In seguito alla cacciata di Tarquinio il Superbo i romani istituirono la res publica e sostituirono il re (declassato nelle sue funzioni al rex sacrorum e al pontefice massimo, dotati del solo potere religioso) con i consoli, eletti in numero di due annualmente. Questi inizialmente erano scelti tra i soli patrizi, ma dopo un’incessante lotta fu concesso il posto anche ai plebei. Nel V secolo a.C. per permettere a quest’ultimi di avere il comando in alcuni casi non si eleggevano due consoli ma sei tribuni militum consulari potestate, finché nel 367 a.C. le leges Liciniae Sextiae concessero il consolato ai plebei e diedero una prima fine alla lotta degli ordini. Nel 287 a.C. la lex Valeria Horatia diede infine parità di validità ai plebisciti e ai senatoconsulti. Nel frattempo però situazioni particolarmente drammatiche, o l’impossibilità di eleggere consoli, aveva fatto sì che fosse delineata una figura straordinaria, dotata di tutti i poteri regi, ma in carica per soli sei mesi: il dictator, ossia il dittatore (letteralmente “colui che comanda”).


Marco Furio Camillo

Nel 396 venne eletto dittatore Furio Camillo dopo che i tribuni consolari Lucio Titinio Pansa Sacco e Gneo Genucio Augurino caddero in un’imboscata di falisci e capenati, che uccisero il secondo. Furio decise di nominare suo magister equitum Publio Cornelio Maluginense. Dopo aver rimesso in ordine la situazione, reclutando nuovi soldati e sconfiggendo falisci e capenati, riprese l’assedio di Veio.

«Una folla immensa si riversò nell’accampamento. Allora il dittatore, dopo aver preso gli auspici, si fece avanti e, dopo aver detto ai soldati di armarsi, disse: “O pitico Apollo, sotto la tua guida e per tua divina inspirazione mi avvio a distruggere la città di Veio e a te offro in voto la decima parte del bottino che ne si ricaverà. Nello stesso tempo supplico te, Giunone Regina che ora risiedi a Veio, di seguire le nostre armi vittoriose nella nostra città di Roma, tua dimora futura, la quale ti riceverà in un tempo degno della tua grandezza”»

TITO LIVIO, AB URBE CONDITA, V, 2, 21

Nel 391 l’ex dittatore, per motivi non del tutto chiari, forse legati alla spartizione del bottino, si ritirò in esilio volontario ad Ardea. Fu proprio allora che i galli di Brenno attaccarono Chiusi e i romani decisero di portare loro aiuto:

«Dal Senato fu inviato in qualità di dittatore contro i Veienti, che dopo vent’anni si erano ribellati, Furio Camillo. Egli li vinse prima in battaglia, quindi conquistò anche la loro città. Presa Veio, vinse anche i Falisci, popolo non meno nobile. Ma contro Camillo sorse un’aspra invidia, con il pretesto di un’ingiusta divisione del bottino, e per tale motivo fu condannato ed espulso dalla città. Subito i Galli Senoni calarono su Roma e, sconfitto l’esercito romano a dieci miglia dall’Urbe, presso il fiume Allia, lo inseguirono e occuparono anche la città. Nulla poté essere difeso tranne il colle Campidoglio; e dopo averlo a lungo assediato, mentre ormai i Romani soffrivano la fame, in cambio di oro i Galli levarono l’assedio e si ritrassero. Ma Camillo, che viveva da esiliato in una città vicina, portò il suo aiuto e sconfisse duramente i Galli. Ma non solo: Camillo inseguendoli ne fece tale strage che recuperò sia l’oro ch’era stato loro consegnato, sia tutte le insegne militari da essi conquistate. Così riportando il trionfo per la terza volta entrò in Roma e venne chiamato “secondo Romolo” come fosse egli stesso fondatore della patria.»

EUTROPIO, BREVIARIUM AB URBE CONDITA LIB. I,20

La situazione di Roma era disperata: i galli avevano preso la città dopo la sconfitta dell’Allia e i sopravvissuti si erano rinchiusi nel Campidoglio.

