Nel 21 d.C. i legionari romani si trovarono ad affrontare dei ribelli gallici guidati da Giulio Floro e Sacroviro ad Augustodunum (Autun). Tra loro moltissimi erano male armati, ma c’erano anche dei gladiatori completamente corazzati, dalla testa ai piedi, i crupellari: «Vi aggregarono gli schiavi destinati al mestiere di gladiatore, che avevano, secondo la pratica di quella gente, un’armatura completa: li chiamano «Crupellarii», poco adatti a menar colpi, ma impenetrabili a quelli degli avversari.[…] Un po’ di resistenza opposero gli uomini catafratti di ferro, poiché le corazze reggevano ai colpi di lancia e di spada; ma i soldati, impugnati scuri e picconi, come per sfondare una muraglia, facevano a pezzi armature e corpi; alcuni con pertiche e forche abbattevano quelle masse inerti che, prostrate a terra, incapaci d’un minimo sforzo per rialzarsi, erano abbandonate lì come morte.» (Tacito, Annali, III, 43-46)

I gladiatori

L’amore dei romani per i gladiatori (il cui nome deriva dalla parola gladius, la spada romana: “portatori di gladio”) divenne viscerale fin dal II secolo a.C., tanto che il poeta Terenzio nel 160 a.C. si vide il pubblico abbandonare la sua commedia Hecyra (“La Suocera”) perché si era sparsa la voce che nei pressi si teneva uno scontro di gladiatori. L’importanza di questi “giochi” (munera) è testimoniata anche dalle molte testimonianze di autori contemporanei nel corso dei secoli, come Cicerone, Orazio, Tito Livio, Seneca, Marziale, Tertulliano e Agostino d’Ippona, a denotare la trasversalità e la continuità di questa usanza. Celebre è anche la ribellione del gladiatore Spartaco, che fu tra gli episodi più traumatici del I secolo a.C. per la repubblica romana e di sicuro la più grande rivolta schiavista di epoca romana.

Gli spettacoli si dividevano in ludi scaenici (teatrali) e ludi circenses (corse di carri), dedicati alle divinità, in date prestabilite; i giochi gladiatori invece erano munera, che in latino significa dovere: era uno spettacolo dovuto da un magistrato o da un privato (editor) al popolo e non in onore degli dei. I gladiatori, che erano schiavi (anche cittadini liberi si potevano dare per un certo periodo in schiavitù), prigionieri di guerra, condannati etc. si addestravano nelle scuole gladiatorie in tutto l’impero, gestite dai lanistae, la cui professione veniva considerata altamente infamante. Sotto Adriano si vietò anche di vendere schiavi a un lanista a meno che non si fossero macchiati di qualche reato.Questi munera, oltre a seguire regole ben precise (c’era sempre un arbitro – chiamato summa rudis e un assistente- a controllare che il combattimento fosse leale e nelle regole, pronto a dividere la coppia con un bastone, più o meno come accade oggi nel pugilato – paragone ancora più calzante se si considera che i gladiatori combattevano a petto nudo), erano regolamentati anche negli armamenti: gli abbinamenti tra armaturae erano sempre gli stessi.

