L’origine della gladiatura viene fatta comunemente risalire al 264 a.C., anno di scoppio della prima guerra punica, per commemorare il defunto Decimo Bruto Pera. Nel corso del tempo i gladiatori sono stati spesso avvicinati agli etruschi, tuttavia sembrerebbe più plausibile un’influenza greca: già nell’Iliade Omero narra che Achille aveva organizzato dei giochi funebri per Patroclo; inoltre i più antichi anfiteatri sono situati nell’area campana, sottolineando la vicinanza più con il mondo greco e osco-sannita che quello etrusco.

L’amore dei romani per i gladiatori (il cui nome deriva dalla parola gladius, la spada romana: “portatori di gladio”) divenne viscerale fin dal II secolo a.C., tanto che il poeta Terenzio nel 160 a.C. si vide il pubblico abbandonare la sua commedia Hecyra (“La Suocera”) perché si era sparsa la voce che nei pressi si teneva uno scontro di gladiatori.

L’importanza di questi “giochi” (munera) è testimoniata anche dalle molte testimonianze di autori contemporanei nel corso dei secoli, come Cicerone, Orazio, Tito Livio, Seneca, Marziale, Tertulliano e Agostino d’Ippona, a denotare la trasversalità e la continuità di questa usanza. Celebre è anche la ribellione del gladiatore Spartaco, che fu tra gli episodi più traumatici del I secolo a.C. per la repubblica romana e di sicuro la più grande rivolta schiavista di epoca romana.

Il pollice verso

L’idea del pollex versus è stata totalmente travasata dai moderni. In antichità per giudicare i gladiatori – ai quali dal I sec. d.C. erano vietati combattimenti all’ultimo sangue (senza contare i costi e i pochi combattimenti gladiatori l’anno che rendevano uno spreco totale l’uccisione ripetuta di gladiatori che secondo i più avveniva normalmente nell’anfiteatro. E’ un caso diverso quello dei damnati ad ludum, cioè condannati a morte che devono combattere nell’arena) – si usava il pollex versus, che però era rivolto verso l’alto o orizzontalmente, a indicare una spada che uccide (e il pubblico urlava probabilmente “iugula!“, ossia “uccidi!”, mentre il pollex pressus, ossia il pugno chiuso, indicava una spada nel fodero e quindi il risparmiare del gladiatore sconfitto (cosa che era l’assoluta normalità – veniva decretata la morte solo se lo sconfitto aveva combattuto veramente male o vigliaccamente, cosa alquanto improbabile per gladiatori professionisti), mentre il pubblico urlava “mitte!“, ossia “lascialo andare”.

Pollice Verso. Jean-Leon Gerome, 1872
*97,4 x 146,6 cm, olio su tela

Gli spettacoli si dividevano in ludi scaenici (teatrali) e ludi circenses (corse di carri), dedicati alle divinità, in date prestabilite; i giochi gladiatori invece erano munera, che in latino significa dovere: era uno spettacolo dovuto da un magistrato o da un privato (editor) al popolo e non in onore degli dei. I gladiatori, che erano schiavi (anche cittadini liberi si potevano dare per un certo periodo in schiavitù), prigionieri di guerra, condannati etc. si addestravano nelle scuole gladiatorie in tutto l’impero, gestite dai lanistae, la cui professione veniva considerata altamente infamante. Sotto Adriano si vietò anche di vendere schiavi a un lanista a meno che non si fossero macchiati di qualche reato.

Giardina in questa lezione parla dei gladiatori in generale:

Comunque si poteva riacquisire la libertà tramite la donazione da parte di un magistrato o dell’imperatore del rudis, la spada di legno. Tuttavia combattere nell’arena era infamante e ai liberati non veniva riconosciuta la cittadinanza romana, ma l’infamia, che vietava di ricoprire cariche politiche, di ereditare beni e di comparire come testimone. Fin dal 19 d.C. venne vietato ai senatori di combattere nell’anfiteatro (con la nascita dell’impero molti riversavano i loro sogni di gloria nell’arena).

