I romani distinguevano le loro attività tra doveri e piaceri: i primi facevano parte del negotium, i secondi dell’otium. Essenzialmente l’otium era il tempo dedicato alle attività ricreative, al dolce far niente, quanto ad attività più moralmente elevate, mentre il negotium era il dovere verso lo stato, la repubblica e le proprie attività. Era dunque una distinzione prettamente aristocratica in quanto le classi inferiori difficilmente potevano dedicare molto tempo all’otium. Quest’ultimo era anche ozio letterario, lettura, finalizzato alla ricerca di se stessi.

«O Meliboee, deus nobis haec otia fecit» («O Melibeo, quest’ozio è il dono di un dio»)

«Dagli uomini grandi ci si aspetta che sia grande non solo il loro modo di esercitare negotia, ma anche quello di comportarsi negli otia.»

Virgilio, bucoliche, I, v. 5; Cicerone, Pro Plancio, 27, 66

Quanto alla vita meditativa, la scuola stoica e l’epicurea la pensano in modo diametralmente opposto e tuttavia, seppure per strade diverse, conducono entrambe a quel fine. Epicuro dice: «Il saggio non partecipi alla vita pubblica, se non costretto da qualche accidente». Zenone, invece: «Il saggio partecipi alla vita pubblica, se non vi sia qualcosa che glielo impedisca». L’uno sostiene l’isolamento come principio, l’altro come evenienza. E questa evenienza può essere di varia natura: se lo Stato, ad esempio, è talmente corrotto da non esservi aiuto capace di sanarlo minimamente, o se è accecato da troppi mali: in questo caso è inutile che il saggio sacrifichi le proprie forze, quando sa che il suo impegno non porterà alcun giovamento alla cosa pubblica; così pure se non avrà prestigio o vigore sufficiente, se la politica stessa, per qualche sua ragione, lo respingerà, o se non glielo consentirà la sua salute, anche allora il sapiente avrà un motivo plausibile per tenersi lontano dalla vita attiva; allo stesso modo che non si mette in mare una nave sconquassata o non ci si arruola nell’esercito se non si è abili alla vita militare, così il saggio non si avvierà lungo una strada che già in partenza ritiene impraticabile, per uno come lui.

Seneca, de otio, 3

«Ma né il mio tempo libero né la mia solitudine sono da paragonarsi a quelli dell’Africano. Lui si prendeva ogni tanto del tempo libero per riposare dagli splendidi servigi prestati alla città, e lasciava talvolta la compagnia degli uomini per ritirarsi nella solitudine come in un porto; invece il mio tempo libero è nato non dal bisogno di riposo, ma dalla mancanza di impiego. Estinto il senato, distrutti i tribunali, che cosa mi resta da fare, che sia degno di me, nella curia o nel foro?3 (3) Io dunque, che vivevo un tempo nella più affollata compagnia e sotto gli occhi dei miei concittadini, ora, per sfuggire alla vista degli scellerati di cui tutto è pieno, mi nascondo per quanto posso, e spesso sono solo. Ma poiché dagli uomini dotti ho appreso, non solo a scegliere tra i mali il minore, ma anche a ricavare da essi quel tanto di bene che ci può essere, utilizzo anche questo riposo, benché non sia affatto quello che spetti a chi una volta diede riposo allo stato4, e non permetto che mi intorpidisca una solitudine prodotta dalla necessità e non dalla volontà. (4) Peraltro, maggiore è a mio parere il merito dell’Africano. Nessun documento del suo ingegno è stato affidato allo scritto, non abbiamo nessun prodotto del suo tempo libero, nessun’opera della sua solitudine: da ciò si capisce che egli continuò a trattare e investigare i problemi che erano oggetto delle sue meditazioni, e dunque non fu mai né ozioso né solo; io invece, che non ho altrettanta capacità di astrarmi dalla solitudine in un pensiero silenzioso, ho dedicato tutta la mia cura e la mia attenzione a questo lavoro di scrittura. Ho dunque scritto di più in questo breve tempo da che lo stato è crollato, che non nei molti anni in cui era in piedi.»