“All’unanimità si deliberò di richiamare Camillo da Ardea, ma non senza prima aver consultato il senato, che era in Roma: a tal punto imperava il rispetto delle leggi, e anche in quella situazione quasi disperata osservavano la distinzione dei poteri. Bisognava passare con grande rischio in mezzo alle sentinelle nemiche; per questa impresa si offerse Ponzio Cominio, giovane animoso, il quale disteso sopra un sughero si lasciò trasportare dalla corrente del Tevere verso Roma. Quindi, nel punto dove il cammino dalla riva era più breve, salì sul Campidoglio per rupi scoscese, trascurate perciò dalla vigilanza dei nemici, e condotto davanti ai magistrati espose la missione affidatagli dall’esercito. Ricevuto il decreto del senato, il quale ordinava che richiamato dall’esilio per ordine del popolo Camillo fosse proclamato sùbito dittatore nei comizi curiati, e che i soldati avessero il comandante che preferivano, il messaggero uscito per la stessa via ritornò a Veio, e di qui fu mandata ad Ardea presso Camillo un’ambasceria che lo condusse a Veio, oppure, secondo un’altra versione che io preferisco seguire, egli non si mosse da Ardea prima di aver appreso che era stata approvata la legge, poiché né poteva mutare territorio senza ordine del popolo, né poteva avere gli auspici nell’esercito senza la nomina a dittatore: fu approvata la legge nei comizi curiati e fu nominato dittatore in sua assenza.”

TITO LIVIO, AB URBE CONDITA, V, 46, 7-11
Brenno

I galli tentarono un nuovo assalto, uccidendo le sentinelle, ma i romani, grazie alle oche sacre a Giunone avrebbero scoperto il piano dei galli prima che potessero prendere il Campidoglio, riuscendo a respingerli nuovamente. La fame tuttavia attanagliava ormai sia i romani che i galli; quest’ultimi decisero di intavolare delle trattative per togliere l’assedio, e i romani acconsentirono a versare un tributo di mille libbre d’oro. Ma pare che i galli portarono dei pesi falsi; i romani se ne accorsero, al che il capo gallico avrebbe anche aggiunto la sua spada alla bilancia e esclamato: “vae victis“. “Guai ai vinti”:

“Allora si riunì il senato, il quale diede incarico ai tribuni militari di patteggiare le condizioni. Le trattative si conclusero in un colloquio fra il tribuno militare Quinto Sulpicio e il capo dei Galli Brenno: a mille libbre d’oro fu fissato il prezzo del popolo che ben presto avrebbe dominato su tutte le genti. Alla cosa già in se stessa vergognosissima si aggiunse un iniquo oltraggio: i Galli portarono dei pesi falsi, e alle proteste del tribuno il Gallo insolente aggiunse sulla bilancia la spada, pronunziando una frase intollerabile per i Romani: «Guai ai vinti».”

TITO LIVIO, AB URBE CONDITA, V, 48, 8-9

Ma proprio in quel momento sarebbe arrivato Marco Furio Camillo, che avrebbe bloccato lo scambio, pronunciando un’altra frase celebre: “non auro sed ferro patria recuperanda est” (“non con l’oro, ma col ferro si deve salvare la patria”):

