L’esercito romano fin dalla sua nascita venne organizzato per classi censitarie e diviso in centurie. Durante la repubblica le legioni, divise in hastati, principes e triarii, avevano un centurione, scelto tra i combattenti migliori, che comandava centurie e manipoli; in seguito il primo dei due centurioni dei triarii divenne il più alto in grado della coorte. Fin dalle origini si narrano di episodi unici legati ai centurioni, come quello che fece decidere ai romani di non spostarsi a Veio dopo il sacco di Brenno:

«Ma a togliere ogni incertezza sopraggiunse una frase pronunziata proprio a tempo: mentre poco dopo il discorso di Camillo il senato era riunito nella curia Ostilia per discutere della questione, e delle coorti inquadrate ritornando dai presidii per caso attraversavano il foro, un centurione nella piazza del Comizio esclamò: «O alfiere, pianta l’insegna, qui rimarremo felicemente». Udita quella voce il senato uscito dalla curia gridò che accoglieva quello come un augurio, e la plebe accorsa intorno approvò. Respinta quindi la proposta di legge si cominciò a ricostruire la città disordinatamente. Le tegole furono fornite a spese dello stato, e fu dato il permesso di prendere le pietre e il legname di costruzione dove ciascuno volesse, dietro garanzia di condurre a termine gli edifici entro l’anno. Nella fretta non si presero cura di tracciare vie diritte, e senza distinzione di proprietà si edificava sul terreno trovato libero. Questo è il motivo per cui le vecchie cloache, che prima passavano sotto il suolo pubblico, ora in molti punti passano sotto case private, e inoltre la topografia della città fa pensare che il suolo cittadino sia stato occupato a caso e non distribuito secondo un piano.»

Tito Livio, Ab Urbe Condita , V, 55, 1- 5

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Il servizio

I centurioni fin dall’epoca repubblicana erano scelti tra i migliori combattenti della centuria, ma in alcuni casi, a partire dal principato, giovani di buona famiglia saltavano la gavetta e prendevano direttamente il posto di centurione.

«[…] i centurioni devono essere, non tanto uomini audaci e sprezzanti del pericolo, quanto invece in grado di comandare, tenaci e calmi, che inoltre, non muovano all’attacco quando la situazione è incerta, né si gettino nel pieno della battaglia, ma al contrario sappiano resistere anche se incalzati e vinti, e siano pronti a morire sul campo di battaglia.»

POLIBIO, STORIE, VI, 24, 9

Dopo la riforma dell’esercito di Gaio Mario, che lo rendeva professionale, le legioni vennero composte non più da manipoli ma da 10 coorti di circa 480 uomini l’uno. Sopravviveva ancora, più in modo formale che tattico, il manipolo; infatti i centurioni erano distinti in base al manipolo e la centuria di appartenenza (tre manipoli facevano una coorte): hastatus prior, hastatus posterior, princeps prior, princeps posterius, pilus prior, pilus posterius, laddove il pilus (ovvero il triariusprior della prima coorte era chiamato comunemente primus pilus ed era il centurione più alto in comando della legione. In ogni caso inizialmente il manipolo non sparì del tutto poiché Cesare lo menziona nel suo De Bello Gallico:

«Cesare, riunite le insegne della XII legione, i soldati accalcati erano d’impaccio a se stessi nel combattere, tutti i centurioni della quarta coorte erano stati uccisi ed il signifer era morto anch’egli, dopo aver perduto l’insegna, quasi tutti gli altri centurioni delle altre coorti erano o feriti o morti […] mentre i nemici, pur risalendo da posizione da una posizione inferiore, non si fermavano e da entrambi i lati incalzavano i Romani […] Cesare vide che la situazione era critica […] tolto lo scudo ad un soldato delle ultime file […] avanzò in prima fila e chiamati per nome i centurioni, esortati gli altri soldati, ordinò di avanzare con le insegne allargando i manipoli, affinché potessero usare le spade. Con l’arrivo di Cesare ritornata la speranza nei soldati e ripresi d’animo […] desiderarono, davanti al proprio generale, di fare il proprio dovere con professionalità, e l’attacco nemico fu in parte respinto. Cesare avendo poi visto che anche la legione VII era incalzata dal nemico, suggerì ai tribuni militari che a poco a poco le legioni si unissero e marciassero contro il nemico voltate le insegne. Fatto questo, dopo che i soldati si soccorrevano vicendevolmente senza più aver paura di essere presi alle spalle dal nemico, cominciarono a resistere con maggior coraggio e a combattere più valorosamente. Frattanto le due legioni che erano state nelle retroguardie e di scorta alle salmerie [le legioni XIII e XIV] giunta notizia della battaglia, presero a correre a gran velocità […] Tito Labieno dopo aver occupato il campo nemico, e visto quanto accadeva nel nostro campo da un’altura, mandò in soccorso ai nostri la legione X.»

