Quando si aprì il testamento di Cesare si scoprì che il primo erede, cui spettavano i tre quarti del suo patrimonio era il diciannovenne pronipote Gaio Ottavio e non Marco Antonio, solo terzo in linea di successione. Forse Antonio, con l’episodio dei Lupercali avvenuto un mese prima, sapeva del testamento e cercava disperatamente di ingraziarsi Cesare? Quel che è certo è che Cesare ritenesse la repubblica superata, secondo quanto riporta Svetonio: “nihil esse rem publicam, appellationem modo sine corpore ac specie” – “la repubblica non è nient’altro che un nome senza corpo né anima”. E la storia gli diede ragione.

Dai lupercali alle idi di marzo

15 febbraio del 44 a.C.: manca solo un mese alle idi di marzo. Cesare siede su un seggio d’oro, sui rostri, indossando un manto di porpora e osserva la festa dei Lupercali. Questa antichissima festa romana di purificazione era associata alla figura di Luperca, secondo il mito moglie del pastore Faustolo e poi con Acca Larenzia. Era inoltre paredra di Luperco, antico dio latino collegato con il lupo sacro a Marte; successivamente Luperco divenne epiteto di Fauno (Faunus Lupercus) e infine assimilato al greco Pane Liceo (Πᾶν Λύκαιος). La festa, celebrata dal duplice sodalizio dei Luperci Quintili e Fabiani (nel 44 a.C. ci furono anche i Luperci Iulii), si svolgeva davanti al Lupercale, la sacra grotta dove Faustolo avrebbe rinvenuto i gemelli Romolo e Remo allattati da una lupa, ai piedi del Germalo, alle pendici nord-occidentali del Palatino. Lo svolgimento della festa era il seguente: i due sodalizi si recavano al Lupercale e qui immolavano capri e un cane, mentre le vestali offrivano focacce fatte con le prime spighe della precedente mietitura. Secondo Ovidio (Fast., II, 282) avrebbe partecipato anche il Flamine Diale (il sacerdote preposto al culto di Giove, che lo rappresentava), il che è veramente sospetto in quanto per lui erano animali tabù quelli che venivano sacrificati durante la cerimonia.

Subito dopo due giovani, uno per ogni sodalizio, venivano toccati in fronte con un coltello bagnato del sangue dei capri immolati, dopodiché il sangue veniva asciugato con un fiocco di lana bianca immerso nel latte. Il rituale prevedeva che allora i due giovani sorridessero e indossassero le pelli degli animali sacrificati (sotto le quali erano completamente nudi) e facessero con le stesse pelli delle strisce (februa o amiculum Iunonis), con le quali correvano attorno al Palatino percuotendo più donne possibili (era infatti un rituale considerato propiziatorio alla fecondazione e molte si offrivano volontarie).

E’ proprio in questo momento che accade l’imprevedibile: Marco Antonio, che aveva preso parte alla processione della festa, si avvicina a Cesare e cerca di mettergli in testa una corona, che simboleggiava il potere regale. Per i romani però, nonostante fossero passati quasi cinque secoli dalla cacciata di Tarquinio il Superbo, la regalità era ancora un tabù. Lo svolgimento degli avvenimenti è il seguente: inizialmente un tale di nome Licinio si avvicina, viene issato sui rostri e porge la corona ai piedi di Cesare, che la ignora. Allora Cassio, il futuro cesaricida, si avvicina e gliela pone sulle ginocchia, forse in segno di sfida. Cesare la ignora nuovamente, e lo fa nuovamente quando ci riprova Casca (che darà la prima pugnalata un mese dopo), ma è proprio in quel momento che passa Antonio, il quale aveva preso parte alla festa e gli pone la corona in testa, invocandolo come rex.
Quest’ultima volta Cesare prende la corona, che non aveva ancora toccato, gettandola tra la folla (che non aveva reagito bene all’accaduto) e esclamando che l’unico re di Roma era Giove Ottimo Massimo. Diede inoltre l’ordine di portarla nel suo tempio sul Campidoglio, poiché la corona apparteneva solo a lui. L’avvenimento è raccontato da Nicola Damasceno :

