Nel III secolo d.C. l’impero romano cadde in una profonda crisi. Gli imperatori-senatori dovettero cedere il passo a militari di professione, che grazie alle riforme di Settimio Severo potevano più facilmente scalare i ranghi. Il primo a cadere e lasciare il posto ad un soldataccio fu proprio l’ultimo dei Severi, Severo Alessandro. Titubante da sempre a risolvere le questioni militari con la forza bruta, ne pagò le conseguenze sul fronte persiano. Nel frattempo i germani minacciavano i confini e, reputandoli un pericolo ben maggiore per l’Italia, Alessandro decise di affrontarli, lasciando l’esercito orientale a contenere i persiani, per lui sufficiente. Ma, nonostante avesse portato con sé arcieri parti e cavalieri mauri, oltre ad aver organizzato l’esercito per combattere, decise di intavolare trattative diplomatiche, evitando ancora una volta lo scontro. I soldati, esasperati, non ne poterono più ed elessero loro imperatore Massimino, comandante delle reclute, che diede il via all’anarchia militare (235-284):

«Alessandro aveva in tal modo disposto le operazioni; tuttavia gli sembrò opportuno inviare al nemico ambasciatori e intavolare trattative di pace. Prometteva di dar loro quanto avessero chiesto, e di prodigare le sue ricchezze. Questo è, per i Germani, un argomento assai persuasivo; poiché sono molto desiderosi di arricchirsi, e sempre mercanteggiano con i Romani la pace a peso d’oro. Alessandro preferiva contrattare con essi la tregua anziché cimentarsi in una guerra. Ma i soldati mal sopportavano questo indugio, che consideravano inutile, e si sdegnavano perché Alessandro non tentava di compiere imprese gloriose sul campo di battaglia; si distraeva invece fra le corse equestri e i piaceri, mentre urgeva prendere l’offensiva e punire i Germani della loro tracotanza.»

Erodiano, Storia dell’impero romano dopo Marco Aurelio VI, 7, 9-10

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Massimino

Massimino secondo la tradizione era un barbaro trace, figlio di un contadino goto e di una donna alana. Arruolatosi come cavaliere ausiliario nell’esercito romano, scalò poi i ranghi, diventando centurione e guardia del corpo dell’imperatore sotto Settimio Severo:

«Si narra che fosse nato in un villaggio della Tracia confinante col territorio dei barbari, figlio inoltre di padre e madre barbara, l’uno Goto di origine, l’altra Alana. Si dice che il padre si chiamasse Micca, e la madre Ababa. Questi nomi Massimino nei primi tempi li palesava liberamente, ma in seguito, quando giunse al potere, volle che fossero tenuti nascosti, perché non apparisse che l’imperatore era nato da genitori entrambi di stirpe barbarica. Nella sua prima fanciullezza fece il pastore, talvolta anche capeggiando i compagni nell’affrontare i briganti e nel difendere i suoi dalle loro incursioni. Compì il suo primo servizio militare nella cavalleria. Era infatti imponente per la sua prestanza fisica, famoso per il suo valore fra tutti i soldati, bello nel suo aspetto virile, duro nel suo comportamento, rude, superbo, sprezzante, spesso nondimeno capace di senso di giustizia.»

Historia Augusta, Massimino il Trace, 1, 5-7; 2, 1-2

La sua prestanza fisica era proverbiale; si diceva fosse alto oltre 2 metri (un’altezza spaventosa per l’epoca) e che avesse una forza micidiale. Ma quando Caracalla fu assassinato si ritirò a vita privata, per poi tentare di rientrare in servizio, senza successo, sotto Eliogabalo:

«Risulta che spesso egli bevesse in un giorno un’anfora capitolina di vino, che mangiasse fino a quaranta libbre di carne o, come sostiene Cordo, addirittura sessanta. Come si sa per certo, egli non assaggiò mai legumi e quasi mai bevande fredde se non per necessità di bere. Spesso raccoglieva le gocce del suo sudore collocandole in calici o in un vasetto, e così poteva mostrarne due o tre sestari. Sotto Antonino Caracalla ricoprì a lungo il grado di centurione e più volte ebbe ad occupare tutte le altre cariche militari. Sotto Macrino, per il profondo odio che nutriva contro l’uomo che aveva ucciso il figlio del suo imperatore, abbandonò la milizia e si acquistò in Tracia, nel villaggio dove era nato, dei possedimenti ed esercitò sempre il commercio con i Goti. Era straordinariamente benvoluto dai Goti, come se fosse un loro concittadino. Tutti gli Alani che si spingevano sino alla riva del fiume, lo trattavano come un amico, scambiando vicendevolmente dei doni. Ma quando Macrino fu ucciso assieme a suo figlio, non appena apprese che era divenuto imperatore Eliogabalo, quale figlio di Antonino, egli, che era ormai un uomo maturo, si recò da lui e gli chiese che egli pure avesse a tenerlo nella stessa considerazione che aveva avuto nei suoi riguardi il nonno di lui Severo. Ma nulla poté ottenere con quel sozzo individuo; si dice infatti che Eliogabalo gli rispose con una battuta sconcia: «Dicono, o Massimino, che tu una volta abbia lottato vittoriosamente con sedici, venti e trenta soldati: potresti farcela per trenta volte con una donna?». Allora egli, al sentire quel principe infame esordire in tal modo, decise di ritirarsi dall’esercito.»

Historia Augusta, Massimino il Trace, 4, 1-8

Quando tuttavia Alessandro divenne senatore, richiamò Massimino e gli diede il comando delle reclute, che addestrava con estremo rigore, guadagnandosi il loro favore. Proprio grazie a quest’ultimo, e ai tentennamenti di Alessandro in guerra, Massimino viene acclamato imperatore dai soldati, nel 235 d.C.:

«Alessandro, che pure sapeva giudicare i veri meriti delle persone, impressionato da un uomo che si segnalava per tali imprese, gli conferì – per sua propria disgrazia – il comando di tutto l’esercito, tra la soddisfazione diffusa di tutti i tribuni, i generali, i soldati. Fu così che Massimino ricondusse l’esercito, che si era in gran parte infiacchito sotto Eliogabalo, al regime di vita militare da lui instaurato. Ma tutto questo per Alessandro – che era un ottimo principe ma tuttavia, per la sua giovane età, poteva inizialmente non godere della necessaria autorità – risultò, come abbiamo detto, veramente fatale. Mentre infatti si trovava in Gallia e aveva posto l’accampamento non lontano da una città, Alessandro venne ucciso da alcuni soldati – inviati repentinamente, come dicono certuni, da Massimino stesso, o, secondo altri, da ufficiali delle truppe barbare – mentre cercava scampo presso la madre, dopo che Massimino era già stato proclamato imperatore. Quanto al motivo dell’uccisione di Alessandro, vengono riferite varie versioni. Certuni infatti affermano che Mammea avrebbe spinto il figlio ad abbandonare la guerra germanica per recarsi in oriente, e questa sarebbe stata la causa della sedizione dei soldati; altri, che egli era troppo severo, e avrebbe voluto sciogliere le legioni in Gallia come aveva fatto in oriente. Comunque, dopo l’uccisione di Alessandro, Massimino fu acclamato Augusto dall’esercito – ed era la prima volta che si verificava per un militare, non ancora senatore, e in mancanza di un decreto del senato –, e gli fu dato quale collega nell’impero il figlio.»

