Dopo l’attraversamento del Rubicone Pompeo era fuggito dall’Italia per rinforzare il suo esercito in Grecia; l’esercito dei pompeiani era molto più numeroso, aveva una flotta decisamente più grande e poteva contare del supporto degli stati clienti orientali. Cesare decise di inseguire Pompeo fino a Brindisi, dove riuscì ad imbarcarsi e sfuggire a Cesare, che quindi voltò la sua attenzione immediatamente alla Spagna pompeiana, che nel giro di un anno prese sotto il suo controllo. Avendo le spalle coperte, nel 48 a.C. decise di varcare l’Adriatico per prendere Pompeo, che si era rinchiuso a Durazzo.

«Pompeo, tagliato fuori da Durazzo, poiché non poteva mantenere il suo primo piano, seguendo il secondo, si diede a fortificare il campo su una posizione elevata, chiamata Petra, che permette un buon rifugio alle navi e le ripara da alcuni venti. Ordinò che in quel luogo si radunasse una parte delle navi da guerra e che vi si portassero frumento e vettovaglie dall’Asia e da tutte le regioni che erano in suo potere. Cesare, stimando che la guerra sarebbe andata per le lunghe e non avendo alcuna speranza di ricevere viveri dall’Italia, perché tutti i lidi erano occupati con tanta diligenza dai Pompeiani, e le sue flotte, che aveva fatto costruire nell’inverno in Sicilia, in Gallia e in Italia tardavano a giungere, mandò i luogotenenti Q. Tillio e L. Canuleio in Epiro per il vettovagliamento. Poiché queste regioni erano troppo lontane, in determinati luoghi stabilì dei depositi di grano e assegnò ad ogni città confinante quanti carri di grano dovesse portagli. Così anche ordinò di requisire tutto il frumento che vi era in Lisso fra i Partini e in tutte le fortezze. La quantità trovata fu scarsissima, sia per la natura del terreno, poiché sono luoghi aspri e montuosi e gli abitanti usano per lo più di frumento importato, sia perché Pompeo lo aveva prevenuto e nei giorni precedenti aveva saccheggiato i Partini e rovistando e mettendo sossopra le loro case aveva requisito e portato a Petra tutto il frumento per mezzo dei cavalieri. Conosciuto ciò, Cesare concepì un nuovo disegno, secondo la configurazione del luogo. Poiché intorno al campo di Pompeo vi erano moltissimi colli, alti e dirupati, per prima cosa li occupò, vi costruì delle ridotte e li munì di presìdi. Indi, come consentiva la configurazione di ogni luogo, cominciò a bloccare Pompeo da terra, unendo con trinceramenti una ridotta con l’altra, avendo presenti questi tre scopi: primo: avendo scarsità di vettovaglie e Pompeo essendo forte per la numerosa cavalleria, di portare da ogni parte all’esercito con il minore pericolo possibile frumento e vettovaglie; secondo, di impedire a Pompeo di foraggiare e di rendere inutile all’azione la sua cavalleria; terzo, di diminuire il prestigio su cui sembrava reggersi agli occhi delle nazioni barbare, quando si fosse sparsa per il mondo la fama ch’egli era assediato da Cesare e non osava venire a battaglia con lui. Pompeo non voleva allontanarsi dal mare e da Durazzo, perché ivi aveva posto tutto il suo materiale da guerra, proiettili, armi e macchine e qui poteva far portare con le navi il frumento all’esercito e d’altra parte non aveva possibilità di impedire la manovra di Cesare, a meno che non volesse venire a combattimento con lui, ciò che per il momento aveva stabilito di non fare. Seguendo l’estremo partito che gli consigliava l’arte strategica, non gli rimaneva che di occupare il maggior numero possibile di alture, di porre presìdi su una zona quanto più poteva estesa e di obbligare Cesare a distendere al massimo le sue truppe. E così avvenne. Infatti costruì ventiquattro fortilizi, abbracciando una zona di quindici miglia, dove egli foraggiava; v’erano poi in questo recinto molti seminati, in cui i giumenti potevano intanto pascolare. E come i nostri avevano dei trinceramenti collegati senza interruzione da un fortilizio all’altro, affinché i Pompeiani non potessero fare irruzione da nessuna parte e assalire i nostri alle spalle, così quelli per linee interne costruivano dei trinceramenti continui, affinché i nostri non potessero penetrare in nessun luogo ed assalirli a tergo. Ma quelli vincevano i nostri nella rapidità dei lavori, perché erano superiori per numero di soldati e lavorando nello spazio interno avevano un circuito più breve. Quando Cesare voleva prendere qualche posizione, Pompeo, quantunque avesse stabilito di non fare opposizione con tutte le sue truppe e di non venire a battaglia, tuttavia gli mandava contro dalle sue posizioni arcieri e frombolieri, che aveva in gran numero. Molti dei nostri venivano feriti, onde era sorto tra i nostri un gran timore dei proiettili: tutti i soldati si fecero con coperte imbottite di lana o di stracci o con cuoio delle tuniche o altri mezzi protettivi per evitare i colpi.»