In quest’ottica si può ben comprendere come le frequenti apparizioni di Commodo nel Colosseo apparissero aberranti agli occhi dei senatori.  A tal proposito abbiamo la testimonianza diretta di Cassio Dione, senatore al tempo di Commodo, che racconta come inizialmente l’imperatore avesse partecipato alle venationes lanciando in sicurezza dardi da una balaustra, poi come gladiatore ma con armi di legno, combattimento che antecedeva quello vero e proprio tra gladiatori.

Pare che ad un certo punto l’imperatore avesse anche deciso di indossare una pelle di leone e una clava, come un novello Ercole. In ogni caso gli arbitri gli riconobbero sempre la vittoria e Commodo chiese sempre ingaggi più alti, come fosse un vero gladiatore. Questa passione di Commodo è evidente anche nel film di Ridley Scott, Il Gladiatore.

Tertulliano sottolinea efficacemente la contraddizione tra un popolo che amava gli spettacoli e contemporaneamente riteneva infamante la condizione di chi vi combatteva:

“E così gli stessi promotori e amministratori di spettacoli nello stesso momento in cui esaltano gli aurighi di quadrighe, gli attori, gli atleti, i gladiatori – tutte persone idolatrate, per i quali gli uomini sottomettono o il loro spirito e le donne (o ancora gli uomini stessi) il loro corpo, e per le quali si lasciano andare ad azioni che altrimenti riprovano – nello stesso momento in cui li esaltano li umiliano e li menomano; anzi li condannano apertamente all’ignominia e alla perdita dei loro diritti civili, allontanandoli dalla curia, dai rostri e dal senato, dall’ordine equestre e da tutti gli altri onori e da un certo numero di distinzioni. Quale incoerenza!”

De spectaculis ad martyras, XXII, 2-3

Si fece tale abuso di spettacoli gladiatori a fini elettorali che infine si dovette cercare di arginare il problema: si ridusse il numero di spettacoli pubblici a una volta l’anno (esclusi quelli straordinari) e due volte a Roma (una per ogni pretore) per opera di Augusto. Marco Aurelio cercò anche di regolamentare la quantità di denaro da investire negli spettacoli, tentando di contenere i costi che nel tempo si erano gonfiati enormemente. Tiberio, ad esempio, aveva offerto 100.000 sesterzi a dei gladiatori in pensione per tornare a combattere.

In ogni caso la figura del gladiatore era molto apprezzata dalle masse, che li idolatrava spesso e volentieri, e in particolare dalle donne. Si diceva ad esempio che il sudore dei gladiatori fosse un potente afrodisiaco. Ciò non mancò di suscitare l’ironia e il disprezzo di alcuni, come Giovenale, che racconta di un gladiatore bruttissimo, adorato dalle donne:

“[…] e molti sfregi avea nel volto, e il ciuffo /diradato dall’elmo e in mezzo al naso / un grossissimo porro; e un male acuto gli facea sempre sgocciolare un occhio. / Ma un gladiatore egli era! Ecco che cosa / fa di costoro altrettanti Giacinti! / Questo ai gigli e alla patria ella antepose, / questo alla sua sorella e al marito! / Ciò che amano è il ferro.

Satire, II, VI, vv. 165-173

Giovenale chiude questi versi con un doppiosenso che resta pienamente apprezzabile anche in italiano: “ferrum est quod amant [mulieres]“, “è il ferro che amano [le donne]”.

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Organizzazione e preparazione

Di solito i gladiatori si esibivano a coppia; il loro spettacolo era il momento culminante della giornata nell’anfiteatro: alla mattina c’erano le venationes (i combattimenti tra cacciatori e belve), a mezzogiorno le esecuzioni capitali (in questo caso l’arena fungeva da piazza pubblica) e poi nel pomeriggio i combattimenti tra gladiatori. Le condanne a morte potevano essere molto fantasiose, con ad esempio un condannato che interpretava Icaro, con delle ali di cera e veniva lanciato dal punto più alto del Colosseo; si poteva anche essere condannati a combattere come gladiatori.