cicerone, de officiis, iii, 1-4

Storie Romane è totalmente gratuito. Nel caso volessi contribuire al progetto puoi donare qui:https://www.paypal.me/GConcilio


Ludi e Munera

La valle che si trovava ai piedi del Palatino, dove Romolo aveva fondato la città di Roma, era paludosa, ma molto ampia. Il primo recreò subito un asylum per accogliere gli stranieri. Infatti la città appena nata era formata da fuggitivi, schiavi liberati, contadini e pastori; un’estrazione tutt’altro che nobile. Poi si appellò ai popoli vicini per rinfoltire le sue schiere, tuttavia mancava ancora un elemento fondamentale: le donne. Perciò invitò i vicini sabini ad assistere ad una corsa di carri nell’area in cui sarebbe sorto il circo Massimo, una conca tra il Palatino e l’Aventino. Fu in quest’occasione che avvenne il ratto delle sabine.

La prima sistemazione della Valle Murcia (l’area compresa tra Palatino e Aventino in cui i romani avevano attirato i sabini) per corse dei carri risale all’epoca dei Tarquini, ma fu solo con Giulio Cesare che l’area ricevette un’adeguata sistemazione architettonica; fino ad allora infatti la struttura era stata principalmente in legno.

Il monumento fu poi restaurato da Augusto in seguito ad un incendio e vi aggiunse un obelisco di Ramses II preso in Egitto (poi spostato da papa Sisto V in piazza del Popolo nel XVI secolo, ora chiamato obelisco Flaminio). Successivamente l’imperatore Costanzo II vi aggiunse un secondo obelisco nel 357, portato durante i festeggiamenti dei suoi vicennalia a Roma, posto sulla spina. Oggi si trova dietro la basilica di San Giovanni in Laterano.

Lungo oltre 600 metri e largo 140, il Circo Massimo poteva ospitare forse 250.000 mila spettatori, circa un quarto o un quinto della popolazione di Roma al suo apice, nel II secolo d.C., ed era usato principalmente per le corse di quadrighe. Era collegato direttamente al palazzo imperiale sul Palatino con dei tunnel (in cui venne ucciso Caligola), perciò l’imperatore poteva accedervi senza uscire “di casa”. La facciata esterna era composta di tre ordini, quello inferiore di altezza doppia e ad arcate. La cavea poggiava su muratura, che ospitava passaggi e scale per raggiungere i sedili, ambienti di servizio e le botteghe (da cui partì l’incendio neroniano).

Le corse vedevano gareggiare dodici quadrighe (carri a quattro cavalli), con diverse squadre rappresentate da colori a competere (azzurri, verdi, rossi, bianchi), solitamente di sette giri, con sette delfini da cui sgorgava acqua e sette uova a scandire il compiersi dei giri. Lunga la spina c’erano anche vari tempietti ed edicole. Infine dodici carceres, ossia batterie di partenza, erano allineate obliquamente per garantire una partenza uniforme e possedevano un meccanismo che garantiva l’apertura simultanea.

«Costoro consacrano tutta la loro vita al vino, ai dadi, ai bordelli, ai piaceri ed agli spettacoli; per loro il Circo Massimo è il tempio, la casa, l’assemblea e la mèta dei loro desideri. È possibile vedere nei fori, nei trivi, nelle piazze e nei luoghi di riunione molti gruppi in preda a contrasti, poiché chi sostiene, come è naturale, una tesi, chi un’altra. Fra costoro quelli che son vissuti a lungo e godono di maggiore autorità grazie alla loro età, giurano per i loro capelli bianchi e le rughe che lo stato non potrà più sussistere se nella prossima gara non balzerà per primo fuori dai cancelli del circo quell’auriga che ognuno favorisce, e non riuscirà a correre rasente alla mèta con la coppia di cavalli di punta. In un simile marciume di negligenza, quando spunta il giorno desiderato dei giochi equestri ed il sole ancora non splende in tutta la sua luminosità, tutti in massa s’affrettano al circo correndo precipitosamente, tanto che superano in velocità i cocchi che scenderanno in gara. Moltissimi, in preda a conflitti interni sull’esito ed ansiosi per le loro speranze, trascorrono le notti vegliando.»