Historia Augusta, Massimino il Trace, 7, 1-6; 8, 1

Divenuto imperatore con la sola forza delle armi, Massimino non andò a Roma per ottenere l’appoggio del senato, anzi, continuò la guerra contro i germani e in particolar gli alemanni. Ben presto i senatori non ne poterono più dell’imperatore semi-barbaro, che aveva anche alzato le tasse per terminare la guerra. Il senato, non sopportando più Massimino, decise allora di scegliere come imperatore il governatore d’Africa, Gordiano, che era insorto contro l’imperatore. Ma la rivolta fu placata nel sangue dal governatore della Numidia Cappelliano:

«Quando Massimino venne a conoscenza di questo decreto senatorio, uomo feroce di sua natura qual era, arse d’ira a tal punto che lo si sarebbe creduto non un uomo, ma una belva. Si scagliava contro le pareti, talora si buttava a terra, lanciava urla inconsulte, dava di piglio alla spada, quasi che con quella potesse uccidere il senato, si strappava la veste regale, percuoteva i servi di corte, sì che, se non si fosse tolto di mezzo, avrebbe addirittura – come riferiscono certuni – cavato gli occhi al proprio figlio giovinetto. Il motivo della sua collera nei confronti del figlio era che egli, non appena proclamato imperatore, gli aveva ordinato di andare a Roma, e quello invece, per il suo eccessivo attaccamento al padre, non lo aveva fatto; ora, lui era convinto che se il figlio si fosse trovato a Roma, il senato non avrebbe osato prendere alcuna iniziativa. Alla fine gli amici riuscirono a trascinarlo, furioso com’era, nella sua stanza. Ma, incapace di dominare il suo furore, si dice che, per dimenticare quel pensiero, il primo giorno si riempì di vino a tal punto da non ricordare più che cosa fosse accaduto.»

Historia Augusta, Massimino il Trace, 17, 1-5

Massimino aveva forse sottovalutato la rivolta. Nonostante la sconfitta di Gordiano padre e figlio, il senato continuò a osteggiarlo, nominando imperatori due senatori, Pupieno e Balbino, associando a loro Gordiano III (nipote di Gordiano I) come Cesare. La rivolta dei Gordiani era nata anche perché la guerra in Germania aveva spinto Massimino ad aumentare le tasse, e i senatori non erano più disposti a pagare le guerre di un imperatore che li oltraggiava. Massimino, tornando in Italia per affrontare il senato, assediò la ribelle Aquileia. Subì ingenti perdite; fu allora che i soldati si ammutinarono, uccidendolo. Era il 238 d.C., e aveva regnato solo tre anni:

«Allora Massimino, presumendo che la guerra andasse per le lunghe per via dell’inerzia dei suoi, mise a morte, proprio nel momento che sarebbe stato meno opportuno, i suoi generali. Con il che accrebbe vieppiù il risentimento dei soldati contro di lui. A ciò si aggiungeva il fatto che si trovava a corto di vettovagliamenti, giacché il senato aveva mandato a tutte le province e ai custodi dei magazzini un dispaccio con l’ordine che nessun tipo di rifornimento cadesse nelle mani di Massimino. Aveva inoltre inviato per tutte le città elementi che erano stati in passato pretori e questori, con l’incarico di predisporre in ogni luogo misure di sicurezza, e di difendere ogni cosa dagli attacchi di Massimino. E così si ebbe che l’assediante stesso venne a trovarsi nelle critiche condizioni di un assediato. Frattanto si spargeva la notizia che il mondo intero si era dichiarato concordemente ostile a Massimino. Perciò i soldati che avevano i loro cari sul monte Albano, presi da timore, verso mezzogiorno, in un momento di pausa del combattimento, uccisero Massimino e suo figlio, mentre erano coricati sotto la tenda, e, infilate le loro teste in cima a due picche, ne fecero mostra agli Aquileiesi. Allora nella vicina città vennero immediatamente abbattute le statue e i busti di Massimino, e il suo prefetto del pretorio fu ucciso assieme ai suoi amici più in vista. Le loro teste, inoltre, furono inviate a Roma.»