Le quattro armaturae più diffuse erano: i secutores che affrontavano i reziari e i mirmilloni contro i traci. I reziari, i più particolari in assoluto, erano muniti di una rete e un tridente: se catturavano l’avversario questo non aveva scampo; d’altro canto i secutores erano molto mobili e potevano evitare facilmente la rete. I mirmilloni erano i più corazzati, con uno scudo rettangolare e un pesante elmo che però rendeva difficoltosa la vista; i traci avevano la tipica spada ricurva in punta. L’elmo del secutor era simile a quello del mirmillone, ma era sferico e liscio, per far scivolare la rete e non farla rimanere impigliata. C’erano anche altri tipi di gladiatori, meno diffusi ma non per questo meno particolari: l’oplomaco combatteva come un oplita greco, con scudo rotondo e lancia, e generalmente combatteva con il mirmillone. Il provocator aveva un equipaggiamento simile al mirmillone, ma aveva uno scudo più piccolo e una placca di protezione sul torace. C’erano poi i cavalieri (equites) e gli essedarii (soldati dal carro), ma entrambi combattevano a piedi: i primi con uno scudo tondo, elmo, un pugnale e una tunica (unici gladiatori ad averla); gli essedarii pugnale, scudo ovale ed elmo con paraguance. Provocator, equites e essedarii combattevano in modo simmetrico: sempre contro la loro stessa armatura. Infine faceva la sua comparsa nell’arena il bimachairos (o arbelas), che aveva un’arma offensiva per ogni mano e combatteva generalmente contro il reziario. In epoca repubblicana sono menzionati anche il sannita e il gallo, di cui però non si conosce con esattezza l’equipaggiamento. Gli abbinamenti potevano tuttavia variare: il mirmillone poteva anche combattere col secutor, ad esempio. La lunghezza e la grandezza dell’equipaggiamento inoltre non era standardizzata, come di norma nel mondo antico. Infine, era possibile che ci fossero dei gladiatori scaeva, ossia mancini (cosa impossibile nell’esercito), particolarmente apprezzati da Commodo.

La ribellione

Nel 21 d.C. in Gallia, sotto il principato di Tiberio, scoppiò una violenta sollevazione contro le tasse da pagare (l’imperatore era noto tra l’altro per la sua avarizia), sotto la guida dei romano-galli, di cittadinanza recente, Giulio Floro e Giulio Sacroviro (il nome Giulio indicava una cittadinanza acquisita ai tempi di Cesare o Augusto; infatti i loro antenati l’avevano ottenuta come premio per la fedeltà a Roma), il primo capo dei Treviri e il secondo degli Edui. Entrambi fomentavano il popolo gallico contro le tasse romane, la crudeltà del governo romano, facendo leva su un sentimento ricorrente nella storia romana e non. Inoltre, poiché era appena morto Germanico, molto amato in Gallia, esacerbavano ulteriormente i moti di rivolta ricordandone la grandezza. Propugnavano dunque di recuperare la libertà perduta: in poco tempo molti li seguirono nei moti di rivolta. I turoni furono sconfitti da una legione inviata da Visellio Varrone, legato della Germania inferiore; quest’ultimo insieme a Gaio Silio mise insieme un esercito e affrontò i rivoltosi ad Augustudunum (Autun). Silio spazzò via i ribelli, male armati. Tuttavia la sorte non fu felice con lui, poiché nel 24, rientrato a Roma, si suicidò dopo le accuse ricevute (e prima del processo) di essere stato un partigiano dei rivoltosi; infatti purtroppo era stato un partigiano dell’ormai caduto in disgrazia Germanico (sua moglie Sosia Gallia era stretta amica di Agrippina maggiore, moglie di Germanico). Sacroviro invece si suicidò:

“(21. d.C.) Quello stesso anno le città della Gallia, per l’entità dei debiti contratti, tentarono una rivolta, i cui promotori più indomiti furono Giulio Floro dei Treviri e Giulio Sacroviro degli Edui. Erano ambedue di nobile stirpe e per la fedeltà mostrata dai loro antenati dotati della cittadinanza romana, all’epoca in cui la si concedeva di rado e soltanto come premio al valore. In conciliaboli segreti, adunarono i più fieri o quelli che per povertà o per paura si trovavano nella situazione di dover delinquere; si accordarono di sollevare Floro i Belgi, Sacroviro i Galli più vicini. Sia per mezzo di incontri privati sia di adunanze, parlavano della necessità di ribellarsi per l’infierire delle imposte, l’alto prezzo dell’usura, la crudeltà e l’arroganza dei governatori; affermavano che tra le truppe, da quando avevano appreso la morte di Germanico, serpeggiava il malcontento; che era il momento opportuno per recuperare la libertà, se si considerava che il loro paese era florido mentre l’Italia era povera, imbelle la plebe dell’Urbe e solo valido nell’esercito il nerbo straniero. Quasi non vi fu città che rimanesse indenne da quei germi di rivolta; i primi a insorgere furono gli Andecavi, poi i Turoni, ma vennero domati dal legato Acilio Aviola, che fece venire una coorte da Lione, dove si trovava il presidio. I Turoni furono battuti da una legione mandata da Visellio Varrone, legato della Germania Inferiore, al comando dello stesso Aviola e di alcuni primati Galli, i quali prestarono aiuto al fine di nascondere la propria defezione e dichiararla in seguito. Persino Sacroviro si fece vedere a capo scoperto incitare a combattere a favore dei Romani, per dar prova, diceva, del suo valore. I prigionieri, però, riferirono che s’era esposto per farsi riconoscere e non esser colpito dai dardi. Tiberio, consultato su questo fatto, non si curò dell’accusa; e la sua indecisione alimentò la guerra. Frattanto Floro persisteva nei suoi progetti e incitava un’ala di cavalleria, formata di reclute arruolate a Treviri e addestrate secondo la nostra disciplina, a massacrare i mercanti romani e dar inizio alla guerra. Pochi cavalieri furono corrotti, la maggior parte però rimase al suo posto. La massa degli indebitati e dei clienti invece prese le armi e cercava di portarsi sulle alture chiamate Ardenne, quando le legioni appartenenti ai due eserciti, che Visellio e C. Silio avevano fatto avanzare da sentieri opposti, li fermarono. Quella moltitudine disordinata fu dispersa da Giulio Indo che fu mandato avanti con un corpo scelto; era della stessa città di Floro ma contrario a lui e per questo più bramoso di dimostrare le sue capacità. Floro sfuggì ai vincitori nascondendosi in luoghi segreti, ma quando s’accorse che i soldati erano appostati davanti a tutte le uscite, si uccise. E fu la fine della rivolta dei Treviri. La ribellione degli Edui fu più grave, poiché la popolazione era più ricca e il presidio in grado di soffocarla si trovava più lontano. Sacroviro aveva occupato la capitale Augustodunum con coorti armate, per aggregare i figli delle famiglie più nobili delle Gallie, che risiedevano nella città per compiere gli studi e per mezzo di essi, tenuti come ostaggi, assicurarsi l’appoggio dei genitori e dei parenti; subito distribuì ai giovani armi fabbricate segretamente. Erano quarantamila, la quinta parte dei quali armata come i nostri legionari, gli altri con spiedi e coltelli e con le frecce usate dai cacciatori. Si aggregarono a loro schiavi destinati a diventare gladiatori, tutti coperti di ferro, come usa da loro. Li chiamano grupellari e non sono molto abili nel colpire, ma invulnerabili ai colpi. Queste forze erano avvantaggiate dal consenso non ancora esplicito delle città vicine e dall’aperta simpatia dei singoli, nonché dalla discordia dei comandanti romani, tra i quali si disputava su chi avrebbe comandato le operazioni. Finì che Varrone, invalido per l’età, cedette il comando a Silio, che era nel fiore degli anni. A Roma intanto correva voce che non soltanto gli Edui e i Treviri ma sessantaquattro città galliche s’erano liberate, che avevano indotto i Germani a unirsi a loro, che le Spagne erano infide, tutte notizie che, come sempre avviene, venivano credute più gravi del vero. I migliori si affliggevano per amore della repubblica, molti invece per insofferenza del presente e desiderio di cambiamenti si rallegravano, anche se ne andava della loro sicurezza; e se la prendevano con Tiberio, il