AMMIANO MARCELLINO, STORIE, 28, 4, 29-31

Gladiatori

L’origine della gladiatura viene fatta comunemente risalire al 264 a.C., anno di scoppio della prima guerra punica, per commemorare il defunto Decimo Bruto Pera. Nel corso del tempo i gladiatori sono stati spesso avvicinati agli etruschi, tuttavia sembrerebbe più plausibile un’influenza greca: già nell’Iliade Omero narra che Achille aveva organizzato dei giochi funebri per Patroclo; inoltre i più antichi anfiteatri sono situati nell’area campana, sottolineando la vicinanza più con il mondo greco e osco-sannita che quello etrusco.

L’amore dei romani per i gladiatori (il cui nome deriva dalla parola gladius, la spada romana: “portatori di gladio”) divenne viscerale fin dal II secolo a.C., tanto che il poeta Terenzio nel 160 a.C. si vide il pubblico abbandonare la sua commedia Hecyra (“La Suocera”) perché si era sparsa la voce che nei pressi si teneva uno scontro di gladiatori. L’importanza di questi “giochi” (munera) è testimoniata anche dalle molte testimonianze di autori contemporanei nel corso dei secoli, come Cicerone, Orazio, Tito Livio, Seneca, Marziale, Tertulliano e Agostino d’Ippona, a denotare la trasversalità e la continuità di questa usanza. Celebre è anche la ribellione del gladiatore Spartaco, che fu tra gli episodi più traumatici del I secolo a.C. per la repubblica romana e di sicuro la più grande rivolta schiavista di epoca romana.

Gli spettacoli si dividevano in ludi scaenici (teatrali) e ludi circenses (corse di carri), dedicati alle divinità, in date prestabilite; i giochi gladiatori invece erano munera, che in latino significa dovere: era uno spettacolo dovuto da un magistrato o da un privato (editor) al popolo e non in onore degli dei. I gladiatori, che erano schiavi (anche cittadini liberi si potevano dare per un certo periodo in schiavitù), prigionieri di guerra, condannati etc. si addestravano nelle scuole gladiatorie in tutto l’impero, gestite dai lanistae, la cui professione veniva considerata altamente infamante. Sotto Adriano si vietò anche di vendere schiavi a un lanista a meno che non si fossero macchiati di qualche reato.

Comunque si poteva riacquisire la libertà tramite la donazione da parte di un magistrato o dell’imperatore del rudis, la spada di legno. Tuttavia combattere nell’arena era infamante e ai liberati non veniva riconosciuta la cittadinanza romana, ma l’infamia, che vietava di ricoprire cariche politiche, di ereditare beni e di comparire come testimone. Fin dal 19 d.C. venne vietato ai senatori di combattere nell’anfiteatro (con la nascita dell’impero molti riversavano i loro sogni di gloria nell’arena). Tertulliano sottolinea efficacemente la contraddizione tra un popolo che amava gli spettacoli e contemporaneamente riteneva infamante la condizione di chi vi combatteva:

“E così gli stessi promotori e amministratori di spettacoli nello stesso momento in cui esaltano gli aurighi di quadrighe, gli attori, gli atleti, i gladiatori – tutte persone idolatrate, per i quali gli uomini sottomettono o il loro spirito e le donne (o ancora gli uomini stessi) il loro corpo, e per le quali si lasciano andare ad azioni che altrimenti riprovano – nello stesso momento in cui li esaltano li umiliano e li menomano; anzi li condannano apertamente all’ignominia e alla perdita dei loro diritti civili, allontanandoli dalla curia, dai rostri e dal senato, dall’ordine equestre e da tutti gli altri onori e da un certo numero di distinzioni. Quale incoerenza!”