Historia Augusta, Massimino il Trace, 23, 1-7

Aureliano

Alla morte di Gallieno era diventato imperatore uno dei primi imperatori illirici, Claudio II il Gotico, che aveva ottenuto il suo soprannome infliggendo una sconfitta devastante ai goti; tuttavia anche lui era morto ben presto, ma caso quasi unico nel III secolo, era stato portato via dalla peste e non da eventi violenti. Gli era succeduto il fratello Quintillo, ma esistono due versioni diverse: in una Aureliano era stato nominato successore da Claudio, e Quintilio ne aveva approfittato per farsi acclamare imperatore, mentre nell’altra Aureliano si era fatto acclamare imperatore con l’appoggio dell’esercito ed era marciato contro Quintillo. In ogni caso durò pochi giorni, stroncato dal ben più energico Aureliano:

«Era di aspetto elegante e fine, di bellezza virile, piuttosto alto di statura, di fortissima muscolatura; eccedeva un poco nel bere vino e nel mangiare, si abbandonava raramente ai piaceri della carne, era molto severo, estremamente rigido in fatto di disciplina, sempre pronto a por mano alla spada. Difatti, essendovi nell’esercito due tribuni di nome Aureliano – il nostro ed un altro, che fu fatto prigioniero assieme a Valeriano – l’esercito gli aveva affibbiato il soprannome di «mano alla spada», così che, se per caso si voleva sapere quale dei due Aureliani aveva fatto una data cosa o condotta una certa operazione, bastava aggiungere «Aureliano mano alla spada» per capire di chi si trattasse.»

Historia Augusta, Aureliano, 6, 1-2

Aureliano era esattamente quello di cui l’impero aveva bisogno, un militare di professione, ma che sapesse mettere ordine nel caos in cui era piombata Roma. Era il 270 d.C. e l’impero era ancora diviso, con in oriente Zenobia, moglie di Odenato, a cui era seguita, e in occidente l’impero delle Gallie guidato da Tetrico, che aveva seguito Postumo. Proverbiale di Aureliano era la disciplina, tanto da essere definito dai soldati “manu ad ferrum”, e tanto da far dire a Flavio Volpisco, autore della sua biografia dell’Historia Augusta, che la disciplina che imponeva era di altri tempi, ormai lontani, della storia romana:

“Costui poi era tanto temuto dai soldati, che, una volta che lui aveva punito con grande severità le mancanze commesse in servizio, nessuno di essi vi incorreva più. Fu inoltre l’unico che punì un soldato reo di aver commesso adulterio con la moglie di un ospite, facendolo legare per i piedi alle cime di due alberi piegate verso terra e che tutto d’un colpo egli fece rilasciare, così che quello rimase squartato in due parti che penzolavano da entrambi i lati: il che suscitò in tutti grande spavento. C’è una sua lettera di argomento militare, inviata al suo luogotenente, che suona così: «Se vuoi essere tribuno, anzi se ti preme restar vivo, frena la mano dei tuoi soldati. Nessuno porti via i polli o metta le mani sulle pecore altrui. Nessuno rubi uva o danneggi le messi, o si faccia dare olio, sale, legna, ma si accontenti della propria razione di viveri. Con la preda tolta al nemico, non con le lacrime dei provinciali devono arricchirsi. Le armi siano tirate a lucido, i ferri ben arrotati, i calzari resistenti. Nuove uniformi rimpiazzino quelle vecchie. Tengano la paga nella cintura, anziché spenderla all’osteria. Si mettano pure addosso le loro collane, i loro bracciali, i loro anelli. Provvedano a strigliare il loro cavallo e la bestia da soma, non vendano la razione di foraggio destinata al proprio animale, prendano cura in comune del mulo della centuria. Ciascuno abbia deferenza nei confronti dell’altro come fosse il suo comandante, nessuno però assumendo atteggiamenti servili; siano curati gratuitamente dai medici; non diano nulla agli aruspici; dove ricevono ospitalità si comportino correttamente; chi provocherà delle risse, sia bastonato».”