CESARE, DE BELLO CIVILI, III, 42-44

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Un difficile assedio

«In questa guerra di nuovo genere si escogitavano anche da una parte e dall’altra nuovi modi di combattere. I Pompeiani essendosi accorti, dai fuochi che s’accendevano, che di notte i nostri bivaccavano presso le trincee, avvicinandosi in silenzio, scagliavano tutti insieme dei dardi in mezzo alla moltitudine e poi subito si ritiravano presso i loro. Perciò i nostri, fatta esperienza a proprie spese, trovarono come rimedio di bivaccare in luogo diverso da quello dove accendevano i fuochi. Intanto P. Sulla, che Cesare partendo aveva posto a capo dell’accampamento, avvertito corse in aiuto della coorte con due legioni; per il suo arrivo i Pompeiani furono facilmente respinti. Essi quando videro i nostri che li attaccavano, non opposero resistenza, e appena i primi dei loro furono ricacciati, gli altri volsero le spalle e si ritirarono. Ma Sulla richiamò i nostri che si erano dati all’inseguimento, perché non procedessero troppo oltre. Molti però pensano che se avesse voluto insistere nell’inseguimento, in quel giorno si sarebbe potuto finire la guerra. Non pare che la sua decisione si possa biasimare. Infatti uno è il compito del luogotenente ed altro è quello del comandante: il primo deve agire secondo gli ordini ricevuti, l’altro deve provvedere liberamente alla direzione delle operazioni. Sulla lasciato nell’accampamento da Cesare si accontentò di liberare i suoi né volle venire a battaglia, ciò che pure avrebbe potuto forse avere un lieto esito, affinché non sembrasse ch’egli si era assunta la parte di comandante. La situazione rendeva ai Pompeiani oltremodo difficile la ritirata. Infatti si erano avanzati dal basso e si erano fermati sulla sommità del colle; se si fossero ritirati per il pendio, temevano che i nostri li inseguissero dalle posizioni più alte; mancava inoltre poco al tramonto, perché, con la speranza di portare a termine l’impresa, avevano spinto il combattimento quasi sino a notte. Perciò Pompeo, decidendo secondo le necessità del momento, occupato un colle che era distante dal nostro fortilizio tanto che nessun proiettile scagliato dalle macchine vi potesse giungere, vi si fermò, lo fortificò e vi tenne tutte le sue truppe. Inoltre nello stesso tempo si combattè in due luoghi: infatti Pompeo aveva assalito contemporaneamente più fortilizi per tenere divise le truppe di Cesare, affinché dai presìdi vicini non si potesse portar soccorso. In un ridotto Volcacio Tulio resistette all’assalto di una legione con tre coorti e per di più la ricacciò da quel luogo; in un altro i Germani, usciti dalle nostre trincee, uccisero parecchi nemici e si ritirarono incolumi.»

