Nei commentarii di Cesare appaiono spesso soldati, e in particolare centurioni, che si distinsero particolarmente ai suoi ordini. La devozione e l’attaccamento al comandante erano tali da spingerli ad atti di eroismo senza pari. Tra questi molti divennero famosi, come Gaio Crastino, morto a Farsalo, o Marco Cassio Sceva, che aveva resistito a oltre 100 frecce a Durazzo. Ma forse i più famosi furono i centurioni Pullo e Voreno.

Due centurioni in gara

«Cesare, riunite le insegne della XII legione, i soldati accalcati erano d’impaccio a se stessi nel combattere, tutti i centurioni della quarta coorte erano stati uccisi ed il signifer era morto anch’egli, dopo aver perduto l’insegna, quasi tutti gli altri centurioni delle altre coorti erano o feriti o morti […] mentre i nemici, pur risalendo da posizione da una posizione inferiore, non si fermavano e da entrambi i lati incalzavano i Romani […] Cesare vide che la situazione era critica […] tolto lo scudo ad un soldato delle ultime file […] avanzò in prima fila e chiamati per nome i centurioni, esortati gli altri soldati, ordinò di avanzare con le insegne allargando i manipoli, affinché potessero usare le spade. Con l’arrivo di Cesare ritornata la speranza nei soldati e ripresi d’animo […] desiderarono, davanti al proprio generale, di fare il proprio dovere con professionalità, e l’attacco nemico fu in parte respinto. Cesare avendo poi visto che anche la legione VII era incalzata dal nemico, suggerì ai tribuni militari che a poco a poco le legioni si unissero e marciassero contro il nemico voltate le insegne. Fatto questo, dopo che i soldati si soccorrevano vicendevolmente senza più aver paura di essere presi alle spalle dal nemico, cominciarono a resistere con maggior coraggio e a combattere più valorosamente. Frattanto le due legioni che erano state nelle retroguardie e di scorta alle salmerie [le legioni XIII e XIV] giunta notizia della battaglia, presero a correre a gran velocità […] Tito Labieno dopo aver occupato il campo nemico, e visto quanto accadeva nel nostro campo da un’altura, mandò in soccorso ai nostri la legione X.»

Cesare, De bello Gallico, II, 25-26

L’episodio della battaglia del fiume Sabis contro i nervi nel 57 a.C. è uno tra i primi eventi che denota l’attaccamento dei soldati a Cesare: nonostante i romani fossero in netta difficoltà e anche accerchiati, riescono, con l’incitamento di Cesare, a ribaltare le sorti dello scontro in loro favore. Famosi sono anche i centurioni di una legione impegnata in Gallia, Tito Pullone e Lucio Voreno, che erano in competizione per il posto di primipilo. Leggendario è l’episodio avvenuto quando i nervi attaccarono la legione, comandata da Quinto Cicerone, fratello dell’oratore:

«In seguito a questa resistenza i duci e i capi dei Nervi che avevano qualche dimestichezza e rapporto di amicizia con Cicerone, gli fanno sapere che volevano un abboccamento con lui. L’ottengono e ripetono ciò che Ambiorige aveva detto a Titurio: tutta la Gallia era in armi; i Germani avevano passato il Reno; gli accampamenti di Cesare e degli altri luogotenenti erano assediati. Aggiungono ancora che Sabino era morto; per dimostrare la verità di questo fanno venire innanzi Ambiorige. Afferma che erano in errore coloro che speravano di avere qualche aiuto dagli altri Romani che erano già a mal partito; tuttavia la loro disposizione d’animo verso Cicerone e il popolo romano era questa: ch’essi si rifiutavano solo di lasciarli svernare e non volevano che questa abitudine mettesse radici; essi potevano andarsene dagli accampamenti invernali senza molestia e partirsene senza timore per dove volevano. Cicerone rispose con queste sole parole: il popolo romano non era solito farsi dettare condizioni dai nemici in armi; se volevano cessare le ostilità, contassero pure sul suo aiuto e mandassero ambasciatori a Cesare; potevano sperare, dato il suo sentimento di giustizia, che avrebbero ottenuto ciò che chiedevano. Perduta questa speranza, i Nervi circondarono l’accampamento romano con uno steccato alto dieci piedi e con una fossa larga quindici piedi. Avevano imparato questo modo di fortificazioni campali da noi per la consuetudine degli anni precedenti e per il suggerimento dei prigionieri che avevano presso di loro; ma non avendo ferri che fossero idonei a queiruso, erano costretti a tagliare i cespi con le spade, a scavar la terra con le mani e a portarla nei mantelli. Da queste operazioni si poté avere un’idea della moltitudine degli avversari, perché compirono in meno di tre ore una fortificazione d’assedio [di quindici piedi] per una circonferenza di «tre» miglia e negli altri giorni cominciarono ad allestire e a costruire delle torri alte quanto il nostro steccato e prepararono le falci e le testuggini come avevano loro insegnato i nostri prigionieri. Nel settimo giorno d’assedio, essendosi levato un fortissimo vento, cominciarono a scagliare con fionde proiettili d’argilla incandescenti e dardi arroventati contro le capanne che erano coperte, secondo l’uso dei Galli, di paglia; queste presero fuoco e le fiamme, per la violenza del vento, si propagarono per ogni parte dell’accampamento. Come se la vittoria fosse già nelle loro mani, i nemici, levando un grande clamore, cominciarono a portare avanti le torri e le testuggini e a montare con scale sul vallo. Ma fu così grande il valore e la presenza di spirito dei soldati che pur essendo avvolti dalle fiamme e fatti segno ad immensa pioggia di dardi, pur vedendo che tutti i loro carriaggi e le loro fortune erano in preda al fuoco, non solo nessuno abbandonò il suo posto sullo steccato, ma quasi neppure volse indietro lo sguardo; anzi allora tutti combatterono con grande tenacia e accanimento. Questa giornata fu per i nostri molto grave; tuttavia ebbe questo risultato che moltissimi nemici furono feriti ed uccisi, poiché si accalcavano sotto lo steccato e quelli che erano alle spalle non davano modo a quelli che erano dinanzi di ritirarsi. Quietatosi un poco l’incendio, quando già in un punto una torre era appoggiata ed aderente al vallo, i centurioni della terza coorte si ritirarono dalla posizione in cui si trovavano, facendo retrocedere i loro uomini e con cenni e con grida invitarono i nemici ad entrare. Ma nessuno osò avanzare. Allora i Romani scagliarono pietre da tutte le parti e li sbaragliarono e in più appiccarono fuoco alla torre.»