(CESARE, DE BELLO GALLICO, II, 25-26)

Dunque la legione aveva 10 coorti di 480 uomini circa più 120 cavalieri, per un totale di 5.000 uomini (a partire dall’età flavia la prima coorte diventerà di 800 uomini invece che di 480, poiché aveva 5 centurie doppie, invece di 6 standard). Ogni coorte era divisa in 6 centurie, composte a loro volta da 10 contubernia di 8 uomini, che formavano l’unità base dell’esercito e che erano nella stessa tenda.

Inizialmente Augusto aveva prefissato una ferma di 16 anni e 4 come veterani, per un totale di 20 anni. Tuttavia le lunghe campagne militari in Illirico e Germania lo spinsero ad allungare i tempi a 25 anni, 20 di servizio e 5 come evocati (veterani). La ferma era piuttosto dura, perché richiedeva enorme impegno fisico, dedizione, un lungo tempo in servizio ed entrate molto modeste se rapportate al sempre maggiore benessere dell’impero. Finché Augusto fu in vita i legionari accettarono loro malgrado questa estensione, ma quando Tiberio divenne imperatore divampò la protesta, controllata solo grazie all’intervento di Druso minore. Si richiedeva a gran voce il ritorno alle condizioni precedenti, con venti anni di ferma e non più venticinque; a farne le spese furono alcuni centurioni e comandanti particolarmente severi:

«La rivolta divampa sempre più forte, si moltiplicano i caporioni. Un soldato semplice, un certo Vibulento, sollevato su le spalle dei compagni davanti al seggio di Bleso, si volse a quegli uomini eccitati e intenti a vedere che cosa si proponeva di fare e disse: «Voi avete restituito la luce e lo spirito a questi infelici innocenti; ma chi renderà a mio fratello la vita, a me il fratello? vi era stato mandato dall’esercito di Germania per trattare degli interessi comuni; ebbene, la notte stessa questi l’ha fatto massacrare dai suoi gladiatori, che tiene in armi per il danno dei soldati. Rispondi, Bleso: dove hai nascosto il cadavere? Quando avrò dato sfogo al mio dolore con baci, con lacrime, ordina che sia trucidato io pure, affinché gli uomini ci seppelliscano insieme, uccisi non per aver commesso un delitto, ma perché ci adoperavamo a vantaggio delle legioni». Rendeva ancor più acceso il suo dire col pianto, si percuoteva con le mani il petto e il volto. Poi, allontanò quelli che lo sostenevano su le spalle, balzò a terra e prostrandosi ai piedi di ciascuno, suscitò costernazione e furore a tal punto che alcuni dei soldati incatenarono i gladiatori di Bleso, alcuni i suoi schiavi, altri si sparsero alla ricerca del cadavere. E se ben presto non si fosse visto che non si trovava nessun cadavere e gli schiavi, sottoposti a tortura, non avessero dichiarato che non c’era stata alcuna uccisione e che quello non aveva mai avuto un fratello, non sarebbero andati molto lontano dall’assassinare il comandante. Comunque, espulsero i tribuni e il Prefetto dell’accampamento e distrussero i loro bagagli mentre fuggivano e uccisero il centurione Lucilio, al quale i soldati per scherno avevano appioppato il soprannome: «Un’altra!», perché quando gli si spezzava una verga su la schiena d’un soldato subito a gran voce ne chiedeva un’altra e poi un’altra ancora. Gli altri centurioni si rifugiarono in nascondigli; fu trattenuto uno, Giulio Clemente, ritenuto atto a farsi latore delle richieste dei soldati per la sua prontezza. E già la legione ottava e la quindicesima si apprestavano a impugnare le armi, poiché quella chiedeva la morte d’un centurione di nome Sirpico, questa lo difendeva, fino a che intervennero i soldati della nona con preghiere e, con quelli che non li ascoltavano, con minacce.»

TACITO, ANNALI, I, 22-23

Le condizioni però migliorarono nel corso del tempo: Domiziano aggiunse una quarta rata al pagamento (prima fatto in tre rate annuali) di 75 denari, portandolo a 300 denari (1.200 sesterzi). A partire dall’epoca di Marco Aurelio fu istituita l’annona militare, prima in via provvisoria, poi definitiva da Settimio Severo. Grazie all’annona veniva requisito o acquistato a prezzo conveniente per lo stato l’occorrente per l’esercito, vettovagliamento e armi da fornire all’esercito, che quindi non se lo vedeva più sottratto dalla paga. Dall’età dei severi inoltre la paga fu aumentata da Settimio Severo e di un altro 50% da Caracalla; inoltre venne garantito il matrimonio durante il servizio (prima consentito praticamente solo ai senatori) e dato l’accesso al ceto equestre ai primipili. Dal III secolo inoltre saranno sempre più frequenti i donativi, una tantum, in oro, dati all’esercito, che arricchiranno la paga e forniranno spesso il pretesto per acclamare un nuovo imperatore (il quale era tenuto a donare oro quando scelto).