De spectaculis ad martyras, XXII, 2-3

Si fece tale abuso di spettacoli gladiatori a fini elettorali che infine si dovette cercare di arginare il problema: si ridusse il numero di spettacoli pubblici a una volta l’anno (esclusi quelli straordinari) e due volte a Roma (una per ogni pretore) per opera di AugustoMarco Aurelio cercò anche di regolamentare la quantità di denaro da investire negli spettacoli, tentando di contenere i costi che nel tempo si erano gonfiati enormemente. Tiberio, ad esempio, aveva offerto 100.000 sesterzi a dei gladiatori in pensione per tornare a combattere.

In ogni caso la figura del gladiatore era molto apprezzata dalle masse, che li idolatrava spesso e volentieri, e in particolare dalle donne. Si diceva ad esempio che il sudore dei gladiatori fosse un potente afrodisiaco. Ciò non mancò di suscitare l’ironia e il disprezzo di alcuni, come Giovenale, che racconta di un gladiatore bruttissimo, adorato dalle donne:

“[…] e molti sfregi avea nel volto, e il ciuffo /diradato dall’elmo e in mezzo al naso / un grossissimo porro; e un male acuto gli facea sempre sgocciolare un occhio. / Ma un gladiatore egli era! Ecco che cosa / fa di costoro altrettanti Giacinti! / Questo ai gigli e alla patria ella antepose, / questo alla sua sorella e al marito! / Ciò che amano è il ferro.

Satire, II, VI, vv. 165-173

Giovenale chiude questi versi con un doppiosenso che resta pienamente apprezzabile anche in italiano: “ferrum est quod amant [mulieres]“, “è il ferro che amano [le donne]”.

Organizzazione e preparazione

Di solito i gladiatori si esibivano a coppia; il loro spettacolo era il momento culminante della giornata nell’anfiteatro: alla mattina c’erano le venationes (i combattimenti tra cacciatori e belve), a mezzogiorno le esecuzioni capitali (in questo caso l’arena fungeva da piazza pubblica) e poi nel pomeriggio i combattimenti tra gladiatori. Le condanne a morte potevano essere molto fantasiose, con ad esempio un condannato che interpretava Icaro, con delle ali di cera e veniva lanciato dal punto più alto del Colosseo; si poteva anche essere condannati a combattere come gladiatori.

Avvenivano anche distribuzioni di cibo per gli spettatori che passavano dunque l’intera giornata nell’anfiteatro, distribuiti in settori differenti a seconda del censo, della classe sociale e del sesso: nel Colosseo sedevano nei posti migliori, più in basso e vicini all’arena, l’imperatore, poi i senatori, le vestali, i cavalieri e via via salendo diminuiva il rango sociale, fino ad arrivare alle donne e agli schiavi.

Dunque, giunti al pomeriggio entravano in scena i gladiatori: di solito il numero di coppie, in base ai dati archeologici ed epigrafici, era compreso tra 6 e 12, ma in alcuni casi, come i giochi trionfali di Traiano, si giungeva ad ingaggiarne molti di più. Anche la durata dei munera era variabile: alcuni si concludevano in giornata, altri andavano avanti per settimane. I combattimenti in gruppo (gregatim) in genere riguardavano i condannati a morte.

Violazione dei giochi gladiatori?

E’ diffusa tra molti l’idea che Costantino abbia vietato i combattimenti gladiatori per primo e che poi questi siano scomparsi nel V secolo. In realtà questo non corrisponde al vero, in quanto ancora sul finire del IV secolo abbiamo il racconto di Sant’Agostino che partecipa a uno spettacolo nel Colosseo e si appassiona, per quanto il suo animo cristiano non vorrebbe. Costantino proibì la damnatio ad ludum, non gli spettacoli: tale usanza, che prevedeva la condanna a morte combattendo nell’arena, lasciava la possibilità al condannato che si combatteva bene di sopravvivere alla sentenza e questo l’imperatore non lo voleva.