Historia Augusta, Aureliano, 7, 3-8

La prima occupazione di Aureliano furono i barbari che erano dilagati nella pianura padana, perlopiù alemanni, che sconfissero anche l’esercito romano. Ma, carichi di bottino, si divisero in piccoli gruppi per razziare meglio. L’imperatore li colse uno a uno, massacrandoli. Poi decise, con l’accordo del senato, di dare a Roma una nuova cinta muraria, le famose mura Aureliane:

«Dopo questi fatti, rendendosi conto che poteva avvenire che avesse a ripetersi qualcosa sul genere di quanto si era verificato sotto Gallieno, sentito il parere del senato fece allargare le mura della città di Roma. Non fu tuttavia in quell’occasione che ebbe ad estendere il pomerio, ma successivamente. Del resto a nessun imperatore è lecito estendere il pomerio se non a uno che abbia ingrandito l’impero di Roma con una qualche porzione di territorio straniero. Lo avevano esteso Augusto, Traiano, Nerone, sotto il quale furono aggregati al dominio di Roma il Ponto Polemoniaco e le Alpi Cozie.»

Historia Augusta, Aureliano, 21, 9-11

Subito dopo si recò sul Danubio, dove sconfisse vandali, iutungi e sarmati; pare che poi avesse chiesto l’approvazione all’esercito se fare o meno la pace con i barbari, denotando un rapporto di stima con i soldati unico. Tuttavia, da pragmatico qual era, dopo gli Agri Decumates, abbandonati poco prima, decise anche di abbandonare l’ormai indifendibile Dacia, formandone una nuova provincia di Dacia lungo il corso del Danubio, ma più piccola.

Rimesso ordine in Italia e sul Danubio, fu il turno di Zenobia, che controllava tutto l’oriente. Mentre era in viaggio inflisse una terribile sconfitta ai goti, guadagnandosi il titolo di Gothicus Maximus, mentre all’inizio del 271, grazie al futuro imperatore Probo, riprendeva l’Egitto. Si arrivò allo scontro finale con Zenobia, sconfitta sia a Immae che a Emesa nonostante la fortissima cavalleria catafratta di cui disponeva. Infine, fu presa anche Palmira, e Zenobia venne catturata. Poco dopo Palmira e l’Egitto si ribellarono, costringendo Aureliano a intervenire nuovamente; stavolta Palmira – era il 273 – fu saccheggiata e distrutta. Subito dopo Aureliano tornò in occidente per affrontare Tetrico, che sconfisse ai Campi Catalaunici. Aureliano aveva riunificato, in meno di cinque anni, un impero sul punto di collassare. Zenobia e Tetrico sfilarono poi nel trionfo di Aureliano, ma furono entrambi risparmiati; Tetrico divenne corrector Lucaniae (o totius Italiae?), mentre Zenobia rimase a Tivoli, dove sposò un senatore romano.

Rientrato a Roma, Aureliano non si dedicò solo alla riforma monetaria, ma anche a quella dell’annona, dando anche la carne di maiale nelle distribuzioni, distogliendo parte del denaro tratto dalle tasse egizie, grazie anche alla riconquista di quelle terre. Infine, convinto che il dio solare lo avesse aiutato nella sua vittoria, introdusse il culto del Sol Invictus, il Sole Invincibile, costruendone il tempio a Roma. Mentre preparava la guerra contro i persiani, nel settembre del 275, Aureliano venne però assassinato nei pressi di Bisanzio, per mano dei suoi stessi soldati; il suo segretario, temendo l’inflessibilità dell’imperatore, fece circolare la notizia che voleva uccidere alcuni tra i pretoriani, che gli credettero e lo uccisero:

«Dopo aver provveduto a queste cose, partì per le Gallie e liberò la Vindelicia dall’assedio dei barbari, poi tornò nell’Illirico e, allestito un esercito più forte che numeroso, mosse guerra ai Persiani, che aveva già con grandissima gloria sconfitto anche al tempo in cui aveva vinto Zenobia. Ma durante il viaggio, a Cenofrurio – un luogo di tappa che sta fra Eraclea e Bisanzio – per il tradimento di un suo segretario cadde assassinato per mano di Mucapore. Mi soffermerò brevemente sia sulle cause del suo assassinio sia sulle modalità in cui esso avvenne, onde non abbia a rimanere oscuro un fatto di tale importanza. Aureliano, non lo si può negare, era un principe severo, crudele, sanguinario. Egli, avendo spinto la sua durezza al punto di uccidere anche la figlia di sua sorella senza un motivo grave né sufficientemente giustificato, si era attirato già prima di tutto l’odio dei suoi familiari. Capitò poi – le cose in effetti avvengono per volere del fato – che egli, col minacciarlo in base a non so quali sospetti che aveva su di lui, finisse per suscitare un profondo risentimento nei propri confronti da parte di un certo Mnesteo, che teneva come suo segretario particolare ed era, secondo alcuni, un suo liberto. Mnesteo, poiché sapeva che Aureliano non era solito minacciare invano né, una volta che minacciasse, perdonare, scrisse un elenco di nomi, mescolandovi quelli di persone nei cui riguardi Aureliano era realmente adirato, con quelli di persone verso i quali egli non nutriva alcun sentimento ostile, aggiungendo anche il suo nome, onde far apparire maggiormente fondata la preoccupazione che instillava in loro, e lesse l’elenco a ciascuno di coloro il cui nome era in esso compreso, soggiungendo che Aureliano aveva stabilito di sopprimerli tutti, ma loro, se erano veri uomini, dovevano difendere la propria vita. Essi si eccitarono, per la paura quelli che sapevano di meritare il risentimento dell’imperatore, per lo sdegno quelli che erano innocenti – Aureliano appariva ingrato nei confronti dei benefici e dei servigi che gli avevano reso – e assalito di sorpresa l’imperatore mentre era in viaggio, lo uccisero nel luogo che abbiamo detto sopra.»

Historia Augusta, Aureliano, 35, 4 – 36,6

Probo

Dopo la morte di Aureliano era diventato imperatore Tacito, un anziano senatore che vantava di discendere dall’omonimo senatore e storico; ma era morto già l’anno seguente, e Floriano, suo fratellastro, cercò di essere il suo successore. Ma l’esercito scelse invece un valente comandante, Probo.

«Grande fu sempre l’affetto dei soldati nei confronti di Probo, né egli tollerò mai alcuna insubordinazione da parte loro. Egli riuscì anche spesso a distogliere Aureliano dal prendere provvedimenti severi e crudeli. Egli passava in rassegna uno per uno i soldati semplici, ispezionava le vesti e le calzature, e se c’era del bottino lo divideva in modo da non tenere per sé null’altro che dardi e armi. Inoltre, una volta, in mezzo al bottino strappato agli Alani o a qualche altro popolo – questo non si sa bene – fu trovato un cavallo non particolarmente bello né grande ma che, a detta dei prigionieri, aveva fama di poter correre cento miglia al giorno, continuando ininterrottamente per otto o dieci giorni: tutti si aspettavano che Probo avrebbe riservato per sé l’animale, ma egli prima di tutto esclamò: «Questo cavallo si addice di più ad un soldato avvezzo a fuggire che non ad uno valoroso». Poi ordinò ai soldati di introdurre in un’urna i loro nomi, onde uno di essi, estratto a sorte, avesse a riceverlo. Ed essendovi nell’esercito altri quattro soldati di nome Probo, il caso volle che uscisse come primo il nome di Probo, sebbene il nome del generale Probo non fosse stato introdotto. Ma poiché quei quattro soldati litigavano fra di loro, ciascuno rivendicando a suo favore il risultato del sorteggio, egli fece di nuovo agitare l’urna, ma ne uscì per la seconda volta il nome di Probo; e riprovando una terza e quarta volta, anche alla quarta venne estratto il nome di Probo. Allora tutto l’esercito – d’accordo anche quegli stessi soldati i cui nomi erano stati estratti – volle riservare quel cavallo al generale Probo.»

