asdrubale prese il suo posto di generale, egli fu a capo di tutta la cavalleria. Ucciso anche costui, l’esercito trasferì a lui il comando supremo. Questa nomina, riferita a Cartagine, ebbe la ratifica ufficiale. Così Anníbale diventato generale non ancora venticinquenne, nei tre anni che seguirono sottomise con le armi tutte le genti della Spagna; espugnò con la forza Sagunto, città alleata; allestì tre poderosi eserciti. Di questi uno ne mandò in Africa; un altro lo lasciò in Spagna col fratello Asdrubale; il terzo lo condusse con sé in Italia. Attraversò il valico dei Pirenei. Dovunque passò, venne a conflitto con tutti gli abitanti; nessuno lasciò alle spalle se non sconfitto. Dopo che fu giunto alle Alpi, che dividono l’Italia dalla Gallia, che nessuno mai prima di lui, aveva attraversato con un esercito eccetto il Graio, Ercole (e in seguito a quell’impresa quel valico è oggi chiamato Graio), sterminò gli alpigiani che cercavano di impedirgli il passaggio, rese accessibili i luoghi, fortificò i percorsi, fece sì che potesse passare un elefante equipaggiato, per dove prima a mala pena poteva arrampicarsi un uomo senza armi. Per questa via fece passare le truppe e giunse in Italia.»

CORNELIO NEPOTE, DE VIRIS ILLUSTRIBUS, 23 (ANNIBALE), 3

L’odio atavico di Annibale nei confronti dei romani aveva fatto sì che non solo continuasse la guerra in Spagna, dove Cartagine mirava ad espandersi ai danni di Roma e fare proprie le ricche miniere d’argento, ma anche che cercasse di istigare i romani a reagire. Infatti, nonostante il precedente trattato dell’Ebro concluso tra Asdrubale e Roma nel 226 a.C., nel 221 a.C. l’esercito cartaginese aveva estromesso il comandante cartaginese a favore del cognato Annibale Barca, che prometteva la vendetta contro Roma (in quel momento tra l’altro i romani avevano appena preso la Sardegna dai cartaginesi, appoggiando i mercenari rivoltosi). Preso il comando dell’esercito spagnolo, per prima cosa decise di assediare la città di Sagunto nel 219 a.C., che secondo il trattato dell’Ebro era di competenza cartaginese trovandosi a sud del fiume ma che in realtà aveva un trattato di alleanza con Roma già da prima:

«Con Sagunto non era ancora la guerra, ma per arrivare alla guerra già si provocavano contese con i popoli confinanti, specialmente con i Turdetani. Poiché questi erano assistiti da colui che nello stesso tempo era il provocatore della discordia e poiché era chiaro che si cercava non una questione giuridica ma la prepotenza, i Saguntini inviarono ambasciatori a Roma, a chiedere aiuto per la guerra ormai senza alcun dubbio imminente. A Roma erano allora consoli P. Cornelio Scipione e Ti. Sempronio Longo. Questi, dopo che gli ambasciatori furono ammessi in senato, posero all’ordine del giorno la situazione politica e il senato deliberò l’invìo di un’ambasceria in Ispagna per un’inchiesta sulla situazione degli alleati: gli ambasciatori, se la causa fosse sembrata loro legittima, avrebbero intimato ad Annibale di tenersi lontano dai Saguntini, alleati del popolo romano, e si sarebbero recati in Africa a Cartagine, a riferire le lamentele degli alleati del popolo romano. L’ambasceria era stata decisa, ma non ancora inviata, allorché, prima di quanto tutti si aspettassero, giunse la notizia che Sagunto era assediata. Allora la questione fu daccapo posta all’ordine del giorno in senato; e alcuni erano del parere che ai consoli fossero assegnate la Spagna e l’Africa come zone di operazione e che si dovesse far guerra per terra e per mare; altri ritenevano che si dovesse concentrare tutto lo sforzo bellico contro la Spagna e contro Annibale; v’erano poi alcuni dell’avviso che non si dovesse provocare alla leggera un così grave conflitto e che si dovessero attendere gli ambasciatori dalla Spagna. Questo parere, che sembrava il più prudente, prevalse; perciò più sollecitamente furono inviati gli ambasciatori P. Valerio Flacco e Q. Bebio Tanfilo a Sagunto da Annibale e, se non fossero cessate le ostilità, di lì a Cartagine, a chiedere la consegna dello stesso comandante, perché fosse punito per la violazione del trattato.»

