«A me non dispiace la teoria di quelli che sostengono che [l’uso dei dodici littori sia stato] importato dalla vicina Etruria (da dove furono introdotte la sedia curule e la toga pretesta) tanto questa tipologia di subalterni, quanto il loro stesso numero. Essi credono che ciò fosse così per gli Etruschi poiché, una volta eletto il re dall’insieme dei dodici popoli, ciascuno di essi forniva un littore

Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 8

I littori erano la scorta dei magistrati dotati di imperium e portavano con loro i fasci, dotati di un’ascia all’estremità: essi simboleggiavano il potere di vita e di morte del magistrato. Infatti con le verghe, 30 riunite in un unico fascio, punivano i trasgressori, con l’ascia comminavano le condanne a morte. Essi erano in proporzione, a coppie, e tanto più numerosi quanto era importante il magistrato. I consoli ad esempio ne avevano 12 ciascuno (24 in totale), i pretori 6 a testa.

Il loro numero descriveva l’importanza del magistrato: gli imperatori ne ebbero 12 (poi 24 da Domiziano), i dittatori 24 fuori dal pomerium e 12 all’interno, i proconsoli 11, il magister equitum 6, il propretore 5, l’edile curule 2 e il questore 1. Oltre a questi c’erano i littori curiati, non dotati di fasces e che seguivano nei compiti religiosi il Pontefice Massimo: portavano gli animali durante i sacrifici. Anche le vestali e i flamines erano protetti da un littore curiale.

«Sono detti ‘littori’ perché portano fasci di verghe legate. Su ordine dei magistrati infliggono percosse ai delinquenti»

Sesto Pompeo Festo, De verborum significatione

I magistrati e le assemblee

La popolazione romana era divisa in classi censitarie. La prima classe doveva garantire un patrimonio pari a 100.000 assi, la seconda di 75.000, la terza di 50.000, la quarta di 25.000, la quinta di 12.500. Si continuava poi con i proletarii o capite censi. Nei comizi ogni classe venne divisa in centurie per un totale finale di 193, di cui la prima classe forniva 80 centurie di fanti e 18 erano di cavalieri: ciò significava che i più ricchi decidevano sempre le sorti dell’assemblea, dato anche il fatto che la votazione andava per ordine di classe. La seconda, terza, quarta classe fornivano 20 centurie di fanti ciascuna; la quinta ne forniva 30 e i proletarii ne fornivano 5 di non armati, come ad esempio i fabbri.

«Quando si esprime un voto secondo le stirpi degli uomini, si hanno i comizi “curiati”; quando [si vota] secondo il censo e l’età, [si hanno i comizi] “centuriati”; quando [si vota] secondo la regioni e i luoghi, [si hanno i comizi] “tributi”»

Aulo Gellio, Noctes Atticae XV, 27, 5

I comizi potevano essere divisi in modi differenti a seconda della funzione che dovevano svolgere: i più famosi e frequenti erano sicuramenti i già citati comizi centuriati, che servivano ad eleggere i consoli, censori e pretori, decidevano le sorti della pace e della guerra, condannavano o salvavano i cittadini e inoltre votavano le leggi proposte dai magistrati. I consoli erano la suprema magistratura repubblicana e sostituivano il re, destituito da Collatino e Bruto nel 509 a.C. Essi erano due e dividevano l’antico potere monarchico, per evitare che uno dei due prevalesse sull’altro e avevano la caratteristica di restare in carico per un anno. Per evitare di avere troppo potere c’era l’usanza che i consoli non venissero rieletti prima di un decennio.

Una volta finito il consolato, dopo l’istituzione delle prime province, a partire dalla Sicilia, si veniva sorteggiati per governarne una in qualità di proconsole. Stessa sorte accadeva per i pretori e i propretori, che avevano province meno importanti. I pretori invece si occupavano prevalentemente di questioni giudiziarie ed emanavano editti che avevano valore di legge. In seguito furono aggiunti anche degli edili, divisi tra plebei e curuli (patrizi), che avevano il compito di gestire i lavori pubblici e la manutenzione degli edifici (rimpiazzati in epoca imperiale da prefetti addetti a determinate questioni).

I questori invece si occupavano principalmente di questioni finanziarie e a partire da Silla ricoprire questa carica garantiva l’accesso al senato e al cursus honorum, l’insieme delle cariche politiche da scalare fino al consolato, secondo un rigido ordine che prevedeva, dal minore al maggiore:

  1. tribuno militare
  2. questore
  3. edile
  4. tribuno della plebe
  5. pretore
  6. console

Bisognava anche avere una minima età per ricoprire questi ruoli: 40 anni per i consoli patrizi e 42 per i plebei. I consoli avevano il compito anche di guidare l’esercito in guerra e si alternavano al comando:

«I consoli, prima di guidare le legioni al di fuori dalla città [di Roma], esercitano l’autorità su tutti i pubblici affari a Roma. Gli altri magistrati, ad eccezione dei tribuni della plebe, obbediscono ai loro ordini.[…] Spetta ai consoli occuparsi di convocare i comizi, proporre le leggi e presiedere all’attuazione dei decreti popolari, in quei settori della pubblica amministrazione dove ha competenza il popolo.»

Polibio, storie, VI, 12.1-2; 4

Essi poi devono rendere conto al popolo del loro operato:

«È previsto, infine, che i consoli, al momento di lasciare la loro carica, rendano conto del loro operato al popolo, e non è cosa saggia per i consoli trascurare il favore sia del popolo sia del senato.»