quale, in simili frangenti, consumava le sue energie a leggere le denunce degli accusatori. Che forse anche Sacroviro sarebbe stato denunciato al Senato per il reato di lesa maestà? esistevano finalmente uomini che sapevano fermare con le armi quelle lettere sanguinarie. Una pace così miserabile tanto valeva cambiarla, fosse pure con una guerra. Tiberio con tanto maggiore impegno si mostrava imperturbabile, non cambiava la sua residenza né appariva preoccupato, e in quei giorni si comportò come il solito o per grandezza d’animo o perché era in possesso di notizie sicure che la situazione era tollerabile e meno grave di quanto si diceva. Intanto Silio mosse alla testa di due legioni, precedute da una schiera di ausiliari; devastò i villaggi dei Sequani, che si trovavano al confine ultimo del territorio, attigui agli Edui e loro alleati in armi. Poi si diresse su Augustodunum a marce rapide, con i signiferi in gara tra di loro; e anche i soldati semplici, frementi d’impazienza, rifiutavano il riposo consueto e le soste notturne: che guardassero in faccia i nemici e fossero visti da loro, era sufficiente per vincere. A dodici miglia dalla città, apparve con le sue truppe Sacroviro in campo aperto. Aveva collocato all’avanguardia gli uomini coperti di ferro, ai lati le coorti, alla retroguardia quelli semi inermi. Egli, in mezzo ai capi, avanzava su uno splendido cavallo, rammentava le antiche glorie dei Galli e tutte le sconfitte che avevano inflitte ai Romani; quanto sarebbe stata onorevole la libertà ai vincitori, e intollerabile ai vinti subire per la seconda volta la schiavitù. Ma non parlò a lungo né a uomini di buon animo; poiché si avvicinavano le legioni in formazione di battaglia e quei cittadini raccogliticci, inesperti di guerra, non avevano più né occhi per guardare né orecchie per ascoltare. Silio al contrario, benché la speranza che si era ripromessa lo dispensasse dall’incitare i suoi, tuttavia andava gridando che era vergognoso per loro, che avevano sconfitto i Germani, marciare ora contro i Galli come se si fosse trattato di veri nemici. Recentemente una sola coorte è stata sufficiente per vincere i ribelli Turoni, un’ala per i Treviri, e poche squadre di questo stesso esercito hanno sbaragliato i Sequani. Ora sconfiggete gli Edui, quanto più ricchi e avvezzi a gozzovigliare, tanto più imbelli, e risparmiate quelli che scappano. A queste parole si levò un grido altissimo, la cavalleria accerchiò il nemico, la fanteria lo aggredì frontalmente e ai fianchi non vi fu resistenza. Gli uomini vestiti di ferro procurarono qualche indugio, perché coperti di lastre resistevano alle aste e alle spade; ma i soldati impugnarono scuri e picconi, quasi dovessero abbattere un muro e così spaccarono corazze e corpi, altri con pertiche e forconi gettavano a terra quelle moli inerti; e li lasciavano lì distesi, come cadaveri, senza che facessero il minimo sforzo per alzarsi. Sacroviro prima si rifugiò ad Augustodunum, poi, temendo la resa della città, si diresse verso una fattoria non lontana, con pochi fedelissimi. Qui si tolse la vita e gli altri si uccisero a vicenda; la casa, incendiata dal tetto, fu il loro rogo. Allora finalmente Tiberio comunicò al Senato per lettera che la guerra era incominciata e conclusa. Non tolse né aggiunse nulla alla verità, ma disse che la vittoria si doveva al merito dei legati, fedeli e valorosi, e alle sue direttive. Spiegò poi per quale ragione non si erano recati sul posto delle operazioni né lui né Druso; magnificò la grandezza dell’impero, tale che non sarebbe stato dignitoso per i principi partire per la sollevazione di uno o due popoli e lasciare la città dalla quale si dipartiva il governo del mondo. Ora che non si poteva attribuire a paura, sarebbe partito per controllare personalmente la situazione e ristabilire l’ordine. I senatori decretarono voti per il suo ritorno, rendimenti di grazie ed altre cerimonie. Solo Cornelio Dolabella, per superare gli altri, si spinse a un’adulazione forsennata: propose che, al ritorno di Tiberio dalla Campania, fosse accolto con l’ovazione. Arrivò subito una seconda lettera di Cesare nella quale dichiarava che, dopo aver soggiogato in gioventù genti ferocissime e aver accettato e rifiutato tanti trionfi, non si riteneva così sprovvisto di gloria da aver bisogno, ora che era vecchio, del futile premio d’una passeggiata nei dintorni di Roma.”

tacito, annali, iii, 40-47

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