CESARE, DE BELLO CIVILI, III, 50-52

Cesare era salpato da Brindisi con sette legioni, di cui molte nettamente sotto organico, insieme al suo luogotenente Marco Antonio che nel frattempo cercava di portare le altre truppe al di là dell’Adriatico (infatti Cesare non disponeva di navi a sufficienza), mentre Pompeo stava ancora raccogliendo le forze. Il primo scontro fu il 10 luglio del 48 a.C. e le forze pompeiane ebbero fin da subito la meglio, cominciando a prendere fiducia nelle loro capacità e attaccando sempre più spesso le posizioni cesariane: la guerra era infatti diventata di trincea, con Cesare che cercava di tagliare fuori i pompeiani e Pompeo che voleva rompere l’assedio a tutti i costi.

L’atto eroico

In un giorno, durante l’assedio, si svolsero sei scontri, che videro – secondo Cesare – 2.000 morti tra i pompeiani e solo 20 tra i cesariani; ma – aggiunge il comandante romano – i suoi furono tutti feriti e quattro centurioni dell’ottava coorte persero la vista. Marco Cassio Sceva sopravvisse a 120 frecce conficcate nello scudo:

«Così, in una sola giornata, si svolsero sei battaglie, tre presso Durazzo e tre presso le fortificazioni. Facendo un conto complessivo, calcolavamo a circa duemila uomini le perdite dei pompeiani, tra i quali molti richiamati e centurioni, e tra questi Valerio Fiacco, figlio di quel Lucio che era stato pretore in Asia; furono prese anche sei insegne militari. Le nostre perdite non ammontarono a più di venti uomini in tutti gli scontri. Ma non vi fu neppure un soldato, di quelli del fortino, che non riportasse delle ferite; quattro centurioni dell’ottava coorte persero la vista. Volendo presentare una prova della fatica e dei rischi che avevano corso, contarono davanti a Cesare circa tremila frecce scagliate contro il fortino e gli fu presentato lo scudo del centurione Sceva sul quale furono trovati centoventi fori. Cesare, per i meriti acquisiti verso di lui e la repubblica, gli fece un donativo di duecentomila sesterzi e lo promosse da centurione dell’ottava centuria a centurione primipilo – risultava infatti che in gran parte grazie al suo impegno il fortino si era salvato – premiò poi la coorte con doppia paga e una larga distribuzione di frumento, vesti, cibi e decorazioni militari.»

Cesare, De Bello Civili, III, 53

Fine dell’assedio

Nonostante Pompeo avesse un netto vantaggio militare e anche numerico, d’altra parte la mossa di Cesare era valsa a indebolire ulteriormente i già difficili rifornimenti verso Durazzo e i pompeiani e inoltre Antonio era riuscito a partire dalla Puglia e ricongiungersi a Cesare con altre legioni, che nel frattempo aveva dovuto retrocedere dalle sue posizioni iniziali. Pompeo riuscì a forzare definitivamente il blocco cesariano mirando ad Apollonia, che riprese, mentre Cesare si ritirava in Tessaglia, inseguito dai baldanzosi pompeiani, che sarebbero di lì a poco, il 9 agosto seguente, finiti nella terribile sconfitta di Farsalo, vinta grazie al genio di Cesare:

«Pompeo, aggiunte di notte al nuovo campo grandi fortificazioni, negli altri giorni costruì le torri, portò le trincee all’altezza di quindici piedi, ricoprì quella parte del campo trincerato con vinee e dopo cinque giorni, approfittando di un’altra notte nuvolosa, dopo avere ostruito le porte del campo, come sbarramento al passaggio dei nemici, poco dopo la mezzanotte, portò fuori l’esercito dal campo e si ritirò nell’antica cinta di fortificazioni. In tutti i giorni successivi, Cesare fece avanzare l’esercito schierato in un luogo pianeggiante, spingendo le legioni fin sotto l’accampamento di Pompeo, per vedere se questi volesse accettare battaglia. La sua prima fila era lontana dal trinceramento di lui solo quanto bastava per non farsi raggiungere dai proiettili lanciati dalle macchine. Pompeo, dall’altra parte, per mantenere la fama e il credito di cui godeva presso le genti, schierava l’esercito dinanzi all’accampamento, così che la terza fila era quasi a contatto del trinceramento e le altre parti dell’esercito erano così disposte che potevano essere protette dai proiettili lanciati dai bastioni.