“Ma gli dèi e gli uomini non vollero che i Romani sopravvivessero riscattati. Infatti la sorte volle che prima che fosse compiuto il vergognoso mercato, mentre ancora si discuteva, non essendo stato pesato tutto l’oro, sopraggiungesse il dittatore: sùbito ordinò che fosse tolto di mezzo l’oro e che i Galli fossero allontanati. Poiché quelli si rifiutavano dicendo che il patto era già stato concluso, egli negò che fosse valido quell’accordo stretto senza sua autorizzazione da un magistrato inferiore in grado, dopo che egli già era stato nominato dittatore, ed intimò ai Galli di prepararsi a combattere. Diede ordine ai suoi di deporre i bagagli, di preparare le armi e di riconquistare la patria col ferro, non con l’oro, avendo davanti agli occhi i templi degli dèi, le mogli, i figli, il suolo della patria deturpato dai mali della guerra, e tutte le cose che era sacro dovere difendere e riprendere e vendicare. Schierò poi l’esercito come lo permetteva la natura del luogo, sul suolo della città semidistrutta, e già di sua natura accidentato, e prese tutte quelle misure che l’arte militare poteva escogitare e preparare per avvantaggiare i suoi. I Galli sorpresi dal repentino mutamento della situazione prendono le armi, e si gettano contro i Romani più con ira che con prudenza. Già la fortuna era cambiata, già la protezione degli dèi e l’intelligenza umana appoggiavano le sorti dei Romani; quindi al primo scontro i Galli furono disfatti con la stessa facilità con cui avevano vinto presso l’Allia. Furono poi vinti, sempre sotto la guida e gli auspici di Camillo, in una seconda battaglia più regolare, a otto miglia da Roma sulla via di Gabi, dove si erano raccolti dopo la fuga. Qui la strage fu generale: furono presi gli accampamenti, e non sopravvisse neppure uno che potesse recare la notizia della disfatta. Il dittatore ritolta la patria ai nemici tornò trionfando in città, e fra i rozzi canti scherzosi, che i soldati sogliono improvvisare in tali occasioni, fu chiamato Romolo, padre della patria e secondo fondatore di Roma, con lodi non immeritate. Dopo aver salvata la patria in guerra la salvò poi sicuramente una seconda volta in pace, quando impedì che si emigrasse a Veio, mentre i tribuni avevano ripreso con maggior accanimento la loro proposta dopo l’incendio della città, ed anche la plebe era di per sé più incline a quell’idea. Questa fu la causa per cui non abdicò alla dittatura dopo il trionfo, poiché il senato lo scongiurava di non abbandonare la repubblica in un momento difficile.”

TITO LIVIO, AB URBE CONDITA, V, 49, 1- 9

Cacciati i galli da Roma, restava il problema di come ricostruire la città; mentre si discuteva se spostarsi a Veio, appena finito il discorso in senato di Camillo, che voleva rimanere a Roma, un centurione di passaggio al di fuori della curia avrebbe fatto piantare le insegne urlando “hic manebimus optime” (qui rimarremo ottimamente). Il gesto fu interpretato come di buon auspicio dai senatori, che decisero di ricostruire Roma:

“Ma a togliere ogni incertezza sopraggiunse una frase pronunziata proprio a tempo: mentre poco dopo il discorso di Camillo il senato era riunito nella curia Ostilia per discutere della questione, e delle coorti inquadrate ritornando dai presidii per caso attraversavano il foro, un centurione nella piazza del Comizio esclamò: «O alfiere, pianta l’insegna, qui rimarremo felicemente». Udita quella voce il senato uscito dalla curia gridò che accoglieva quello come un augurio, e la plebe accorsa intorno approvò. Respinta quindi la proposta di legge si cominciò a ricostruire la città disordinatamente. Le tegole furono fornite a spese dello stato, e fu dato il permesso di prendere le pietre e il legname di costruzione dove ciascuno volesse, dietro garanzia di condurre a termine gli edifici entro l’anno. Nella fretta non si presero cura di tracciare vie diritte, e senza distinzione di proprietà si edificava sul terreno trovato libero. Questo è il motivo per cui le vecchie cloache, che prima passavano sotto il suolo pubblico, ora in molti punti passano sotto case private, e inoltre la topografia della città fa pensare che il suolo cittadino sia stato occupato a caso e non distribuito secondo un piano.”

TITO LIVIO, AB URBE CONDITA , V, 55, 1- 5

Cincinnato

Lucio Quinzio Cincinnato (“il riccioluto”) nacque attorno al 520 a.C.; il primo a ricoprire il consolato fu il fratello Tito Quinzio Barbato nel 471, 468 e 465. Cincinnato divenne console nel 460 per la prima volta come consul suffectus (sostituto di Publio Valerio Publicola, morto durante gli scontri con Appio Erdonio), nonostante i timori dei plebei. Infatti il figlio di Cincinnato, Cesone Quinzio, era stato allontanato da Roma da poco. Quest’ultimo si era fatto promotore della parte dei patrizi nella lotta contro i plebei e aveva una tale presenza fisica da far fuggire tutti; finché non venne accusato di omicidio negli scontri che seguirono e, dopo il processo, allontanato da Roma. Cincinnato era dunque in aperto scontro con i tribuni della plebe per la sorte del figlio quando venne eletto. Decise subito di arruolare l’esercito per fare la guerra a equi e volsci, ma i tribuni si opposero. Il console rispose:

«Ma noi non abbiamo bisogno di alcuna leva perché quando Publio Valerio diede le armi alla plebe per riconquistare il Campidoglio, tutti hanno giurato di radunarsi agli ordini del console e di non sciogliersi mai senza suo ordine. Quindi ecco il nostro editto: voi che avete giurato, dovete trovarvi domani presso il lago Regillo.»