“71.Tali erano i discorsi che si facevano allora. Nell’inverno si celebrava a Roma una festa (chiamata i Lupercali), durante la quale vecchi e giovani insieme partecipavano a una processione, nudi, unti e cinti, schernendo quanti incontravano e battendoli con strisce di pelle di capra. […] era stato eletto a guidare la processione Antonio; egli attraversava il foro, secondo il vecchio costume, seguito da molta gente. Cesare era seduto sui cosidetti rostri, su un trono d’oro, avvolto in un mantello di porpora. Dapprima lo avvicinò Licinio con una corona d’alloro […] Dato che il posto da cui Cesare parlava al popolo era in alto, Licinio, sollevato dai colleghi, depose il diadema ai piedi di Cesare.
72. Il popolo gridava di porlo sul capo e invitò il magister equitum, Lepido, a farlo, ma questi esitava. In quel momento Cassio Longino, uno dei congiurati, come se fosse veramente benevolo e anche per poter meglio dissimulare le sue malvagie intenzioni, lo prevenne prendendo il diadema e ponendoglielo sulle ginocchia. Con lui anche Publio Casca. Al gesto di rifiuto da parte di Cesare e alle grida del popolo accorse Antonio, nudo, unto d’olio, proprio come si usava durante la processione e glielo depose sul capo. Ma Cesare se lo tolse e lo gettò in mezzo alla folla. Quelli che erano distanti applaudirono questo gesto, quelli che erano vicini invece gridavano che lo accettasse e non rifiutasse il favore del popolo.
73. Su questa vicenda si sentivano opinioni discordanti: alcuni erano sdegnati poiché, secondo loro, si trattava dell’esibizione di un potere che superava i limiti richiesti dalla democrazia; altri lo sostenevano credendo di fargli cosa gradita. Altri ancora spargevano la voce che Antonio avesse agito non senza il suo consenso. Molti avrebbero voluto che diventasse re senza discussioni. Voci di ogni genere circolavano tra la massa. Quando Antonio gli mise il diadema sul capo per la seconda volta, il popolo gridò nella sua lingua: “Salve, re!”. Egli non accettò nemmeno allora e ordinò di portare il diadema nel tempio di Giove Capitolino, al quale, disse, più conveniva. Di nuovo applaudirono gli stessi che prima avevano applaudito.
74. C’è anche un’altra versione: Antonio avrebbe agito così con Cesare volendo ingraziarselo, anzi con l’ultima speranza di essere adottato da lui. 75. Alla fine abbracciò Cesare e passò la corona ad alcuni dei presenti, perché la ponessero sul capo della vicina statua di Cesare. Così fu fatto. In un tale clima, dunque, anche questo evento non meno di altri avvenimenti contribuì a stimolare i congiurati ad un’azione più rapida; esso infatti aveva dato una prova più concreta di quanto sospettavano”.

Nicola Damasceno, Vita Caes., 21, 71-75

Giulio Cesare era stato appena nominato dittatore a vita il giorno precedente e il tempismo del gesto di Antonio fu quantomeno sospetto. Un mese dopo Antonio si salvò dall’assassinio di Cesare poiché venne allontanato dal senato con una scusa, sia perché si temeva che avrebbe potuto sventare l’omicidio, sia perché Bruto si era fortemente opposto. Non sappiamo se il gesto di Antonio sia stato frutto di un’abile preparazione a tavolino per ricacciare i dubbi secondo i quali Cesare volesse diventare rex, o se il futuro triumviro avesse avuto l’idea al momento, in tutta sincerità, o se – cosa non del tutto improbabile – fosse ubriaco. In ogni caso appare fuori luogo anche un altro elemento: le persone sotto ai rostri incitavano Cesare a prendere il diadema, mentre tutti gli altri si opponevano, come se fosse stato un gruppo organizzato dei futuri cesaricidi per mostrare a tutti gli intenti assolutistici del dittatore.