Episodi memorabili

Nei commentarii di Cesare appaiono spesso soldati, e in particolare centurioni, che si distinsero particolarmente ai suoi ordini. La devozione e l’attaccamento al comandante erano tali da spingerli ad atti di eroismo senza pari.

«C’erano in quella legione due centurioni, due uomini coraggiosissimi, che già si avviavano a raggiungere i gradi più alti, Tito Pullone e Lucio Voreno. Erano in continua competizione tra di loro, per chi dei due sarebbe stato anteposto all’altro, e ogni anno lottavano con accesa rivalità per far carriera. Mentre si combatteva con grande accanimento sulle fortificazioni, Pullone disse: «Che aspetti Voreno? Che promozione vuoi avere come premio per il tuo coraggio? Questa è la giornata che deciderà delle nostre controversie». Detto questo, esce allo scoperto e irrompe dove più fitto è lo schieramento nemico. Neppure Voreno, allora, resta al coperto ma, temendo il giudizio degli altri, lo segue. Quasi addosso al nemico, Pullone lancia il giavellotto e trapassa uno dei loro che, staccatosi dal gruppo, correva ad affrontarlo. I nemici lo soccorrono esanime, proteggendolo con gli scudi, mentre tutti lanciano frecce contro di lui, bloccandolo. Un’asta trapassa lo scudo di Pullone e si conficca nel balteo, spostando il fodero della spada e, mentre egli si trova impacciato e perde tempo nel tentativo di estrarre l’arma, viene circondato dai nemici. Il suo avversario, Voreno, si precipita a soccorrerlo nella difficile situazione. Tutta la massa dei nemici si volge allora contro Voreno, ritenendo l’altro trafitto dall’asta. Voreno si batte corpo a corpo con la spada e, ucciso un nemico, respinge gli altri di poco, ma mentre incalza con foga, cade scivolando in una buca. Circondato a sua volta, viene aiutato da Pullone e ambedue, dopo aver ucciso molti nemici e acquistato grande onore, riparano incolumi all’interno delle fortificazioni. Così la fortuna volle, nella contesa e nel combattimento, che, sebbene avversari, si recassero reciproco aiuto e si salvassero l’un l’altro la vita, e non si potesse stabilire quale dei due fosse il più coraggioso.»

Cesare, De bello Gallico, V, 44

Emblematico è anche il caso del centurione Marco Cassio Sceva, che durante la battaglia di Durazzo tra cesariani e pompeiani si distinse. In un giorno, durante l’assedio, si svolsero sei scontri, che videro – secondo Cesare – 2.000 morti tra i pompeiani e solo 20 tra i cesariani; ma – aggiunge il comandante romano – i suoi furono tutti feriti e quattro centurioni dell’ottava coorte persero la vista:

«Così, in una sola giornata, si svolsero sei battaglie, tre presso Durazzo e tre presso le fortificazioni. Facendo un conto complessivo, calcolavamo a circa duemila uomini le perdite dei pompeiani, tra i quali molti richiamati e centurioni, e tra questi Valerio Fiacco, figlio di quel Lucio che era stato pretore in Asia; furono prese anche sei insegne militari. Le nostre perdite non ammontarono a più di venti uomini in tutti gli scontri. Ma non vi fu neppure un soldato, di quelli del fortino, che non riportasse delle ferite; quattro centurioni dell’ottava coorte persero la vista. Volendo presentare una prova della fatica e dei rischi che avevano corso, contarono davanti a Cesare circa tremila frecce scagliate contro il fortino e gli fu presentato lo scudo del centurione Sceva sul quale furono trovati centoventi fori. Cesare, per i meriti acquisiti verso di lui e la repubblica, gli fece un donativo di duecentomila sesterzi e lo promosse da centurione dell’ottava centuria a centurione primipilo – risultava infatti che in gran parte grazie al suo impegno il fortino si era salvato – premiò poi la coorte con doppia paga e una larga distribuzione di frumento, vesti, cibi e decorazioni militari.»