TITO LIVIO, AUC, III, 20

I cittadini, costretti a votare nei comizi sotto giuramento militare, non avrebbero dunque potuto opporsi al volere di Cincinnato e votare la lex Terentilia, che voleva limitare i poteri dei consoli. Il console comunque non pose veti e si rimise al senato che deliberò, nel suo interesse, che la legge non doveva essere votata, ma che l’esercito non doveva essere convocato. I consoli non si ripresentarono per le elezioni successive ma i tribuni lo fecero, scatenando l’ira dei patrizi, che volevano rieleggere Cincinnato, il quale rifiutò. Vennero eletti consoli Quinto Fabio Vibulano per la terza volta e Lucio Cornelio Maluginense.

Nel 458 a.C. il console Lucio Minucio Esqulino Augurino era rimasto assediato nel suo accampamento durante la guerra contro gli equi, mentre l’altro console Gaio Nauzio Rutilo, che combatteva i sabini, non poteva portargli aiuto. Fu allora che si decise di eleggere Cincinnato come dittatore, mentre si trovava ai Prata Quinctia a coltivare personalmente la terra.

«Durante il seguente anno, a causa del blocco di un esercito romano sul monte Algido a circa dodici miglia dalla città, Lucio Quinzio Cincinnato, che possedeva soltanto quattro acri di terra e lo coltivava con le proprie mani, venne nominato dittatore. Egli trovandosi al lavoro impegnato nell’aratura, si deterse il sudore, indossò la toga praetexta, accettò la carica, sconfisse i nemici e liberò l’esercito.»

EUTROPIO, BREVIARIUM AB URBE CONDITA LIB. I,17

Il dittatore radunò l’esercito e riuscì ad arrivare in soccorso ad Augurino. Romani ed equi si combatterono alla battaglia del Monte Algido, che vide la vittoria dei romani. Cincinnato distribuì il bottino e le punizioni ai soldati, mentre Lucio Minucio, che aveva ricevuto una corona d’oro, deponeva la carica di console e rimase sotto al comando del dittatore. Il quale, celebrato il trionfo, dopo soli sedici giorni, depose la dittatura nonostante durasse sei mesi. Cincinnato tornò dunque a coltivare la sua terra.

Tra il 451 a.C. e il 449 a.C. vennero redatte le dodici Tavole: in quell’occasione il decemviro Appio Claudio ostacolò apertamente l’elezione di Cincinnato per il 450. Nel 445, dopo l’approvazione della lex Canuleia, che abrogava l’impedimento di matrimonio tra patrizi e plebei approvato dalle XII tavole. Fu allora che Gaio Claudio, zio di Appio, tentò di eliminare i tribuni della plebe: Tito Quinzio Capitolino Barbato e Cincinnato si opposero.

Nel 439 su indicazione di Barbato, console per la sesta volta, Cincinnato venne eletto dittatore per la seconda volta. Spurio Melio aveva infatti cercato di farsi nominare rex; Cincinnato scelse come magister equitum Gaio Servilio Strutto Ahala

Quinto Fabio Massimo il temporeggiatore

La carriera politica del Verrucoso, il cui soprannome era dato da una verruca sul labbro superiore, iniziò a decollare nel 233 a.C. quando trionfò sui liguri e dedicò un tempio ad Onore e Virtù. Plutarco narra che Fabio fosse di temperamento mite e lento nel parlare e in genere dal carattere forte e deciso. Nel 265 a.C. era stato augure, ma non è chiaro il ruolo svolto durante la prima guerra punica. Probabilmente era stato questore nel 237 o 236 e edile curule attorno al 235, per raggiungere il consolato nel 233. Nel 230 a.C. ottenne infine la censura e un secondo consolato nel 228 a.C. Probabilmente in quel periodo (attorno al 221) ottenne la prima dittatura poiché Livio narra che quella del 217 fu la seconda (considerando un buco nei fasti consolari per quella data e l’assenza di quella parte di Livio).