Historia Augusta, Probo, 8, 1-7

Probo era originario di Sirmio, ed era nato da una famiglia modesta, il 19 agosto 232. Forse era stato dux (o correctortotius Orientis sotto Tacito; era il 276 quando venne acclamato Augusto, proprio in oriente. Lo scontro con Floriano avvenne a Tarso. Probo attese che la peste e il caldo facesse il suo corso, finché i suoi stessi soldati non uccisero Floriano. Dopo aver sedato una rivolta in Egitto e firmato la pace con i persiani, Probo tornò in occidente, dove Proculo in Gallia e Bonoso in Germania avevano reclamato la porpora. Assediati, Proculo venne consegnato dai suoi a Probo, mentre Bonoso si suicidò. Quest’ultimo era stato una delle migliori spie di Aureliano, pare infatti che reggesse in modo straordinario il vino e venisse inviato a bere con uomini di cui cercava di carpire informazioni. Messo in sicurezza il confine renano, catturò molti barbari, destinandone più di diecimila all’esercito e insediandone molti altri nell’impero. In quanto vittorioso in ogni sua campagna celebrò uno sfarzoso trionfo a Roma. Tuttavia, mentre si trovava a Sirmio, nel 282, fu ucciso dai suoi soldati. Quest’ultimi temevano sia ciò che ripeteva l’imperatore (che presto non ci sarebbe stato più bisogno di soldati) sia che li continuava ad usare senza sosta per la realizzazione di opere pubbliche:

“Concluso ciò, mentre attraversava l’Illirico apprestandosi alla guerra contro la Persia, fu ucciso a tradimento dai suoi soldati. Le cause che portarono alla sua uccisione furono queste: in primo luogo il fatto che non lasciava mai riposare i soldati, dato che realizzò molte opere valendosi del loro lavoro, affermando che il soldato deve guadagnarsi il pane che mangia. A ciò aggiungeva un’affermazione dura per essi, se mai si avverasse – anche se sarebbe di beneficio allo Stato –, che cioè nel giro di breve tempo non vi sarebbe stato più bisogno di soldati. Che cosa aveva in mente colui che diceva questo? Non aveva forse posto sotto i suoi piedi tutte le genti barbare e reso ormai romano tutto il mondo quanto è grande? «Tra breve», disse, «non avremo più bisogno di soldati». Che altro è dire: ormai non vi sarà più alcun soldato romano? Fra poco lo Stato eserciterà sicuro la sua sovranità ovunque e sarà padrone di tutto, il mondo non fabbricherà più armi, né provvederà ai rifornimenti militari, i buoi saranno posseduti solo per arare, i cavalli nasceranno per servire ad opere di pace, non vi saranno più guerre né prigionie, ma dappertutto la pace, le leggi romane, i nostri magistrati. Ma nel mio amore per questo eccellente imperatore mi sto lasciando trascinare più oltre di quanto non richieda il mio stile terra terra. Perciò aggiungerò solo la circostanza che più d’ogni altra ebbe ad affrettare il tragico destino di un tale uomo. Essendo dunque arrivato a Sirmio e avendo intenzione di bonificare ed ampliare il territorio della sua città natale, mise al lavoro contemporaneamente molte migliaia di soldati al prosciugamento di una palude, onde creare un grande canale sfociante nella Sava, grazie al quale avrebbe prosciugato dei terreni che avrebbero costituito una fonte di ricchezza per i Sirmiesi. Esasperati da ciò i soldati, raggiuntolo mentre cercava rifugio in una torre ferrata che aveva fatto innalzare a grande altezza quale posto di vedetta, lo uccisero, nel quinto anno del suo regno. In seguito però tutti i soldati insieme gli eressero un grande sepolcro, innalzato su di un tumulo di terra, con un epitaffio inciso nel marmo che suonava così: «Qui giace l’imperatore Probo, e probo davvero, vincitore di tutti i popoli barbari, vincitore anche degli usurpatori».”