L’avvenimento, per quanto fortuito o organizzato ebbe forti ripercussioni: un mese dopo Cesare sarebbe stato assassinato durante una congiura organizzata dai pretori Bruto e Cassio; molti si unirono a loro, ma Cicerone si tenne fuori, sebbene auspicasse che venisse ucciso anche Marco Antonio (dal quale invece venne poi ucciso – facendolo inserire sulle liste di proscrizione triumvirali -, dopo le sue terribili quattordici filippiche che Antonio non gli perdonò mai). Quando si aprì il testamento di Cesare si scoprì che il primo erede, cui spettavano i tre quarti del suo patrimonio era il diciannovenne pronipote Gaio Ottavio e non Marco Antonio, solo terzo in linea di successione. Che l’episodio dei Lupercali abbia influito anche sul futuro di Roma? Citando un famoso libro di Luciano Canfora, si potrebbe dunque affermare con una ragionevole certezza che Cesare sia stato un “dittatore democratico”; sapeva infatti che era necessario cambiare, ma si scontrò con le radicate tradizioni repubblicane. Sarà dunque il suo pronipote Ottavio a terminare ciò che aveva iniziato, mantenendo tuttavia in piedi formalmente la repubblica, ma di fatto tenendo il potere assoluto.

Giulio Cesare può tuttavia definirsi del tutto estraneo alle motivazioni e alla serie di eventi che portarono al suo omicidio? Dopo la presa del potere assoluto egli non trovava più alcun ostacolo politico, fioccavano gli onori ed ebbe, infine, la dittatura, prima per dieci anni, poi a vita. Immetteva nel senato molte persone estranee all’antica nobilitas, e nel frattempo continuava a comportarsi in un modo che per l’antica aristocrazia era decisamente odioso. Un giorno, assiso su un trono nel tempio di Venere Genetrice, ricevette il senato senza alzarsi, il che era un grande affronto se si considera che la gens Iulia vantava di discendere da Venere e quindi agli occhi dei senatori apparve come una pretesa di dimostrare il suo potere assoluto, come una divinità vivente. Cassio Dione giustifica l’accaduto dicendo che il dittatore soffriva di diarrea, mentre Plutarco parla di un attacco di epilessia. Quel che è certo è che si rese conto di ciò che aveva fatto tornando a casa, e infatti pare che urlasse a chiunque incontrasse di ucciderlo, mostrando la gola. Quel che è certo è che Cesare ritenesse la repubblica superata, secondo quanto riporta Svetonio: “nihil esse rem publicam, appellationem modo sine corpore ac specie” – “la repubblica non è nient’altro che un nome senza corpo né anima”. E la storia gli diede ragione.

Un dittatore giusto

«Quanto alla temperanza di Cesare in fatto di cibo, si suole citare questo episodio: un giorno, a Milano, Valerio Leone, ch’era suo ospite, invitatolo a pranzo, gli servì degli asparagi conditi con burro invece che con olio. Cesare li mangiò senza esitare, criticando gli amici che storcevano la bocca disgustati. «Se non vi piacciono, perché li mangiate?», esclamò. «È da gente rozza disprezzare questo cibo solo perché è rustico». Una volta, mentre si trovava in viaggio, sorpreso da una tempesta, riparò nella casupola di un poveraccio e poiché c’era solo una stanzetta che a malapena poteva ospitare una persona ordinò che la occupasse Oppio. «Fra i potenti», disse, «bisogna cedere il posto a chi sta più in alto, ma fra gli amici ai più deboli». E passò la notte con gli altri sotto la gronda della porta.»

PLUTARCO, CESARE, 17

Emblematica era inoltre la vicinanza con i soldati che chiamava commilitoni. Con loro divideva tutto:

«Cesare non giudicava i soldati dai costumi o dall’aspetto, ma solo dalle loro forze, e li trattava con pari severità e indulgenza. Non li costringeva, infatti, all’ordine sempre e ovunque, ma solo di fronte al nemico: soprattutto allora esigeva una disciplina inflessibile, non preannunciando mai il momento di mettersi in marcia né quello di combattere, ma voleva che i suoi uomini fossero sempre vigili e pronti a seguirlo in qualsiasi momento ovunque li avesse condotti. Si comportava così anche senza un motivo, e specialmente nei giorni piovosi o festivi. Talvolta, dopo aver ordinato ai soldati che non lo perdessero di vista, si metteva in marcia all’improvviso, di giorno come di notte, e forzava il passo per stancare chi avesse tardato a seguirlo.
Quando i suoi erano atterriti dalle voci sulle forze dei nemici, non li incoraggiava negandole o sminuendole, ma anzi le esagerava e raccontava anche frottole. […]
Non teneva conto di tutte le mancanze, e non le puniva tutte con la stessa severità. Mentre si accaniva, infatti, nel perseguitare disertori e sediziosi, era molto indulgente con gli altri. Dopo grandi vittorie, a volte dispensava le truppe da tutti i loro doveri, e permetteva che si abbandonassero a una sfrenata licenza. Era solito, infatti, vantarsi dicendo: “I miei soldati sanno combattere bene anche se si profumano”. Nei suoi discorsi, inoltre, non li chiamava soldati ma commilitoni, termine ben più lusinghiero. Voleva anche che fossero ben equipaggiati, e dava loro delle armi decorate con oro e argento tanto per aumentare il loro prestigio quanto perché in combattimento fossero ancora più tenaci, spinti dal timore di perdere armi tanto preziose. Era tanto affezionato ai suoi soldati che, venuto a sapere della disfatta di Titurio, si lasciò crescere la barba e i capelli senza tagliarli se non dopo aver compiuto la sua vendetta.»

SVETONIO, CESARE, 65-67

Le idi di marzo

Cesare aveva ormai congedato la sua guardia ispanica e andava per Roma senza scorta, mentre preparava la sua imminente campagna partica, radunando le sue forze nei pressi di Apollonia, sull’altra sponda dell’Adriatico. Il giorno prima del suo assassinio vengono enumerati diversi prodigi, sia da Svetonio che da Plutarco, a corroborare l’unicità dell’evento, come era solito nella letteratura antica. Forse non sapremo mai se qualcuno di questi sia stato vero. Tra questi l’aruspice Spurinna che avrebbe messo in guardia Cesare dalle idi di marzo:

« Ma la morte imminente fu annunciata a Cesare da chiari prodigi. Pochi mesi prima, i coloni condotti a Capua, in virtù della legge Giulia, stavano demolendo antiche tombe per costruirvi sopra case di campagna. Lavoravano con tanto ardore che scoprirono, esplorando le tombe, una gran quantità di vasi di antica fattura e in un sepolcro trovarono una tavoletta di bronzo nella quale si diceva che vi era sepolto Capi, il fondatore di Capua. La tavola recava la scritta in lingua e caratteri greci, il cui senso era questo: «Quando saranno scoperte le ossa di Capi, un discendente di Iulo morrà per mano di consanguinei e ben presto sarà vendicato da terribili disastri dell’Italia.» Di questo episodio, perché qualcuno non lo consideri fantasioso o inventato, ha reso testimonianza Cornelio Balbo, intimo amico di Cesare. Negli ultimi giorni Cesare venne a sapere che le mandrie di cavalli che aveva consacrato, quando attraversò il Rubicone, al dio del fiume, e lasciava libere di correre, senza guardiano, si rifiutavano di nutrirsi e piangevano continuamente. Per di più, mentre faceva un sacrificio, l’aruspice Spurinna lo ammonì di «fare attenzione al pericolo che non si sarebbe protratto oltre le idi di marzo». Il giorno prima delle idi un piccolo uccello, con un ramoscello di lauro nel becco, volava verso la curia di Pompeo, quando volatili di genere diverso, levatisi dal bosco vicino, lo raggiunsero e lo fecero a pezzi sul luogo stesso. Nella notte che precedette il giorno della morte, Cesare stesso sognò di volare al di sopra delle nubi e di stringere la mano di Giove; la moglie Calpurnia sognò invece che crollava la sommità della casa e che suo marito veniva ucciso tra le sue braccia; poi, d’un tratto, le porte della camera da letto si aprirono da sole. In seguito a questi presagi, ma anche per il cattivo stato della sua salute, rimase a lungo indeciso se restare in casa e differire gli affari che si era proposto di trattare davanti al Senato; alla fine, poiché Decimo Bruto lo esortava a non privare della sua presenza i senatori accorsi in gran numero che lo stavano aspettando da un po’, verso la quinta ora uscì. Camminando, prese dalle mani di uno che gli era venuto incontro un biglietto che denunciava il complotto, ma lo mise insieme con gli altri, come se volesse leggerlo più tardi. Dopo aver fatto quindi molti sacrifici, senza ottenere presagi favorevoli, entrò in curia, passando sopra ogni scrupolo religioso, e si prese gioco di Spurinna, accusandolo di dire il falso, perché le idi erano arrivate senza danno per lui. Spurinna, però, gli rispose che erano arrivate, ma non erano ancora passate. »