Avvenivano anche distribuzioni di cibo per gli spettatori che passavano dunque l’intera giornata nell’anfiteatro, distribuiti in settori differenti a seconda del censo, della classe sociale e del sesso: nel Colosseo sedevano nei posti migliori, più in basso e vicini all’arena, l’imperatore, poi i senatori, le vestali, i cavalieri e via via salendo diminuiva il rango sociale, fino ad arrivare alle donne e agli schiavi.

Dunque, giunti al pomeriggio entravano in scena i gladiatori: di solito il numero di coppie, in base ai dati archeologici ed epigrafici, era compreso tra 6 e 12, ma in alcuni casi, come i giochi trionfali di Traiano, si giungeva ad ingaggiarne molti di più. Anche la durata dei munera era variabile: alcuni si concludevano in giornata, altri andavano avanti per settimane. I combattimenti in gruppo (gregatim) in genere riguardavano i condannati a morte.

Violazione dei giochi gladiatori?

E’ diffusa tra molti l’idea che Costantino abbia vietato i combattimenti gladiatori per primo e che poi questi siano scomparsi nel V secolo. In realtà questo non corrisponde al vero, in quanto ancora sul finire del IV secolo abbiamo il racconto di Sant’Agostino che partecipa a uno spettacolo nel Colosseo e si appassiona, per quanto il suo animo cristiano non vorrebbe. Costantino proibì la damnatio ad ludum, non gli spettacoli: tale usanza, che prevedeva la condanna a morte combattendo nell’arena, lasciava la possibilità al condannato che si combatteva bene di sopravvivere alla sentenza e questo l’imperatore non lo voleva. Non un usanza misericordiosa quindi, anzi, ma avere la certezza di morte in caso di condanna capitale. L’errore nasce da una cattiva interpretazione di un rescritto imperiale del 325 d.C., riportato nel codice Teodosiano, che dice “spectacula…[non placet]” (gli spettacoli non piacciono all’imperatore Costantino) [Cod. Teod. 15, 12,1; Cod. Iust. 11, 44,1], facendo però riferimento alla condanna capitale, che tale di fatto non era in molti casi. L’errore era poi corroborato da una cattiva traduzione di Eusebio dal greco per questo avvenimento [Vit. Const. 4, 25,1], in cui si legge la parola Mονομάχος, che in greco può significare gladiatore ma anche persona condannata ad ludum, e analizzando il testo si scopre che questo è il senso dato dall’autore cristiano.

Armi e armaturae

Questi spettacoli, oltre a seguire regole ben precise (c’era sempre un arbitro – chiamato summa rudis e un assistente- a controllare che il combattimento fosse leale e nelle regole, pronto a dividere la coppia con un bastone, più o meno come accade oggi nel pugilato – paragone ancora più calzante se si considera che i gladiatori combattevano a petto nudo), erano regolamentati anche negli armamenti: gli abbinamenti tra armaturae erano sempre gli stessi.

Le quattro armaturae più diffuse erano: i secutores che affrontavano i reziari e i mirmilloni contro i traci. I reziari, i più particolari in assoluto, erano muniti di una rete e un tridente: se catturavano l’avversario questo non aveva scampo; d’altro canto i secutores erano molto mobili e potevano evitare facilmente la rete. I mirmilloni erano i più corazzati, con uno scudo rettangolare e un pesante elmo che però rendeva difficoltosa la vista; i traci avevano la tipica spada ricurva in punta. L’elmo del secutor era simile a quello del mirmillone, ma era sferico e liscio, per far scivolare la rete e non farla rimanere impigliata.

C’erano anche altri tipi di gladiatori, meno diffusi ma non per questo meno particolari: l’oplomaco combatteva come un oplita greco, con scudo rotondo e lancia, e generalmente combatteva con il mirmillone. Il provocator aveva un equipaggiamento simile al mirmillone, ma aveva uno scudo più piccolo e una placca di protezione sul torace. C’erano poi i cavalieri (equites) e gli essedarii (soldati dal carro), ma entrambi combattevano a piedi: i primi con uno scudo tondo, elmo, un pugnale e una tunica (unici gladiatori ad averla); gli essedarii pugnale, scudo ovale ed elmo con paraguance. Provocator, equites e essedarii combattevano in modo simmetrico: sempre contro la loro stessa armatura.