Tito Livio, auc XXI, 6

Sagunto si trovava a circa 1 km dal mare, quindi avrebbe potuto ricevere aiuto da Roma. Ma a Roma si discuteva ferocemente se appoggiare o meno la città, scatenando la guerra. Sagunto d’altra parte era ben difesa e aveva grandi mura; Tito Livio narra che avesse anche un larghissimo esercito, per cui in Italia si pensava ci fosse più tempo di quanto in realtà ce ne fosse.

«Mentre i Romani decidevano e discutevano quei provvedimenti, già Sagunto era attaccata con estrema violenza. Quella città fu senza confronto la più ricca al di là dell’Ebro, situata a circa mille passi dal mare. Si dice che i suoi abitanti fossero originari dell’isola di Zacinto e che si fossero loro mescolati anche dei Rutuli provenienti da Ardea. E si erano poi in breve tempo arricchiti così straordinariamente sia per i proventi del commercio per terra e per mare, sia per l’incremento demografico, sia per la lealtà della loro politica, in virtù della quale rispettarono la fedeltà verso gli alleati fino alla loro propria rovina. Annibale, entrato nel loro territorio con l’esercito all’attacco, dopo aver devastato i campi in lungo e in largo, assale la città da tre parti. Un angolo delle mura volgeva verso una valle più piana ed aperta di tutti gli altri luoghi circostanti; contro di esso (Annibale) stabilì di muovere le vinee, affinché sotto il loro riparo si potesse accostare l’ariete alle mura. Ma se lontano da queste la natura del luogo permise abbastanza agevolmente di muovere le vinee, non altrettanto bene riusciva l’impresa allorché si venne al compimento dell’opera. Si levava infatti una torre enorme; e il muro, poiché quel punto era poco sicuro, era lì fortificato e alto più che in tutte le altre parti; inoltre giovani scelti erano collocati in forze maggiori là dove ci si aspettava il massimo pericolo e motivo di paura. E dapprima essi cercavano di respingere il nemico con armi da getto e creavano continui pericoli per i soldati occupati a preparare l’attacco; poi non più soltanto dall’alto delle mura e della torre balenavano le armi, ma (i Saguntini) avevano l’ardire di fare sortite contro i posti di guardia e i lavori di fortificazione dei nemici; e in questi scontri improvvisati non cadevano di solito più Saguntini che Cartaginesi, Quando poi lo stesso Annibale, nell’atto di avvicinarsi troppo incautamente alle mura, cadde gravemente colpito da una tragula nella parte anteriore di una coscia, ci fu tutt’intorno una tale fuga e scompiglio che per poco le opere di fortificazione e le vinee non furono abbandonate.»

Tito Livio, auc XXI, 7

Annibale attaccò le mura nella parte piana con una serie di macchine d’assedio, ma la difesa fu strenua. Anzi, i saguntini riuscirono quasi ad avere la meglio quando Annibale durante i combattimenti venne colpito da un giavellotto a una coscia e i suoi per poco non lo abbandonarono sul campo. Tuttavia il punico riuscì a riparare tra le sue fila e riprendere l’assedio. Il primo attacco però era stato un fallimento e Annibale si preparava a circondare la città con un controvallo, isolandola.

«Poi per pochi giorni fu più un assedio che un assalto, in attesa che la ferita del comandante venisse curata. Nel frattempo, nonostante la cessazione dei combattimenti, non fu affatto tralasciato l’allestimento delle opere di fortificazione e necessarie per l’attacco. E perciò più violenta divampò daccapo la lotta, e da più parti si cominciò a muovere le vinee e ad accostare gli arieti, benché in alcuni punti fosse malagevole la manovra delle macchine da guerra. Il Cartaginese sovrabbondava di uomini: si pensa con qualche fondamento che abbia avuto circa centocinquantamila armati; i cittadini, che i nemici cominciavano a tener occupati in più punti, non bastavano a difendere e ad accorrere dappertutto. E perciò già le mura ricevevano i colpi degli arieti e molti erano gli squarci; uno di questi, per l’estensione della rovina, aveva lasciato scoperta la città: tre torri l’una dopo l’altra crollarono con enorme fragore, con tutto il muro che tra esse si trovava. I Cartaginesi avevano creduto già presa la città in virtù di quella breccia; attraverso essa, come se il muro avesse parimenti difeso gli uni e gli altri, da entrambe le parti si corse a battaglia. E non c’era nulla che potesse far pensare a una di quelle lotte disordinate, che di solito, negli assalti alle città, divampano allorché una delle due parti approfitta di una buona occasione; ma eserciti regolarmente ordinati a battaglia si erano fermati tra la macerie del muro e le case della città poco distanti, come se si trovassero in campo aperto. Da una parte la speranza, dall’altra la disperazione eccitano gli animi, poiché il Cartaginese crede di aver già preso la città — basta ancora un piccolo sforzo —; i Saguntini oppongono i loro corpi a difesa della patria rimasta priva di mura, e nessuno di essi indietreggia, per non lasciare che il nemico occupi il posto da lui abbandonato. E perciò quanto più aspramente e in file più serrate dall’una e dall’altra parte si combatteva, tanto più numerosi erano i feriti, poiché nessun colpo andava a vuoto tra le armi e i corpi. I Saguntini avevano come arma da getto la falarica, un’asta di legno d’abete, del tutto rotonda e liscia tranne che ad un’estremità, donde sporgeva il ferro. Questa, di forma quadrata come in un giavellotto, veniva avvolta con la stoppa e spalmata di pece; la punta di ferro, poi, era lunga tre piedi, così da poter trafiggere un corpo insieme con le armi. Ma, anche se fosse rimasta attaccata allo scudo e non fosse penetrata nel corpo, la falarica incuteva terrore soprattutto perché, essendo scagliata con il fuoco appiccato nel mezzo, che sempre più divampava alimentato dal movimento stesso, costringeva a lasciare le armi ed esponeva il soldato inerme ai colpi successivi.»