Dopo l’arrivo in Italia di Annibale e la sconfitta del Trasimeno nel 217 a.C., in quello stesso anno Massimo venne nominato dittatore. La sua scelta, a differenza dei predecessori, fu di attendere ed evitare lo scontro diretto, dove Annibale sembrava invincibile, lasciandolo libero di scorrazzare ma seguendolo sempre da vicino e stando pronto a fare piccole sortite, ma ponendo il campo in zone rialzate e impervie dove la cavalleria numida non avrebbe potuto dispiegare la sua forza. Nonostante l’opposizione la tattica si rivelò vincente e si guadagnò il sopranome di cuntactor (dice Ennio che qui cunctando restituit rem, “temporeggiando ripristinò lo stato), ossia “temporeggiatore“:

«Fabio aveva deciso di non esporsi al rischio e di non venire a battaglia [con Annibale]. […] Inizialmente tutti lo consideravano un incapace, e che non aveva per nulla coraggio […] ma col tempo costrinse tutti a dargli ragione e ad ammettere che nessuno sarebbe stato in grado di affrontare quel momento delicato in modo più avveduto e intelligente. Poi i fatti gli diedero ragione della sua tattica.»

POLIBIO, STORIE, III, 89, 3-4

Tuttavia le critiche verso la sua strategia restavano forti e il magister equitum Marco Minucio Rufo, alla guida dei suoi detrattori, cercarono nuovamente di tornare ad affrontare Annibale, mentre il tribuno della plebe Marco Metilio presentava una legge per dividere in parti uguali il potere tra il dittatore e il suo vice, come se fossero stati due consoli. La legge fu comunque accettata e votata dai comizi e ratificata dal senato (si ebbero così due dittatori), ma quando Rufo fu quasi ucciso da Annibale e il suo esercito in forte pericolo vennero salvati dall’intervento risolutivo di Massimo, l’ex magister equitum lasciò la sua carica lasciando di nuovo la dittatura a Fabio, che però la rimise al termine dei sei mesi di mandato. Dei due consoli che seguirono, Lucio Emilio Paolo seguì i suoi insegnamenti, mentre Gaio Terenzio Varrone, più avventato, guidò i romani nel disastro di Canne del 216 a.C.

Dopo quest’ultima battaglia Fabio venne nominato pontefice (insieme a Quinto Cecilio Metello e Quinto Fulvio Flacco) e nel 215 consul suffectus, ossia sostituto, dopo la rinuncia di Marco Claudio Marcello. Fabio e l’altro console Tiberio Sempronio Gracco si divisero l’esercito: il temporeggiatore iniziò l’assedio di Capua dove Annibale, dopo aver preso la città, si dedicava ai famosi ozi.Nel 210 a.C., dopo una lunga diatriba tra il dittatore Quinto Fulvio Flacco e i tribuni della plebe sull’eleggibilità di quest’ultimo a console, il senato si risolse a prendere l’iniziativa e diede il via libera: fu così eletto console Flacco per la quarta volta insieme a Fabio Massimo per la quinta.

A quest’ultimo, nominato anche princeps senatus, fu affidata la guerra contro Taranto e a Flacco la Lucania e il Bruzzio. Taranto venne riconquistata, sebbene la cittadella non fosse mai caduta, tanto che il governatore Marco Livio Macato vantava anni dopo la vittoria. Fabio avrebbe risposto : “tu non l’hai mai persa, io non l’ho mai riconquistata” (Plutarco, Fabio Massimo, 23). Tutte le statue degli dei furono lasciate a Taranto tranne una statua di Ercole, antenato della gens Fabia, che venne posta in Campidoglio. Negli ultimi anni di guerra Fabio non svolse più incarichi importanti, essendo ormai anziano e messo in secondo piano dalla figura di Scipione. Morì nel 203 a.C., poco prima della vittoria di Zama e la fine delle ostilità.