Cesare, De Bello Civili, III, 53

I cesariani furono costretti a ritirarsi da Durazzo, andando in Tessaglia, dove raccolsero alleati, tranne la città di Larissa in mano al pompeiano Quinto Cecilio Metello Pio Scipione Nasica, al comando delle truppe raccolte in oriente. Pompeo decise dunque di muoversi verso la Tessaglia, confidando di unire le forze e schiacciare Cesare, credendo impossibile per quest’ultimo una vittoria in inferiorità numerica così marcata. Giunto sul posto Pompeo si unì all’alleato, portando le sue forze a circa 45.000 uomini. Ormai certo della vittoria, iniziò una certa rilassatezza nel campo pompeiano, che sarà fatale. Infatti già cominciavano a spartirsi le cariche politiche per gli anni successivi nonostante la battaglia non fosse stata ancora combattuta. Lo scontro si sarebbe svolto nei pressi di Farsalo. Cesare narra di un curioso scambio di battute prima della battaglia con un suo centurione, Gaio Crastino:

«Mentre si accingeva a muovere l’esercito e a dare inizio all’azione, Cesare vide uno dei centurioni, uomo fidato ed esperto di guerra, incoraggiare i suoi soldati sfidandoli a gareggiare in valore. «O Gaio Crassinio», gli disse, chiamandolo per nome, «quali speranze abbiamo, e come stiamo a coraggio?». E lui, gridando e protendendo la destra: «Sarà una splendida vittoria, o Cesare. Quanto a me, oggi, o vivo o morto, mi ringrazierai!». Detto questo, per primo si slancia sul nemico, trascinandosi dietro nella corsa i suoi centoventi soldati. Travolti i primi della schiera vi penetra dentro aprendosi un varco con forza e con grande strage, finché non crolla infilzato dalla lama di una spada che gli attraversa la bocca spuntando fuori dalla nuca.»

PLUTARCO, VITE PARALLELE, CESARE, 44

«Nell’esercito di Cesare c’era un veterano richiamato, Crastino, che nell’anno precedente, sotto di lui, nella decima legione era stato primo centurione di legione, uomo di eccezionale valore. Appena dato il segnale, egli gridò: «O voi che foste soldati del mio manipolo, seguitemi e agite da valorosi, come avete promesso al vostro comandante. Ci rimane questa sola battaglia: se la vinciamo, egli riavrà la sua dignità e noi la nostra libertà». Nello stesso tempo, scorgendo Cesare, gli disse: «Oggi, o comandante, mi comporterò così che tu mi sia grato, o ch’io viva o ch’io muoia». Detto questo, si lanciò innanzi per primo dall’ala destra e circa centoventi soldati scelti, volontari, di quella centuria, lo seguirono.»

«Cadde anche da prode in combattimento Crastino, di cui sopra abbiam fatto menzione, trafitto da un colpo di spada sul viso. Non venne meno a ciò che aveva promesso, muovendo alla battaglia. Cesare infatti stimò e giudicò che il valore di Crastino in quel combattimento era stato eccezionale e che aveva ben diritto per i suoi meriti alla sua riconoscenza.»

CESARE, DE BELLO CIVILI, III, 91, 1-4 ; 99,2-4

Memorabile è anche il centurione di una coorte ausiliaria, tale Giuliano, che affrontò da solo un intero esercito durante l’assedio di Gerusalemme del 70 d.C.:

 «[Il centurione Giuliano] grande esperto nell’uso delle armi, con una prestanza fisica ed una forza d’animo superiore a tutti quelli che io conobbi nel corso di questa guerra, egli, vedendo che i Romani stavano ormai cedendo e opponevano una resistenza sempre più debole, trovandosi sull’Antonia al seguito di Tito, saltò giù e da solo respinse i Giudei che stavano avendo la meglio fino all’angolo del piazzale interno. Davanti a lui tutti scappavano, poiché appariva come un uomo di forza e coraggio superiori. Egli […] mentre i nemici fuggivano in ogni direzione, uccideva tutti quelli che raggiungeva, sotto lo sguardo ammirato di Tito Cesare e il terrore dei Giudei. […] Egli come gli altri soldati aveva i sandali con sotto numerosi chiodi e, mentre correva, scivolò sul pavimento e cadde con un gran rumore dell’armatura, tanto che gli avversari ormai in fuga, si voltarono indietro a guardare. Si alzò dall’Antonia un urlo dei Romani, in ansia per la sua sorte, mentre i Giudei lo circondarono e lo colpirono da ogni parte con lance e spade. [Giuliano] riuscì a ripararsi da molti colpi con lo scudo e più volte cercò di rimettersi in piedi, ma non vi riuscì poiché gli assalitori erano troppo numerosi, e pur rimandendo disteso riuscì a ferirne molti con la sua spada. Ci volle non poco tempo per ucciderlo, poiché aveva tutti i punti vitali difesi da elmo, corazza e teneva il collo incassato fra le spalle. Alla fine con tutte le membra amputate, e senza che nessun [romano] provasse ad aiutarlo, morì. »

GIUSEPPE FLAVIO, LA GUERRA GIUDAICA, VI, 1.8.83-88

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Il centurione – il nerbo dell’esercito romano
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