Per potere più facilmente bloccare a Durazzo la cavalleria di Pompeo ed impedirle il foraggiamento, Cesare chiuse con grandi opere di fortificazione i due accessi che, come abbiamo detto, erano angusti e vi pose dei fortilizi. Pompeo quando si avvide che a nulla poteva giovargli la cavalleria, dopo pochi giorni per mezzo delle navi la ritirò dentro le fortificazioni. Era grandissima la penuria di foraggio, cosi che dovevano nutrire i cavalli con foglie strappate dagli alberi e con le tenere radici di canne pestate, poiché avevano consumato tutto il frumento seminato entro la cerchia delle fortificazioni. Erano costretti a importare il foraggio da Corcira e dall’Acarnania, con un lungo tratto di navigazione, e poiché ancora ve n’era scarsità, a mescolarlo con orzo e in questo modo a sostentare i cavalli. Ma quando non solo vennero a mancare l’orzo, il fieno e le erbe tagliate in tutti i campi, ma anche non vi furono più foglie sugli alberi e i cavalli erano consunti dalla debolezza, Pompeo pensò di dover tentare in qualche modo una sortita.»

CESARE, DE BELLO CIVILI, III, 54-56; 58

«In questi combattimenti in un sol giorno Cesare perdette 960 soldati e cavalieri romani insigni: Tuticano Gallo, figlio del senatore; C. Felginate da Piacenza; A. Granio da Pozzuoli; M. Sacrativiro da Capua; cinque tribuni militari e trentadue centurioni; ma in gran parte tutti costoro perirono senza ferite, schiacciati nel fossato, nelle trincee e sulle rive del fiume, nel terrore e nella fuga dei loro; andarono perdute trentadue insegne militari. In questo combattimento Pompeo fu proclamato «imperator〉1. Egli mantenne il titolo e dopo si lasciò salutare così, ma 〈non〉 ne fece uso nelle lettere ufficiali, né pose sui fasci la corona d’alloro. Labieno, poi, avendo ottenuto da lui che gli fossero consegnati i prigionieri, li fece venire tutti a sé e per fare una bella parata, come sembrava, e fare apparire, essendo disertore da Cesare, più grande la sua fedeltà a Pompeo, chiamandoli commilitoni, coprendoli d’ingiurie grandemente oltraggiose e domandando loro se i soldati veterani avessero preso l’abitudine di fuggire, li fece uccidere alla presenza di tutti.

In séguito a questi avvenimenti crebbe tanto la baldanza e la tracotanza dei Pompeiani che non pensarono più al modo di condurre la guerra, ma credettero di avere già vinto. Essi non pensarono che quel rovescio era dovuto allo scarso numero dei nostri soldati, alla posizione difficile e svantaggiosa, in séguito all’occupazione del campo nemico, al duplice terrore dentro e fuori del campo, all’esercito diviso in due parti, delle quali l’una non poteva portare aiuto all’altra. Non vi aggiungevano che non c’era stato un attacco violento, né s’era combattuta una vera battaglia e che i nostri s’erano creato un più grave danno con la ressa nei passaggi stretti di quel che ne avessero ricevuto dai nemici. Non si ricordavano infine quel che suole comunemente avvenire in guerra; quante piccole cause spesso, un falso sospetto, un terrore improvviso, uno scrupolo religioso hanno portato gravi danni; quante volte o per difetto del comandante o per colpa di un tribuno un esercito si è scoraggiato; ma come se avessero vinto per proprio valore e non potesse avvenire nessun mutamento di fortuna, strombazzavano la vittoria di quel giorno per terra e per mare, a voce e per iscritto.»

CESARE, DE BELLO CIVILI, III, 71-72

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Il centurione che sopravvisse a 120 frecce
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