Svetonio, Vita di Cesare, 82

Quel che sembra probabile è che la voce dell’imminente omicidio fosse in qualche modo circolata e che alcuni abbiano tentato di avvisare il dittatore, che probabilmente sottovalutò le voci. La sera prima, il 14 marzo, Cesare avrebbe risposto mentre era a cena a casa di Lepido, cui era presente anche Decimo Bruto, su una domanda filosofica posta sulla morte, asserendo di preferirne una improvvisa. E sarebbe stato accontentato.

Erano arrivate le idi di marzo e il senato si riuniva, provvisoriamente, nei pressi del teatro di Pompeo, poiché la curia era chiusa per lavori di ristrutturazione. Cesare sarebbe stato restio a partecipare alla seduta, viste anche le rimostranze della moglie Calpurnia che lo spingeva a rimanere a casa, ma Decimo Giunio Bruto lo convinse ad andare, dicendo che il senato era già riunito e lo stava attendendo. All’entrata Gaio Trebonio prese da parte Marco Antonio, console insieme a Cesare nel 44 a.C., sia poiché si temeva sventasse l’omicidio, sia perché, nonostante le lamentele di Cicerone (che comunque si era tenuto fuori dalla congiura) non rientrava nei piani dei congiurati:

« Mentre prendeva posto a sedere, i congiurati lo circondarono con il pretesto di rendergli onore e subito Cimbro Tillio, che si era assunto l’incarico di dare il segnale, gli si fece più vicino, come per chiedergli un favore. Cesare però si rifiutò di ascoltarlo e con un gesto gli fece capire di rimandare la cosa a un altro momento; allora Tillio gli afferrò la toga alle spalle e mentre Cesare gridava: “Ma questa è violenza bell’e buona!” uno dei due Casca lo ferì, colpendolo poco sotto la gola. Cesare, afferrato il braccio di Casca, lo colpì con lo stilo, poi tentò di buttarsi in avanti, ma fu fermato da un’altra ferita. Quando si accorse che lo aggredivano da tutte le parti con i pugnali nelle mani, si avvolse la toga attorno al capo e con la sinistra ne fece scivolare l’orlo fino alle ginocchia, per morire più decorosamente, con anche la parte inferiore del corpo coperta.
Così fu trafitto da ventitré pugnalate, con un solo gemito, emesso sussurrando dopo il primo colpo; secondo alcuni avrebbe gridato a Marco Bruto, che si precipitava contro di lui: “Anche tu, figlio?”. Rimase lì per un po’ di tempo, privo di vita, mentre tutti fuggivano, finché, caricato su una lettiga, con il braccio che pendeva fuori, fu portato a casa da tre schiavi. Secondo quanto riferì il medico Antistio, di tante ferite nessuna fu mortale ad eccezione di quella che aveva ricevuto per seconda in pieno petto. I congiurati avrebbero voluto gettare il corpo dell’ucciso nel Tevere, confiscare i suoi beni e annullare tutti i suoi atti, ma rinunciarono al proposito per paura del console Marco Antonio e del comandante della cavalleria Lepido. »

Svetonio, Vita di Cesare, 82

Cesare sarebbe dunque caduto a terra, morente, proprio di fronte la statua di Pompeo, ironia della sorte. Secondo l’autopsia che gli venne fatta successivamente dal medico Antistione (la lex Aquilia del 286 a.C. prevedeva si dovesse provare che la morte fosse stata violenta e non per cause naturali) scoprì che le pugnalate ricevute erano state ventitré e di queste solo la seconda risultava mortale.



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Giulio Cesare: un dittatore democratico
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