«A Nerone successe Galba, che non aveva nessuna relazione di parentela con la famiglia dei Cesari. Si segnalava bensì senza dubbio per illustre e antica prosapia: tanto che nelle iscrizioni ai piedi delle statue potè vantarsi pronipote di Quinto Catulo Capitolino; e poi, salito al principato, nell’atrio del palazzo collocò un albero genealogico nel quale faceva risalire fino a Giove l’origine paterna e quella materna fino a Pasifae, sposa di Minosse.»

(Svetonio, Galba, 2)

Una famiglia di antica nobiltà

Servio Sulpicio Galba nacque il 24 dicembre del 3 a.C. a Terracina; fu console nel 33 d.C., prima dell’età legale e proconsole in Africa sotto Claudio, nel 45 d.C., vantando sempre un’austerità e disciplina notevole:

«Diffusasi la notizia dell’uccisione di Gaio (Caligola), molti lo incitavano ad approfittare di quella opportunità. Ma egli preferì starsene tranquillo. Per questo motivo risultò assai gradito a Claudio, il quale lo accolse nella schiera dei suoi amici con tanto onore che, quando Galba fu colto da un improvviso malore, neppur troppo grave, si decise di differire la data della spedizione in Britannia. Senza che si ricorresse al sorteggio, ebbe per due anni il proconsolato in Africa, designato espressamente a riorganizzare quella provincia che era agitata sia da disordini interni che da scorrerie di barbari. Egli vi riportò la stabilità dando prova di un grande senso del rigore e della giustizia anche nelle cose di poco conto. Ad esempio, un soldato era sotto accusa per aver venduto – durante una spedizione in cui le vettovaglie s’erano ridotte all’osso – l’ultimo moggio di grano per cento denari. Galba impose che, quando costui fosse rimasto senza viveri, nessuno gli portasse soccorso; e il tale morì di fame.»

(Svetonio, Galba, 7)

Imperatore

Secondo una profezia «un giorno sarebbe nato dalla Spagna il principe e signore di tutte le cose» (Svetonio, Galba, 9); ma il principe probabilmente era Traiano, non Galba, che tra il 60 e 68 fu governatore della Spagna Tarraconense. Quando Giulio Vindice chiese il suo aiuto nella ribellione contro Nerone, fu considerato il candidato naturale come imperatore, anche se aveva più di settant’anni.

Galba si proclamò comunque rappresentante e difensore del senato e del popolo romano. Ma quando Vindice fu sconfitto, temette per la sua vita; tuttavia Nerone era stato allontanato da Roma dal prefetto al pretorio Ninfidio Sabino e infine dichiarato hostis publicus. Poco dopo si suicidò e Galba poté arrivare a Roma come imperatore. Fin da subito tuttavia si alienò la simpatia dei soldati, cui rifiutò di dare il donativo, tentando di imporre un’austerità e disciplina ormai fuori tempo:

«Quando era ancora lontano da Roma, i comandanti avevano promesso alle truppe, all’atto del giuramento di fedeltà verso di lui, un donativo più cospicuo del solito: egli non solo non volle ratificarlo ma anzi, alla prima occasione, si vantò che i soldati lui li sceglieva, non li comprava, e in questo modo finì davvero per esasperarli tutti, dovunque fossero dislocati.»

(Svetonio, Galba, 7)

«Alle sue parole non seguirono né doni né lusinghe. Tuttavia i tribuni, i centurioni e i soldati più vicini risposero acclamandolo. Gli altri, però, erano mesti e silenziosi perché avevano perso, con la guerra alle porte, dei donativi che si davano perfino in tempo di pace. Eppure quel vecchio troppo parsimonioso avrebbe potuto conciliarsi gli animi anche con una gratifica di minima entità. Gli fu fatale il severo rigore di stampo antico, che ormai male si concilia con la nostra epoca.»

(Tacito, Historiae, I, 18)

Si scelse poi un successore, Lucio Calpurnio Pisone, scegliendolo in base alla migliore nascita e virtù, non le abilità, ignorando Otone, che i più volevano al suo posto. Mandò anche Vitellio in Germania a placare i sediziosi, che continuavano a creare problemi dopo Vindice. Alla fine però la sua durezza gli fu fatale, ci fu un ammutinamento generale in favore di Otone, che fu acclamato imperatore, mentre Galba (e Pisone) veniva ucciso, il 15 gennaio del 69:

«Così abbandonò la vita Servio Galba: aveva 73 anni, era vissuto in buona sorte sotto cinque principi ed era stato più fortunato durante il principato altrui che durante il proprio. La sua era una famiglia di antica nobiltà, grande il suo patrimonio. Quanto a capacità, era un mediocre che non possedeva grandi virtù ma anche privo di vizi. Il successo gli faceva gola ma non era un fanfarone; non attentava ai patrimoni altrui e, se era parsimonioso con il proprio denaro, sembrava perfino avaro quando si trattava del denaro pubblico. Trattava amici e liberti, se erano brave persone, con un’indulgenza niente affatto biasimevole; se erano malvagi, fingeva colpevolmente di non accorgersene. In ogni modo gli illustri natali e la paura che contrassegnava quei tempi lo giustificarono e mascherarono come saggezza quella che era apatia. Nel fiore degli anni si conquistò buona gloria in Germania. Resse, da proconsole, con grande avvedutezza l’Africa e con ugual senso di giustizia la Spagna citeriore, quando era già anziano: finché rimase privato cittadino, sembrava che avrebbe meritato qualcosa di più e per consenso di tutti era considerato degno del principato, se non fosse divenuto imperatore.»

(Tacito, Historiae, I, 40)

«Vistasi addosso la schiera degli armati, il signifero della coorte che accompagnava Galba (Attilio Vergilione, secondo quanto si dice) strappò l’immagine di Galba e la gettò per terra. Fu, allora, chiaro che tutti i soldati parteggiavano per Otone: la folla lasciò vuoto il Foro e coloro che ancor esitavano furono minacciati. Vicino al Lacus Curtius il tremore dei portatori sbalzò Galba dalla lettiga e lo fece rotolare a terra. Le sue ultime parole sono state variamente tramandate da chi lo odiava e da chi, invece, provava ammirazione per lui. Qualcuno dice che, con voce supplichevole, chiedesse che male avesse mai fatto. E implorava anche un po’ di tempo per pagare il donativo. Molti però affermano che offrisse volontariamente il collo ai suoi boia: facessero pure, lo colpissero se pensassero di fare cosa utile allo stato. Ma per gli uccisori, cosa abbia effettivamente detto, non ha importanza.»

(Tacito, Historiae I, 41)

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