Silla

Alla morte di Cinna, nell’84 a.C., Silla rientrò a Roma, ottenendo anche l’appoggio di Gneo Pompeo, figlio di Strabone, che aveva guidato gli eserciti romani durante la fase finale della guerra sociale. Nel novembre dell’82 a.C. Silla entrò a Roma dopo aver sconfitto i populares (appoggiati dai sanniti) a Porta Collina. Morti entrambi i consoli, Silla venne eletto dittatore a tempo indeterminato dai comizi centuriati grazie alla lex Valeria de Sulla dictatore.

Silla possedeva poteri straordinari, compreso il diritto di condannare a morte, presentare leggi, scegliere i magistrati, effettuare confische, fondare città e colonie. Forte della sua posizione Silla decise di riformare la repubblica. Prima di tutto emanò delle liste di proscrizione, mettendo a morte gli oppositori politici; tra loro rischiò anche di finire Cesare (sua zia era moglie di Mario), che riuscì a fuggire in oriente. In sostanza Silla decise di intraprendere una politica di restaurazione del senato a scapito dei cavalieri e dei populares.

Il senato venne portato a 600 membri, mentre veniva fissato il cursus honorum: la questura portava automaticamente alla cooptazione nell’assemblea. Seguiva l’edilità o il tribunato della plebe, la pretura e il consolato. Al senato venne anche restituito il controllo dei processi (quindi nel caso di malversazioni i senatori si giudicavano tra di loro), dato dai Gracchi ai cavalieri. Silla venne rieletto console nell’80 a.C., ma proprio quando era all’apice della carriera politica, nel 79 a.C., decise di abbandonare il potere e ritirarsi a vita privata, morendo nel 78 a.C.

Cesare

Nel gennaio del 49 a.C. varcò il Rubicone, che delimitava il pomerium (il confine invalicabile in armi). Il senato, senza legioni da opporre nell’immediato a Cesare, fuggì in Grecia guidato da Pompeo.Lo scontro finale avvenne a Farsalo nel 48 a.C.: Cesare sconfisse Pompeo e perdonò molti pompeiani (tra i quali diversi parteciparono al suo omicidio). Pompeo, fuggito presso la corte tolemaica, venne assassinato a tradimento per compiacere Cesare. Nel soggiorno Alessandrino Cesare fece la conoscenza di Cleopatra e i due ebbero un figlio, Cesarione. I successivi due anni portarono alla fine dei focolai di ribellione; nel 47 a.C. aveva stroncato la ribellione di Farnace, re del Ponto, in pochi giorni, tanto da coniare la celebre frase “veni vidi vici” (venni, vidi, vinsi). Nel 45 a.C., a Munda, in Spagna, sconfisse il traditore Tito Labieno: Cesare aveva in mano la repubblica.

Le idi di marzo

Nel frattempo Cesare era diventato dittatore, e fu console ininterrottamente dal 46 al 44 a.C., l’ultimo con collega Marco Antonio. Il 14 febbraio fu nominato dittatore a vita (prima era decennale) e il 15, durante la festa dei lupercali, rifiutò la corona offertagli tre volte, l’ultima da Marco Antonio. Tra molti senatori si credeva ormai che fosse questione di tempo prima che Cesare diventasse re. Gaio Cassio Longino convinse Marco Giunio Bruto (discendente di Lucio, che aveva cacciato Tarquinio il Superbo) a prendere parte a una congiura per assassinare il dittatore.

Nonostante i cattivi presagi (scie di fuoco nel cielo, sacrifici dagli esiti negativi, la moglie Calpurnia che sognò la notte precedente la morte del marito), Cesare la mattina del 15 marzo 44 a.C. si recò comunque in senato, nonostante le titubanze, grazie alle pressioni del congiurato Decimo Bruto. La notte prima, del tutto casualmente, durante una cena con Marco Emilio Lepido, Cesare -interpellato sulla questione- aveva detto di preferire una morte improvvisa a qualunque altra.

Molti dei congiurati erano stati compagni di Cesare in guerra o perdonati da lui stesso dopo Farsalo. Avvicinato da un aruspice, Spurinna, che gli aveva detto di temere le idi di marzo, Cesare gli rispose che erano arrivate e non era successo nulla; Spurinna allora obiettò che non erano ancora passate.