Tito Livio, auc XXI, 8

Mentre i romani cercano la pace, Annibale ottiene la guerra

I continui assalti e colpi d’ariete fecero sì che gli arieti sbriciolassero parte delle mura, che vennero in parte abbattute, ma i saguntini resistettero ancora. Anzi la difesa indomita diede coraggio ai saguntini che riuscirono nuovamente a ricacciare i cartaginesi dalle mura. Nel frattempo a Roma si chiedeva disperatamente di intervenire con una nuova ambasceria.

«Dopo che a lungo incerto fu il combattimento e fu cresciuto l’ardimento dei Saguntini, poiché resistevano oltre le loro aspettative, mentre il Cartaginese era ritenuto vinto poiché non aveva vinto, d’improvviso i cittadini levano grida e spingon via il nemico tra le macerie del muro, di lì lo scacciano impacciato e sbigottito, infine lo costringono, sbaragliato e messo in fuga, a rientrare nell’accampamento. Intanto fu annunziato che erano giunti gli ambasciatori da Roma. Incontro ad essi fin sulle rive del mare furono inviati messi da Annibale, per avvertirli che non senza pericolo sarebbero venuti da lui attraverso tante armi di popoli tanto selvaggi e che Annibale, in un momento tanto critico, non aveva tempo per dare udienza ad ambascerie. Era chiaro che gli ambasciatori romani, non essendo stati ricevuti, si sarebbero senz’altro recati a Cartagine. Quindi (Annibale) li prevenne mandando dei messi con una lettera ai capi del partito dei Barca, affinché predisponessero gli animi dei loro a far sì che l’altro partito non potesse mostrarsi condiscendente in nulla con il popolo romano. E così anche quella ambasceria risultò vana ed inutile, con la differenza che i legati furono ricevuti e ascoltati. Il solo Annone, contro il parere del senato, difese la causa del trattato, in mezzo ad un grande silenzio dovuto al suo prestigio, (non però) con l’assenso degli uditori: scongiurò il senato, in nome degli dèi arbitri e testimoni dei trattati, di non suscitare una guerra contro i Romani con quella contro Sagunto: egli aveva avvertito, raccomandato di non mandare il figlio di Amilcare presso l’esercito; né i Mani né la stirpe di quell’uomo potevano trovare riposo, né mai avrebbero avuto pace i trattati con Roma finché fosse in vita qualcuno che avesse il sangue e il nome dei Barca. “Voi, fornendo in certo qual modo alimento al fuoco, avete mandato presso gli eserciti un giovane che arde dalla brama di un regno e vede che c’è una sola strada per arrivarci, poter vivere cioè circondato di armi e di truppe, suscitando una guerra dopo l’altra. Dunque siete stati voi a far divampare questo incendio che ora vi brucia. I vostri eserciti assediano Sagunto, dalla quale li tiene lontani un trattato5; presto le legioni romane assedieranno Cartagine, sotto la guida di quei medesimi dèi per mezzo dei quali i Romani hanno vendicato la violazione dei trattati durante la guerra precedente. O non sapete nulla del nemico o di voi stessi o della fortuna dell’uno e dell’altro popolo? Quel vostro bravo comandante non ha ricevuto nel suo accampamento ambasciatori che venivano da parte di alleati e in difesa di alleati, ha cancellato il diritto delle genti: questi ambasciatori, tuttavia, cacciati donde neppure i messi dei nemici sono respinti, sono venuti da voi, esigendo soddisfazione secondo il trattato; reclamano la consegna di colui che ha avuto l’iniziativa della colpa, di colui che è responsabile del delitto, se si vuole che lo stato non abbia parte nella violazione.Quanto più sono miti nell’agire, lenti nel cominciare, tanto più accaniti, io temo, saranno nell’infierire, quando avranno cominciato. Ponetevi innanzi agli occhi le isole Egadi e l’Erice, tutto ciò che per terra e per mare, per ventiquattro anni, avete patito. E non era comandante questo ragazzo, ma suo padre, Amilcare in persona, un altro Marte, come costoro vogliono che fosse. Ma non ci eravamo tenuti lontani, come il trattato ci imponeva, da Taranto, cioè dall’Italia, così come ora non ci teniamo lontani da Sagunto. Perciò gli dèi vinsero gli uomini e, mentre si discuteva a parole quale dei due popoli avesse violato il trattato, l’esito della guerra, come un giusto giudice, diede la vittoria al popolo dalla cui parte stava il diritto, È contro Cartagine che Annibale ora muove vinee e torri; sono le mura di Cartagine a ricevere i colpi dell’ariete; le rovine di Sagunto — possa io essere un falso profeta! — cadranno sulle nostre teste e la guerra cominciata con i Saguntini deve poi essere combattuta con i Romani. ‘Dunque consegneremo Annibale?’ domanderà qualcuno. So di avere poca autorità nei suoi riguardi, a causa della mia inimicizia con suo padre; ma come sono stato contento della morte di Amilcare, poiché, se fosse vivo, saremmo già in guerra con i Romani, così odio e detesto questo giovane che considero la furia istigatrice di questa guerra; e non solo lo si deve consegnare per punirlo di aver violato il trattato, ma anche, se nessuno ne reclama la consegna, lo si deve trasportare fino agli estremi confini del mare e delle terre e relegare là donde né a noi possano giungere all’orecchio il suo nome e la sua fama, né egli possa far vacillare la stabilità di uno stato tranquillo: questo è il mio parere. Propongo che vengano inviati sùbito ambasciatori a Roma, a dar soddisfazione al senato; altri, a notificare ad Annibale che ritiri l’esercito da Sagunto, e a consegnare lo stesso Annibale ai Romani, secondo il trattato; una terza ambasceria, per risarcire i danni ai Saguntini.”»