Non un’usanza misericordiosa quindi, anzi, ma avere la certezza di morte in caso di condanna capitale. L’errore nasce da una cattiva interpretazione di un rescritto imperiale del 325 d.C., riportato nel codice Teodosiano, che dice “spectacula…[non placet]” (gli spettacoli non piacciono all’imperatore Costantino) [Cod. Teod. 15, 12,1; Cod. Iust. 11, 44,1], facendo però riferimento alla condanna capitale, che tale di fatto non era in molti casi. L’errore era poi corroborato da una cattiva traduzione di Eusebio dal greco per questo avvenimento [Vit. Const. 4, 25,1], in cui si legge la parola Mονομάχος, che in greco può significare gladiatore ma anche persona condannata ad ludum, e analizzando il testo si scopre che questo è il senso dato dall’autore cristiano.

Naumachie

Le prime naumachie attestate risalgono a Cesare per i suoi quattro trionfi; anche Augusto e Claudio ne fecero alcune. Fu Tito ad utilizzare il Colosseo, appena inaugurato, per delle naumachie. Racconta Marziale (De Spectaculis, 24):

“Se tu sei un tardivo spettatore giunto da lontani paesi, per cui questo giorno è stato il primo dei sacri spettacoli, perché il combattimento navale con le sue navi e le onde simili a quelle del mare non t’ingannino, sappi che qui dianzi era terra. Non lo credi? Resta a guardare finché le onde avranno stancato i combattenti: l’attesa sarà breve, e dirai: «Qui dianzi era mare»”

L’operazione era però particolarmente complessa e venne del tutto abbandonata dopo la costruzione dei meccanismi sotterranei dell’anfiteatro a partire da Domiziano.

Il teatro

Dovunque andassero i romani seguivano sempre lo stesso modo di costruire le città. Gli anfiteatri erano generalmente posti fuori le mura fin dai tempi della rivolta di Spartaco, per evitare il ripetersi degli eventi e perché generalmente i terreni costavano meno. Ciò garantiva anche minori problemi di ordine pubblico. I teatri erano costruiti o all’interno o a fianco agli anfiteatri, mantenendo la distinzione di usi.

I teatri romani a differenza di quelli greci non poggiavano su una collina, ma erano costruiti dalle fondamenta, sebbene in oriente molti fossero edificati “alla greca”. Nei teatri si svolgevano commedie e tragedie, sebbene i romani a differenza dei greci fossero amanti molto più delle prime che delle seconde, specialmente dei pantomimi, commedie di ordine storico o mitologico che prevedevano una grande gesticolazione accompagnate da musiche e racconto del narratore.

A Roma teatri stabili non vennero costruiti se non alla fine della tarda età repubblicana, in quanto considerati “mollezze da greci”, contrarie al mos maiorum. Il primo teatro stabile fu quello di Pompeo, realizzato aggirando le leggi che vietavano la costruzione di teatri stabili: infatti in cima vi pose un piccolo tempio. A partire dall’età imperiale gli imperatori favorirono il diffondersi di teatri (fino ad allora presenti soprattutto nell’Ellade e nella Magna Grecia), anche in Italia; il primo grande teatro imperiale di Roma fu quello di Marcello.

Tuttavia romani però non aderirono mai pienamente alle commedie e tragedie greche, che pure si continuavano a mettere in scena frequentemente in Grecia e in Oriente, per dedicarsi più che altro a commedie (palliata per quella di tipo di greco e togata per quella di tipo romano, poi in seguito anche il pantomimo) e più raramente la tragedia romana praetexta. Tra i primi romani a realizzare opere teatrali ci furono Nevio e Plauto, entrambi collocabili nel III secolo a.C., quando i romani entrarono in contatto stretto con i greci del sud Italia.

Storie Romane è totalmente gratuito. Nel caso volessi contribuire al progetto puoi donare qui:https://www.paypal.me/GConcilio



Segui STORIE ROMANE su:

SITO WEB: www.storieromane.it

FACEBOOK: https://www.facebook.com/storieromane/

GRUPPO FB: https://www.facebook.com/groups/storieromane/

INSTAGRAM:  https://www.instagram.com/storieromane/

YOUTUBE: https://www.youtube.com/channel/UCkjlPXgBsFB-fmU86L296JA

TWITTER: https://twitter.com/storieromane/

Svago e divertimento nell’Antica Roma
Tag:                                                                                 

Lascia un commento