CESARE, DE BELLO GALLICO, V, 41-43

Fu allora che nacque la leggenda:

“C’erano in quella legione due centurioni, due uomini coraggiosissimi, che già si avviavano a raggiungere i gradi più alti, Tito Pullone e Lucio Voreno. Erano in continua competizione tra di loro, per chi dei due sarebbe stato anteposto all’altro, e ogni anno lottavano con accesa rivalità per far carriera. Mentre si combatteva con grande accanimento sulle fortificazioni, Pullone disse: «Che aspetti Voreno? Che promozione vuoi avere come premio per il tuo coraggio? Questa è la giornata che deciderà delle nostre controversie». Detto questo, esce allo scoperto e irrompe dove più fitto è lo schieramento nemico. Neppure Voreno, allora, resta al coperto ma, temendo il giudizio degli altri, lo segue. Quasi addosso al nemico, Pullone lancia il giavellotto e trapassa uno dei loro che, staccatosi dal gruppo, correva ad affrontarlo. I nemici lo soccorrono esanime, proteggendolo con gli scudi, mentre tutti lanciano frecce contro di lui, bloccandolo. Un’asta trapassa lo scudo di Pullone e si conficca nel balteo, spostando il fodero della spada e, mentre egli si trova impacciato e perde tempo nel tentativo di estrarre l’arma, viene circondato dai nemici. Il suo avversario, Voreno, si precipita a soccorrerlo nella difficile situazione. Tutta la massa dei nemici si volge allora contro Voreno, ritenendo l’altro trafitto dall’asta. Voreno si batte corpo a corpo con la spada e, ucciso un nemico, respinge gli altri di poco, ma mentre incalza con foga, cade scivolando in una buca. Circondato a sua volta, viene aiutato da Pullone e ambedue, dopo aver ucciso molti nemici e acquistato grande onore, riparano incolumi all’interno delle fortificazioni. Così la fortuna volle, nella contesa e nel combattimento, che, sebbene avversari, si recassero reciproco aiuto e si salvassero l’un l’altro la vita, e non si potesse stabilire quale dei due fosse il più coraggioso.”

CESARE, DE BELLO GALLICO, V, 44

Questi due personaggi seguirono due strade differenti: Voreno rimase probabilmente fedele a Cesare, mentre Pullone passò dalla parte di Pompeo (non sappiamo se perché la sua legione venne assegnata al Magno o di sua volontà), sotto la legione XXI (divenuta poi Rapax), comandata da Gaio Antonio. E’ ricordato un’ultima volta da Cesare nei suoi commentarii riguardo la guerra civile, riportando che difese strenuamente il campo di Pompeo contro l’assalto di Cesare poco prima della battaglia di Farsalo:

«Gli esploratori riferirono a Cesare che colà erano state portate le insegne della legione. Fu confermato anche che ciò era stato osservato da alcuni fortilizi posti sulle alture. Quella posizione distava dal nuovo accampamento di Pompeo circa cinquecento passi. Cesare, sperando di poter sopraffare questa legione e di riparare il danno subito in quella mattina, lasciò nelle trincee due coorti, per far credere che si lavorasse nelle fortificazioni; egli, per via opposta e quanto più potè nascostamente, portò fuori dal campo su due linee le altre coorti, in numero di trentatré, tra le quali vi era la nona legione che aveva perduto molti centurioni ed era stremata di forze, contro la legione di Pompeo e il campo minore. Né fallì nel suo disegno. Infatti vi giunse prima che Pompeo potesse avvedersene e quantunque i trinceramenti del campo fossero vasti, tuttavia assalì celermente dall’ala sinistra, dove egli stesso si trovava, i Pompeiani e li cacciò via dal vallo. Dinanzi alle porte v’era ad ostacolo un riccio. Qui si combattè un po’ più a lungo, poiché da una parte i nostri tentavano di fare irruzione, dall’altra i Pompeiani difendevano il campo, trovandosi ivi a combattere con strenuo valore Tito Pullone, dal quale era stato tradito, come si è detto, l’esercito di Caio Antonio. Tuttavia i nostri per il loro grande valore vinsero e, rotto il riccio, dapprima irruppero nel campo maggiore, poi anche nel fortilizio, ch’era incluso nel campo maggiore, poiché là si era ritirata la legione sconfitta; alcuni che ivi resistevano furono uccisi.»

cesare, de bello civili, III, 67

I due divennero famosi anche in opere letterarie e di finzione, divenendo protagonisti della serie Rome della casa produttrice americana Hbo; un nipote di Voreno, Lucio, è protagonista di un romanzo di Valerio Massimo Manfredi, “Antica Madre”, mentre Pullo e Voreno sono protagonisti del romanzo scrittore Andrea Frediani “I due centurioni”.

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I centurioni Pullo e Voreno
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