Polibio,storie, VI, 15.10-11

Per quanto riguarda i pretori essi dal 242 a.C. vennero divisi in praetor urbanus e praetor peregrinus, ovvero quelli che si occupavano di leggi dei romani e degli stranieri. La carica divenne mano a mano meno importante in epoca imperiale e Adriano stabilì che gli editti dei pretori avessero durata perpetua, rendendo la carica sempre più onorifica.

Infine a queste cariche si sommava quella non stabile del censore, che aveva il compito di reprimere consumi non consoni alla morale romana e di controllare la lista di senatori, espellere gli indegni e portarne di nuovi in senato. Anche questa carica in epoca imperiale divenne obsoleta in quanto l’imperatore faceva tutto questo da solo e solo Claudio decise di assumere la censura.

I principi del mos maiorum strenuamente difesi da Catone, i mores (ossia le abitudini), erano riassumibili in alcune caratteristiche chiave come la fides (la fede, onestà), la pietas ( il rispetto verso gli dei, la patria, i genitori e i parenti: una sorta di amore “doveroso”), la maiestatis (la dignità e grandezza dello stato, l’appartenenza al popolo romano, destinato a dominare le genti), la virtus (la virtù: sapere cosa è giusto e sbagliato, negli interessi della repubblica romana e successivamente anche di se stessi) e infine la gravitas (l’autocontrollo e serietà, senza eccessi). A queste si sommavano altre caratteristiche come amicitia, abstinentia, aequitas, auctoritas, benignitas, clementia consilium, constantia, cultus, decorum, dignitas, disciplina, exemplum, honor, humanitas, industria, libertas, nobilitas, otium, pax, pudor, religio, simplicitas, urbanitas e rusticas.

C’erano poi i comizi tributi, la divisione del popolo in tribù (che alla fine furono 35 in totale), ovvero distretti territoriali, che all’inizio erano indicativi anche della provenienza geografica ma che già al tempo delle guerre puniche divennero puramente indicative del domicilio di chi votava, in modo da appianare le divergenze. Tuttavia i comizi tributi votavano magistrati minori come gli edili curuli (due, sempre patrizi), i due edili plebei e i questori.

I comizi curiati (30 erano le curie, 10 per ciascuna delle tribù originali: Ramnes – Latini-, Tities – Sabini -, Luceres – Etruschi) invece erano più arcaici e rappresentavano una divisione primitiva tra cinque classi di censo. Persero rapidamente importanza e passava per questa assemblea la sola ratifica delle elezioni dei magistrati, approvata tramite lex curiata de imperio, che conferiva loro l’imperium.

Infine i comizi curiati mantenevano giurisdizione sulle gentes, permettendo sotto la presidenza del Pontifex Maximus le adozioni e i testamenti, come ad esempio nel caso di Publio Clodio Pulcro trasformato in plebeo nel 59 a.C. o l’apertura e ratifica del testamento di Cesare nel 44 a.C. che prevedeva l’adozione di Ottaviano.

Le decisioni dell’assemblea del popolo, i concilia plebis, erano chiamati plebisciti e non avevano potere vincolante né per i comizi né per il senato, ma i tribuni, sacri e inviolabili, possedevano anche il diritto di veto e potevano dunque ostacolare azioni del senato considerate ostili alla plebe.

Successivamente per compensare l’impossibilità di eleggere magistrati tra i plebei e in particolare consoli, vennero creati i tribuni militum consulari potestate, che tra il 444 a.C. e il 367 a.C., in numero da due a sei, sostituivano i consoli qualora i comizi volessero almeno un plebeo al comando.

Subito dopo la redazione delle XII tavole, nel 449 a.C., la plebe si rafforzò ulteriormente grazie alle Leges Valeriae Horatiae, che concedevano il diritto di veto ai tribuni della plebe. Nel 445 a.C. il tribuno della plebe Canuleio riuscì a far approvare un plebiscito che divenne la lex Canuleia, la quale aboliva il divieto di matrimonio tra patrizi e plebei.

Nel 367 a.C. vennero infine approvate le Leges Liciniae Sextiae, proposte dai tribuni della plebe Gaio Licinio e Lucio Sestio Laterano. Oltre a limitare (nella teoria) il possesso delle terre in modo che tutti ne avessero abbastanza per vivere, si concedeva alla plebe l’accesso al consolato. Tale affermazione risulta ancora più importante se si considera che potevano appartenere alla plebe anche stranieri che avevano ottenuto la cittadinanza. In seguito ad ulteriori scontri tra plebei e patrizi scaturì nel 287 a.C. la Lex Hortensia, che equiparava i plebiscita alle leges comitiales.

Nel 241 a.C. le tribù divennero 35, e tali restarono nei secoli a venire. Dunque il sistema politico romano cominciò a consolidarsi. Le tribù sono importanti perché i nuovi cittadini venivano iscritti in una determinata tribù a seconda del luogo. Infine la Lex Aemilia de libertinorum suffragiis, del 115 a.C., invece, concedeva, con alcune limitazioni, il diritto di voto ai liberti (che però non godevano della possibilità di candidarsi). Poteva dunque succedere che uno schiavo di una qualsiasi provenienza etnica una volta liberato potesse votare, mentre gli Italici, fedeli a Roma da secoli, non potevano in alcun modo esprimere il loro peso politico.

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I magistrati romani – dai questori ai consoli
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