Tito Livio, auc XXI, 9-10

Ma a Roma non si riusciva a venire a capo della situazione; i senatori non si mettevano d’accordo su cosa fare. Non solo, quando giunsero gli ambasciatori romani a Sagunto, Annibale li rimandò indietro con la scusa che era troppo pericoloso per loro stare lì. I romani allora si diressero a Cartagine, ma il barcide inviò istruzioni ai suoi a Cartagine per affossare ogni proposta di pace. A questo punto Annibale si preparava all’assalto finale e per rendere più arditi i soldati gli promise l’intero bottino. Un’enorme torre fu portata a ridosso delle mura e con le sue catapulte e balliste cominciò a distruggere le difese nemiche e uccidere chiunque si trovasse di fronte, mentre 500 soldati scelti africani armati di piccone aprivano dei varchi nelle mura; i cartaginesi si riversarono a Sagunto, era ormai la fine. Anche se i difensori resistettero ancora:

«Mentre i Romani passavano il tempo a inviare ambascerie, Annibale, poiché i suoi soldati erano stanchi per i combattimenti e le opere d’assedio, diede loro pochi giorni di riposo, dopo aver disposto sentinelle a custodia delle vinee e delle altre macchine da assedio. Intanto infiammava i loro animi ora con l’ira, spronandoli contro i nemici, ora con la speranza di ricompense. Quando poi, davanti all’esercito adunato, proclamò che il bottino dopo la conquista della città sarebbe stato dei soldati, a tal punto tutti furono infiammati che nessuna forza sembrava in grado di fermarli, se sùbito fosse stato dato il segnale di battaglia. I Saguntini, non appena avevano avuto tregua dai combattimenti, senza provocare il nemico a battaglia e senza esserne provocati per alcuni giorni, notte e giorno avevano lavorato per ricostruire un nuovo muro là dove la città era stata lasciata scoperta dalle rovine. Poi si avventò su di essi un attacco assai più terribile del precedente e, poiché dappertutto c’era il rimbombo di mille grida, essi non erano in grado di capire bene dove fosse più urgente o preferibile portare aiuto. Annibale in persona era presente ad incitare là dove era condotta innanzi una torre mobile, che superava in altezza tutte le fortificazioni della città. Dopo che questa, accostata alle mura, con le catapulte e le balestre che erano collocate in tutti i suoi piani, ebbe privato di difensori le mura, Annibale allora, pensando che quello fosse il momento favorevole, mandò circa cinquecento Africani con dei picconi ad abbattere le mura dalle fondamenta. L’impresa non era difficile, poiché le rozze pietre non erano legate con calce, ma con fango tra l’una e l’altra spalmato secondo un modo di costruzione antico. E perciò il muro crollava in tratti più estesi delle parti su cui si batteva con ipicconi e attraverso i varchi prodotti dai crolli schiere di armati fluivano in città. Occupano anche un’altura e, portate lì catapulte e balestre, la circondano di un muro, in modo da avere una cittadella all’interno della città, come una rocca che la sovrasti; anche i Saguntini costruiscono un muro più interno, a protezione della zona della città che ancora non è stata presa. Entrambe le parti si difendono con fortificazioni e combattono senza risparmio di forze; ma fortificando le parti più interne, i Saguntini rendono più piccola la città ogni giorno che