Una persona a conoscenza dell’attentato gli passò anche un foglietto che svelava la congiura, ma Cesare, nella folla, non lo lesse. Gaio Trebonio trattenne fuori dalla curia Marco Antonio (console in carica insieme a Cesare); Bruto si era opposto alla sua uccisione, contrariamente a Cassio (Bruto pensava che morto Cesare si sarebbe ristabilito naturalmente l’ordine della repubblica).Entrato in senato, Cesare fu accerchiato dai congiurati. Il primo a colpire fu Publio Servilio Casca; Cesare afferrò il pugnale con le mani e tentò di difendersi, ma completamente accerchiato, fu colpito da 23 pugnalate.Si narra che alla vista di Bruto, ultimo a colpire, abbia pronunciato in greco “Kai su teknon?” (anche tu, figlio?). Cesare si coprì con la toga come poteva mentre cadeva esanime davanti la statua di Pompeo (per dei lavori nella curia il senato si riuniva nel tempio posto in cima al teatro di Pompeo).

Il principato

« Non accettai la dittatura, che sotto il consolato di Marco Marcello e Lucio Arrunzio mi era stata offerta, sia mentre ero assente sia mentre ero presente nell’Urbe, e dal popolo e dal senato. Non mi sottrassi invece, in una estrema carestia ad accettare la sovrintendenza dell’annona, che ressi in modo tale da liberare in pochi giorni dal timore e dal pericolo l’intera Urbe, a mie spese e con la mia solerzia. Anche il consolato, offertomi allora annuo e a vita, non accettai.» (Augusto, Res Gestae, 5)

Nel 27 a.C. (o secondo alcuni nel 23, quando ricevette la tribunicia potestasOttaviano riceveva il titolo onorifico di Augusto dal senato; aveva infatti rifiutato di reiterare ancora il consolato e aveva soppresso la dittatura. Sembrò pertanto una situazione di compromesso: formalmente la res publica restava in piedi, di fatto sotto la tutela del privato cittadino Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto, che aveva altresì l’imperium proconsulare maius et infinitum, ossia il comando supremo sull’esercito. La tribunicia potestas inoltre gli consentiva di essere inviolabile e di porre il veto su qualsiasi decisione del senato.

Perciò Augusto poteva bloccare qualunque decisione non gradisse, ma teoricamente non poteva forzare il senato o i comizi a fare delle scelte, se non tramite la sua influenza e autorità (o comunque spesso grazie al consolato e il titolo di princeps e imperator che deteneva – titoli che rappresenteranno il potere imperiale; si è a capo dello stato perché si è a capo dell’esercito in quanto imperator e a capo del senato in quanto princeps).

«Due volte pensò di restaurare la repubblica: una prima volta sùbito dopo aver fiaccato Antonio, ricordando che da questo gli era stato ripetutamente rinfacciato che dipendeva proprio da lui il fatto che essa non fosse restaurata; poi, di nuovo, perché stanco di una lunga malattia. In questa occasione, anzi, convocate le autorità e il Senato in casa sua, consegnò loro un rendiconto finanziario dell’impero. Ma, considerando che come privato cittadino egli sarebbe stato sempre in pericolo, e che era rischioso affidare lo Stato all’arbitrio di più persone, continuò a tenerlo in pugno lui. Non si sa se con migliore risultato o con migliore intenzione. Questa intenzione egli non solo la sbandierò di tanto in tanto, ma una volta giunse a proclamarla in un comunicato ufficiale: «Vorrei proprio che mi fosse possibile rimettere al suo posto sana ed indenne la repubblica, e godere il frutto che io cerco di questa restaurazione, di essere detto cioè fondatore di un ottimo Stato, e di portare con me, morendo, la speranza che rimangano salde le fondamenta dello Stato, quali io avrò gettato». Ed egli stesso fu realizzatore del suo voto, sforzandosi in ogni modo a che nessuno avesse a dolersi della nuova situazione. La città non era adorna in proporzione della sua maestà, ed era esposta a inondazioni e ad incendi: ebbene, egli la abbellì a tal punto che giustamente si potè gloriare di lasciarla di marmo, mentre l’aveva ricevuta di mattoni. E, per quanto una mente umana poteva prevedere, la rese sicura anche per l’avvenire.»

(Svetonio, Augusto, 28)

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