C’era poi il bimachairos (o arbelas), che aveva un’arma offensiva per ogni mano e combatteva generalmente contro il reziario. In epoca repubblicana sono menzionati anche il sannita e il gallo, di cui però non si conosce con esattezza l’equipaggiamento. Gli abbinamenti potevano tuttavia variare: il mirmillone poteva anche combattere col secutor, ad esempio. La lunghezza e la grandezza dell’equipaggiamento inoltre non era standardizzata, come di norma nel mondo antico. Infine, era possibile che ci fossero dei gladiatori scaeva, ossia mancini (cosa impossibile nell’esercito), particolarmente apprezzati da Commodo.

Il combattimento

All’inizio del munus si distribuivano tra il pubblico i cosiddetti libelli, degli opuscoli sui gladiatori che sarebbero scesi nell’arena. Prima di ogni combattimento i duellanti venivano presentati per nome e categoria di appartenenza, origini e carriera agonistica. Inoltre si cercava di far combattere gladiatori con la stessa forza e esperienza per rendere il combattimento equilibrato.

Dopo aver verificato che l’equipaggiamento fosse a posto, i gladiatori indossavano l’elmo, le fanfare squillavano e e gli arbitri davano il via al combattimento. A seconda della categoria ci si muoveva più o meno (il trace e il secutor erano più agili), ma comunque i colpi dovevano essere pochi e precisi, sia perché si rischiava di stancarsi presto sia perché ci si poteva esporre troppo.

Non esistevano tempi prestabiliti o pause: era l’arbitro a decidere quando e se queste dovevano avvenire. Inoltre sappiamo che potevano dividere i due lottatori e far riprendere il combattimento ma non sappiamo in basi a quali regole. L’esito prevedeva quattro possibilità: pareggio (stantes missi), morte di uno dei due contendenti, oppure uno dei due chiedeva la resa e poteva essere o ucciso o risparmiato. Il primo esito era il più raro, tuttavia non impossibile: durante l’inaugurazione del Colosseo nell’ 80 d.C. due gladiatori combatterono così a lungo che alla fine chiesero entrambi la resa, nello stesso momento, ottenendola.

Generalmente il combattimento, però, si concludeva con la richiesta di resa all’arbitro di uno dei due gladiatori; i motivi potevano essere i più disparati, forse erano feriti, stanchi, disarmati etc. L’organizzatore (e nel caso del Colosseo l’imperatore) doveva decidere, mentre il pubblico chiedeva di graziare o uccidere il gladiatore arreso che, se aveva combattuto bene, di solito otteneva di aver salva la vita. In caso contrario il vincente uccideva il perdente, di solito con un colpo diretto al cuore. In base ai dati archeologici ed epigrafici sappiamo che nel I secolo l’80% degli incontri terminava con la grazia per il perdente, percentuale che diminuì drasticamente nel III secolo, diventando grossomodo la metà. A partire da Augusto furono comunque vietati i combattimenti sine missio, ossia all’ultimo sangue. E’ possibile, infine, che le armi non fossero appuntite ma solo affilate, per evitare una fine rapida dello scontro: in alcuni casi si fa riferimento infatti a dei permessi per usare armi “appuntite”.

Fine dei giochi

Gli spettacoli ebbero grande fortuna per secoli, durante tutta l’età imperiale. Nel Colosseo si svolsero anche delle naumachie, ossia delle battaglie navali, riempendo l’arena d’acqua e mettendo in atto battaglie navali. Con l’avvento del cristianesimo i combattimenti continuarono a svolgersi, specialmente in occidente; ancora sul finire del IV secolo erano piuttosto in voga. Tuttavia con la definitiva spartizione tra impero d’occidente e d’oriente e l’avvento della dinastia teodosiana anche i giochi gladiatori, come altre peculiarità del mondo antico pagano finirono per sparire (come i giochi olimpici). Sotto Valentiniano III (425-455) si ebbe la definitiva condanna dei giochi gladiatori, che non ebbero mai più luogo. Tuttavia continuarono le venationes, ancora dopo la fine dell’impero d’occidente, sia sotto Odoacre sia sotto Teoderico.

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I gladiatori
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