Nei commentarii di Cesare appaiono spesso soldati, e in particolare centurioni, che si distinsero particolarmente ai suoi ordini. La devozione e l’attaccamento al comandante erano tali da spingerli ad atti di eroismo senza pari. Emblematico è il caso del centurione Marco Cassio Sceva, che durante la battaglia di Durazzo tra cesariani e pompeiani si distinse. In un giorno, durante l’assedio, si svolsero sei scontri, che videro – secondo Cesare – 2.000 morti tra i pompeiani e solo 20 tra i cesariani; ma – aggiunge il comandante romano – i suoi furono tutti feriti e quattro centurioni dell’ottava coorte persero la vista:

«Così, in una sola giornata, si svolsero sei battaglie, tre presso Durazzo e tre presso le fortificazioni. Facendo un conto complessivo, calcolavamo a circa duemila uomini le perdite dei pompeiani, tra i quali molti richiamati e centurioni, e tra questi Valerio Fiacco, figlio di quel Lucio che era stato pretore in Asia; furono prese anche sei insegne militari. Le nostre perdite non ammontarono a più di venti uomini in tutti gli scontri. Ma non vi fu neppure un soldato, di quelli del fortino, che non riportasse delle ferite; quattro centurioni dell’ottava coorte persero la vista. Volendo presentare una prova della fatica e dei rischi che avevano corso, contarono davanti a Cesare circa tremila frecce scagliate contro il fortino e gli fu presentato lo scudo del centurione Sceva sul quale furono trovati centoventi fori. Cesare, per i meriti acquisiti verso di lui e la repubblica, gli fece un donativo di duecentomila sesterzi e lo promosse da centurione dell’ottava centuria a centurione primipilo – risultava infatti che in gran parte grazie al suo impegno il fortino si era salvato – premiò poi la coorte con doppia paga e una larga distribuzione di frumento, vesti, cibi e decorazioni militari.»


(Cesare, De Bello Civili, III, 53)

La guerra gallica

«Cesare, riunite le insegne della XII legione, i soldati accalcati erano d’impaccio a se stessi nel combattere, tutti i centurioni della quarta coorte erano stati uccisi ed il signifer era morto anch’egli, dopo aver perduto l’insegna, quasi tutti gli altri centurioni delle altre coorti erano o feriti o morti […] mentre i nemici, pur risalendo da posizione da una posizione inferiore, non si fermavano e da entrambi i lati incalzavano i Romani […] Cesare vide che la situazione era critica […] tolto lo scudo ad un soldato delle ultime file […] avanzò in prima fila e chiamati per nome i centurioni, esortati gli altri soldati, ordinò di avanzare con le insegne allargando i manipoli, affinché potessero usare le spade. Con l’arrivo di Cesare ritornata la speranza nei soldati e ripresi d’animo […] desiderarono, davanti al proprio generale, di fare il proprio dovere con professionalità, e l’attacco nemico fu in parte respinto. Cesare avendo poi visto che anche la legione VII era incalzata dal nemico, suggerì ai tribuni militari che a poco a poco le legioni si unissero e marciassero contro il nemico voltate le insegne. Fatto questo, dopo che i soldati si soccorrevano vicendevolmente senza più aver paura di essere presi alle spalle dal nemico, cominciarono a resistere con maggior coraggio e a combattere più valorosamente. Frattanto le due legioni che erano state nelle retroguardie e di scorta alle salmerie [le legioni XIII e XIV] giunta notizia della battaglia, presero a correre a gran velocità […] Tito Labieno dopo aver occupato il campo nemico, e visto quanto accadeva nel nostro campo da un’altura, mandò in soccorso ai nostri la legione X.»


(Cesare, De bello Gallico, II, 25-26)

L’episodio della battaglia del fiume Sabis contro i nervi nel 57 a.C. è un altro evento che denota l’attaccamento dei soldati al comandante: nonostante i romani fossero in netta difficoltà e anche accerchiati, riescono, con l’incitamento di Cesare, a ribaltare le sorti dello scontro in loro favore. Famosi sono anche i centurioni Pullo e Voreno, che erano in competizione per il posto di primipilo:

“C’erano in quella legione due centurioni, due uomini coraggiosissimi, che già si avviavano a raggiungere i gradi più alti, Tito Pullone e Lucio Voreno. Erano in continua competizione tra di loro, per chi dei due sarebbe stato anteposto all’altro, e ogni anno lottavano con accesa rivalità per far carriera. Mentre si combatteva con grande accanimento sulle fortificazioni, Pullone disse: «Che aspetti Voreno? Che promozione vuoi avere come premio per il tuo coraggio? Questa è la giornata che deciderà delle nostre controversie». Detto questo, esce allo scoperto e irrompe dove più fitto è lo schieramento nemico. Neppure Voreno, allora, resta al coperto ma, temendo il giudizio degli altri, lo segue. Quasi addosso al nemico, Pullone lancia il giavellotto e trapassa uno dei loro che, staccatosi dal gruppo, correva ad affrontarlo. I nemici lo soccorrono esanime, proteggendolo con gli scudi, mentre tutti lanciano frecce contro di lui, bloccandolo. Un’asta trapassa lo scudo di Pullone e si conficca nel balteo, spostando il fodero della spada e, mentre egli si trova impacciato e perde tempo nel tentativo di estrarre l’arma, viene circondato dai nemici. Il suo avversario, Voreno, si precipita a soccorrerlo nella difficile situazione. Tutta la massa dei nemici si volge allora contro Voreno, ritenendo l’altro trafitto dall’asta. Voreno si batte corpo a corpo con la spada e, ucciso un nemico, respinge gli altri di poco, ma mentre incalza con foga, cade scivolando in una buca. Circondato a sua volta, viene aiutato da Pullone e ambedue, dopo aver ucciso molti nemici e acquistato grande onore, riparano incolumi all’interno delle fortificazioni. Così la fortuna volle, nella contesa e nel combattimento, che, sebbene avversari, si recassero reciproco aiuto e si salvassero l’un l’altro la vita, e non si potesse stabilire quale dei due fosse il più coraggioso.”

Cesare, De bello Gallico, V, 44

Ma di sicuro l’episodio più famoso è quello di Alesia nel 52 a.C., in cui i romani, accerchiati all’interno delle loro fortificazioni, riescono a vincere ancora una volta grazie all’intervento di Cesare in persona. Infatti dopo due scontri, i galli trovarono una falla nella circonvallazione creata da Cesare. Questi continua a mandare rinforzi, ma senza successo. Trebonio e Antonio intervengono, continuano ad arrivare coorti a sostenere la difesa, mentre i galli attaccano tutte le difese sia all’esterno che all’interno. E’ infine Cesare al comando della cavalleria e di alcune coorti raccolte nel percorso che piomba alle spalle dei galli, che si danno alla fuga:

«Riconosciuto Cesare per il colore del suo mantello, che portava come un’insegna durante i combattimenti… i Romani, lasciati i pilum, combattono con la spada. Velocemente appare alle spalle dei Galli la cavalleria romana, mentre altre coorti si avvicinano. I Galli volgono in fuga. La cavalleria romana rincorre i fuggiaschi e ne fa grande strage. Viene ucciso Sedullo, comandante dei Lemovici; l’arverno Vercassivellauno viene catturato durante la fuga; vengono portate a Cesare settantaquattro insegne militari. Di così grande moltitudine pochi riuscirono a raggiungere il campo e salvarsi… Dalla città, avendo visto la strage e la fuga dei compagni e disperando della salvezza, ritirano l’esercito in Alesia. Giunta questa notizia, i Galli del campo esterno si danno alla fuga… Se i legionari non fossero stati sfiniti… tutte le truppe nemiche avrebbero potuto essere distrutte. Verso mezzanotte la cavalleria, mandata all’inseguimento, raggiunse la retroguardia nemica. Un grande numero di Galli fu preso ed ucciso, gli altri si disperdono in fuga verso i loro villaggi.»

Cesare, De bello Gallico, VII, 88

Non sono solo semplici legionari e centurioni a distinguersi sotto il comando di Cesare durante le sue campagne, ma anche i comandanti e gli ufficiali di più alto grado, come il signifer della Decima legio, che durante il primo sbarco in Britannia, alla titubanza dei suoi compagni che vedono i britanni in riva pronti ad aspettarli, si getta dalla barca e corre da solo contro il nemico. Sarà poi seguito dai suoi compagni, mettendo in fuga i britanni:

«Mentre Cesare si tratteneva in quei luoghi per approntare la flotta, gli si presentò una legazione inviata dalla maggior parte dei Morini, a scusarsi del comportamento che avevano tenuto in precedenza quando, da uomini barbari e ignari delle nostre consuetudini, avevano mosso guerra al popolo romano; ora promettevano di obbedire a tutto quanto gli fosse stato ordinato. Cesare, considerando la circostanza abbastanza opportuna, perché non voleva lasciarsi nemici alle spalle né poteva impegnarsi in una guerra, vista la stagione, ritenendo che occupazioni di così lieve importanza non dovessero anteporsi alla faccenda della Britannia, ordina loro di consegnare un gran numero di ostaggi, ricevuti i quali, accetta la sottomissione dei Morini. Fatte portare e radunate circa ottanta navi da carico, che riteneva sufficienti a trasportare due legioni, distribuì le restanti navi da guerra al questore, ai legati e ai prefetti. Rimanevano diciotto navi da carico, che erano trattenute dal vento contrario a otto miglia di distanza e non potevano approdare allo stesso porto: assegnò queste alla cavalleria. Affidò il resto dell’esercito ai legati Quinto Titurio Sabino e Lucio Aurunculeio Cotta per condurlo nel paese dei Menapi e presso le tribù dei Morini che non avevano inviato ambasciatori; ordinò al legato Publio Sulpicio Rufo di occupare il porto con il presidio che ritenne sufficiente. Presi questi provvedimenti, approfittando del tempo adatto alla navigazione, salpò circa alla terza vigilia, dopo aver ordinato alla cavalleria di raggiungere per l’imbarco il porto successivo e seguirlo. L’ordine fu eseguito con una certa lentezza, mentre Cesare, all’ora quarta, toccò con le prime navi la Britannia, e lì, schierate sulle alture, vide le truppe nemiche in armi. La conformazione del luogo era tale e le rocce si levavano così a picco sul mare che i proiettili, scagliati dall’alto, potevano raggiungere il litorale. Ritenendo il luogo assolutamente inadatto allo sbarco, attese all’ancora, fino all’ora nona, che arrivassero le altre navi. Nel frattempo, convocati i legati e i tribuni dei soldati, comunicò le informazioni avute da Voluseno e il suo piano, e raccomandò di effettuare tutte le manovre rispondendo puntualmente al segnale, così come esige la tecnica militare, in particolare quella navale, che prevede movimenti rapidi e improvvise variazioni. Dopo averli congedati, col favore del vento e della marea, che si erano alzati contemporaneamente, dato il segnale e levate le ancore, avanzò per circa sette miglia fino ad un litorale aperto e pianeggiante dove mise le navi alla fonda. Ma i barbari, intuite le intenzioni dei Romani, mandano avanti i cavalieri e gli essedari, un reparto di cui prevalentemente si servono in battaglia, seguiti dal resto dell’esercito, ed impediscono ai nostri lo sbarco. Le difficoltà erano enormi: le navi, per le loro dimensioni, non si potevano ancorare che al largo, i soldati poi, senza conoscere i luoghi, con le mani occupate, appesantiti dalle armi, dovevano contemporaneamente saltar giù dalle navi, tenersi a galla e combattere con i nemici, mentre questi, all’asciutto o entrando appena in acqua, completamente liberi nei movimenti, su un terreno perfettamente conosciuto, lanciavano con audacia proiettili ed incalzavano con cavalli addestrati allo scopo. I nostri, sconcertati dalla situazione, posti di fronte a un genere di battaglia mai sperimentato, non si comportavano con lo stesso zelo e ardore che erano soliti dimostrare negli scontri di fanteria. Quando Cesare se ne accorse, ordinò che le navi da guerra, il cui aspetto era sconosciuto ai barbari ed erano più facilmente manovrabili, si staccassero un po’ dalle navi da carico e, a forza di remi, si portassero sul lato scoperto del nemico e di là, con fionde, archi e baliste lo investissero e lo costringessero alla ritirata. La manovra fu molto utile. I barbari, infatti, colpiti dalla forma delle navi, dal movimento dei remi e dal singolare aspetto delle macchine da guerra, si arrestarono e arretrarono leggermente. Ma, dato che i nostri soldati esitavano, per timore soprattutto delle acque profonde, l’aquilifero della x legione, invocati gli dèi affinché il suo gesto portasse fortuna alla legione, «Saltate giù», disse, «commilitoni, se non volete consegnare l’aquila al nemico; per conto mio, io avrò fatto il mio dovere verso la Repubblica e il generale». Gridate queste parole, saltò giù dalla nave e cominciò a portare l’aquila contro i nemici. Allora i nostri, esortandosi l’un l’altro a non tollerare un tale disonore, si gettarono tutti dalla nave. Quando dalle navi vicine li videro, anche gli altri soldati li seguirono ed avanzarono contro il nemico. Si combatté accanitamente da entrambe le parti. Tuttavia i nostri, non potendo mantenere lo schieramento né trovare un sicuro punto d’appoggio né porsi sotto le proprie insegne, poiché sbarcando chi da una nave chi da un’altra si aggregavano alla prima insegna che capitava, erano in una situazione di grande confusione. I nemici invece, conoscendo tutti i bassifondi, appena dalla spiaggia avvistavano gruppi isolati di soldati che toccavano terra, spronati i cavalli, li assalivano mentre si trovavano in difficoltà, circondandoli in massa, mentre altri, dal fianco scoperto, lanciavano frecce sul grosso dell’esercito. Cesare, appena se ne accorse, ordinò che si calassero in mare le scialuppe delle navi da guerra e i battelli da ricognizione carichi di soldati e li inviava in aiuto di quanti vedeva in difficoltà. I nostri, appena toccarono terra e furono raggiunti da tutti gli altri, caricarono il nemico e lo misero in fuga, ma non poterono protrarre l’inseguimento, perché le navi con la cavalleria non avevano potuto mantenere la rotta e raggiungere l’isola. Solo questo mancò alla consueta fortuna di Cesare.»

CESARE, DE BELLO GALLICO, IV, 22-26


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I legionari di Cesare
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