passa. Nello stesso tempo cresce la mancanza di ogni cosa a causa del lungo assedio e diminuisce la speranza di un aiuto esterno, poiché i Romani, unica speranza, sono tanto lontani, mentre intorno tutto è del nemico. Recò tuttavia un po’ di sollievo agli animi spossati l’improvvisa partenza di Annibale alla volta degli Oretani e dei Carpetani; questi due popoli, esasperati dalle dure leve loro imposte, trattenuti gli arruolatori, avevano fatto temere una ribellione, ma, sgomentati dal rapido intervento di Annibale, deposero le armi che già avevano impugnato. E tuttavia Sagunto non era attaccata conminore energia, poiché Maarbale, figlio di Imilcone — Annibale gli aveva infatti affidato il comando — con tanto slancio conduceva le operazioni che né i suoi né i nemici si accorgevano dell’assenza del comandante. Egli non solo effettuò alcuni combattimenti con esito favorevole, ma anche abbatté con tre arieti una vasta parte di muro e all’arrivo di Annibale gli mostrò tutto il tratto ricoperto dalle nuove macerie. Quindi l’esercito fu condotto immediatamente contro la rocca stessa: una terribile battaglia fu ingaggiata con molti uccisi da entrambe le parti e fu presa una parte della rocca.»

Tito Livio, auc XXI, 11

Alorco, soldato di Annibale, ma ospite e amico dei saguntini, si presento al senato di Sagunto:

«Oggi, poiché non Vi rimane alcuna speranza di aiuti da parte dei Romani, e del resto le Vostre armate e mura non possono più difendervi, io vi offro una pace più necessaria che mite […] a condizione che accettiate la pace come vinti […] e non vi prepariate a considerare come danno ciò che perderete, ma solo come beneficio qualunque cosa vi sarà lasciata, poiché tutto apparterrebbe al vincitore. Annibale vi toglie la città […] ma vi assegnerà un nuovo territorio dove costruire una nuova città […], vi comanda di dargli tutto l’oro e l’argento pubblico e privato […], ma garantisce la vita e la libertà […].»

Tito Livio, auc XXI, 13, 1-9

Poco dopo si raccolse e venne fuso tutto l’oro e l’argento, mentre una delle torri crollava. Gli assediati erano distratti dalle discussioni inerenti la resa. Fu così che Annibale, vedendo il varco, lanciò l’attacco finale: i difensori vennero massacrati e la città saccheggiata. Alla fine Sagunto era stata presa e ogni tentativo romano di pace era fallito. Fabio Massimo, inviato a Cartagine, tornò a Roma con la promessa della guerra imminente. Era iniziata la seconda guerra punica:

«Perciò, smettetela di citare Sagunto e l’Ebro, e una buona volta il vostro animo dia alla luce ciò che da tanto tempo cova in sé!». Allora il Romano, fatta una piega con la toga, disse: «Qui vi portiamo la guerra e la pace; delle due cose, prendete quella che volete». Sùbito dopo queste parole, non meno fieramente gli fu risposto con grida che desse quella che volesse; ed avendo egli per contro lasciato andare la piega e detto che dava la guerra, tutti risposero che la accettavano e l’avrebbero combattuta con il medesimo ardimento con cui l’accettavano.»

TITO LIVIO, AB URBE CONDITA LIBRI, XXI, 18, 12-14

«Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur»
«Mentre a Roma si discute, Sagunto è espugnata»

Tito Livio, Ab Urbe condita libri, XXI, 7

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