Historia Augusta, Probo, 20,1 – 21,4

Massimiano

Dopo essere diventato imperatore unico, nel 285, Diocleziano decise di associare a sé nel luglio dello stesso anno un suo vecchio compagno d’armi, tale Massimiano. Nell’anno successivo, 286, lo elevò al rango di Augusto, il 1 aprile 286, affidandogli la pars occidentalis. Per sottolineare l’inferiorità di Marco Aurelio Valerio MassimianoDiocleziano assunse il soprannome di Iovio, e il suo collega di Erculio. La presenza di un imperatore stabile in occidente e un altro in oriente si era già presentata sotto Valeriano e Gallieno. Specialmente era necessario affrontare i bagaudi in Gallia, contadini o banditi che si ribellavano contro l’autorità romana e i barbari. Mentre Massimiano cercava di riportare l’ordine Carausio, nel 286, si autoproclamò imperatore in Britannia; sarebbe stato solo Costanzo Cloro, qualche anno più tardi, a riportarla sotto l’orbita romana sconfiggendo il suo successore Alletto.

Dopo aver stroncato i bagaudi, Massimiano dovette affrontare le tribù barbare che minacciavano la Germania, che sconfisse insieme a Diocleziano nel 288; tuttavia non si era ancora riusciti a riprendere possesso della Britannia. Nel 289 Massimiano tentò una spedizione, che tuttavia fallì. Non riuscendo a venire a capo del problema britannico, Diocleziano maturò l’idea di allargare il numero degli imperatori, creando la tetrarchia: il 1 marzo 293 a Milano Massimiano adottava come Cesare il suo ex prefetto al pretorio Flavio Costanzo, detto Cloro, mentre Diocleziano a Nicomedia faceva lo stesso con Galerio. Sarà proprio Costanzo, dopo aver riportato vittorie in Gallia, a sbarcare in Britannia e sconfiggere Alletto, riportandola sotto la legge romana. Nel frattempo, tra il 297 e 298 Massimiano fece una spedizione in Mauretania, pacificandola.

Da allora l’imperatore fece ritorno in Italia, stando perlopiù a Milano. Nel 303 festeggiò insieme a Diocleziano, a Roma, i vicennalia, ossia i vent’anni di regno. Pare che i due non fossero particolarmente amati dai senatori, tanto che Lattanzio sosteneva che Massimiano li terrorizzasse in ogni modo (ma è pur sempre una fonte cristiana fortemente avversa a Diocleziano). Ma a quel punto accadde l’imprevedibile: Diocleziano decise, forse complice una malattia, di abdicare, o forse per mettere alla prova il sistema, costringendo Massimiano a fare lo stesso . Il 1 maggio 305 entrambi gli imperatori, a Milano e Nicomedia, deposero la porpora, sebbene Massimiano fosse molto riluttante.

Tuttavia la situazione si aggravò quando, forse dietro ingerenza di Galerio, vennero scelti come Cesari per l’occidente e l’oriente rispettivamente Flavio Severo e Massimino Daia, lasciando escluso il figlio di Massimiano, Massenzio. Dopo l’acclamazione di Costantino, figlio di Costanzo Cloro, che era morto a Eburacum nel luglio del 306, Massenzio decise di fare lo stesso in Italia. Molti soldati avevano militato col padre e parteggiarono per lui, dopo essere stati comprati, segnando la fine di Severo. Per rinsaldare il legame con Costantino Massenzio gli diede sua figlia Fausta, sorella di Massenzio, in sposa. Pare che poi padre e figlio entrarono in contrasto, e Massimiano strappò la porpora del figlio, davanti i soldati, aspettandosi che lo acclamassero di nuovo imperatore, ma questo non avvenne. Poco dopo, l’11 novembre del 308, avvenne un convegno a Carnuntum, dove partecipò anche Diocleziano, per decidere come dividere l’impero. Alla fine vennero riconosciuti Augusti Licinio e Galerio, e Cesari Costantino e Massimino Daia. Massimiano decise allora di riparare da Costantino, in Gallia, ma non resistette più: cercò di farsi acclamare di nuovo imperatore mentre Costantino era distante, senza riuscirci. In fuga, venne raggiunto da Costantino a Marsiglia, che lo spinse a suicidarsi, nel luglio del 310.

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