La valle che si trovava ai piedi del Palatino, dove Romolo aveva fondato la città di Roma, era paludosa, ma molto ampia. Il primo re creò subito un asylum per accogliere gli stranieri. Infatti la città appena nata era formata da fuggitivi, schiavi liberati, contadini e pastori; un’estrazione tutt’altro che nobile. Poi si appellò ai popoli vicini per rinfoltire le sue schiere, tuttavia mancava ancora un elemento fondamentale: le donne. Perciò invitò i vicini sabini ad assistere ad una corsa di carri nell’area in cui sarebbe sorto il circo Massimo, una conca tra il Palatino e l’Aventino.

Il ratto delle sabine

Romolo voleva unire romani e sabini, ma molti non erano d’accordo. Perciò decise di usare la forza: i sabini sarebbero stati invitati con l’inganno e le donne prese con la forza, per unire il seme romano col ventre sabino. I romani si prepararono dunque a compiere il rapimento in cui tutti i sabini erano distratti dalla corsa; moltissimi erano i presenti, curiosi di vedere la nuova città. L’atto, studiato e repentino, fu un successo, mentre tra i sabini scoppiava in panico:

«Quando giunse il momento dello spettacolo, mentre l’attenzione e gli occhi di tutti su quello erano concentrati, allora secondo il piano prestabilito cominciò il tumulto, e al segnale convenuto i giovani romani si gettarono a rapire le vergini. Per gran parte furono rapite a caso, secondo che a ciascuno capitavano sotto mano, ma alcune che si distinguevano per bellezza, destinate ai più eminenti senatori, furono portate alle case di questi da uomini della plebe cui era stato affidato quest’incarico. Narrano che una fanciulla di gran lunga superiore alle altre per la bellezza dell’aspetto fu rapita dalla squadra di un certo Talassio, e ai molti che domandavano dove mai la portassero ripetutamente gridavano, perché nessuno le recasse molestia, che la portavano a Talassio; da allora in poi questo grido divenne rituale nelle cerimonie nuziali. Dopo che sui giochi fu gettato lo scompiglio e lo spavento, i genitori delle vergini afflitti fuggono, lamentando la violazione del patto di ospitalità e invocando il dio del quale erano venuti a celebrare la festa e i giochi, rimanendo poi ingannati in dispregio della legge divina e della parola data. […] Ma lo stesso Romolo andava in giro a convincerle che ciò era avvenuto per la superbia dei genitori, i quali avevano negato il diritto di matrimonio ai loro vicini; esse tuttavia sarebbero state considerate come mogli legittime, e avrebbero condiviso con gli uomini il possesso di tutti i beni, della cittadinanza, e dei figli, cosa di cui nessun’altra è più cara all’umano genere; placassero dunque lo sdegno, e offrissero il loro animo a coloro cui la sorte aveva concesso il corpo. Spesso da un’offesa nasce poi un maggiore affetto, ed esse avrebbero trovato i mariti tanto più premurosi, in quanto ciascuno, oltre all’adempiere i suoi doveri di sposo, si sarebbe sforzato di non far sentire la lontananza dei genitori e della patria. Alle parole di Romolo si aggiungevano le blandizie dei mariti, i quali adducevano a giustificazione dell’accaduto la passione amorosa, argomento quanto mai efficace a piegare gli animi femminili.»

TITO LIVIO, AUC, I, 9, 10-16

Al segnale convenuto Romolo e i suoi estrassero le armi e catturarono le figlie dei ceninensi, crustumini, anemnati e sabini, lasciandone fuggire i padri. Ovviamente il gesto dei romani creò grande imbarazzo nei sabini e nei popoli vicini, che reclamavano vendetta; Romolo, che giustificava il gesto poiché tutte le donne catturate erano vergini o non sposate (tranne Ersilia), dovette affrontare anche delle razzie, con successo:

«L’animo delle rapite si era ormai molto calmato, ma i loro padri più che mai accendevano i concittadini con manifestazioni di lutto, pianti e lamenti. Né contenevano nelle loro città gli sdegni, ma si riunivano da ogni parte presso Tito Tazio, re dei Sabini; colà affluivano le ambascerie, perché il prestigio di Tazio era grandissimo in quella regione. I Ceninesi, i Crustumini e gli Antemnati erano fra i popoli colpiti da quella offesa; ad essi parve che Tazio e i Sabini tardassero troppo ad agire, e quindi si accordarono di intraprendere la guerra da soli. Neppure i Crustumini e gli Antemnati si muovevano abbastanza in fretta per l’ardore e l’ira dei Ceninesi, perciò il popolo di Cenina da solo invade il territorio romano. Ma mentre disordinatamente devastano le campagne, viene loro incontro con l’esercito Romolo, e con un facile scontro dimostra che vana è l’ira senza la forza. Sbaraglia e mette in fuga l’esercito nemico, lo insegue in rotta, uccide il re in battaglia e lo spoglia, e dopo la morte del condottiero dei nemici prende la città al primo assalto. Quindi ricondotto l’esercito vincitore, Romolo, che era uomo valoroso nelle imprese e non meno abile nel metterle in mostra, salì sul Campidoglio recando appese ad un’asta appositamente fabbricata le spoglie del condottiero nemico ucciso, e depostele ivi presso una quercia sacra ai pastori, offrendo il dono delimitò i confini di un tempio in onore di Giove e assegnò al dio l’appellativo dicendo: «O Giove Feretrio, io vincitore Romolo re regie armi ti porto, e ti consacro un tempio in questo spazio, che ora mentalmente ho delimitato, come sede per le spoglie opime che i posteri seguendo il mio esempio ti porteranno dopo aver ucciso i re e i condottieri nemici». Questa è l’origine del tempio che primo fra tutti fu consacrato a Roma. Gli dèi vollero poi che né vane fossero le parole del fondatore del tempio, laddove proclamò che i posteri avrebbero recato colà le spoglie, né la gloria di quella offerta fosse diminuita da un grande numero di partecipi: due volte sole in seguito, in tanti anni e con tante guerre, furono conquistate le spoglie opime, tanto rara fu la fortuna di quell’onore.»

TITO LIVIO, AUC, I, 10, 1-7

Romolo sposò proprio Ersilia e offrì alle donne tutti i diritti ma non la possibilità di tornare tra i sabini. Dopo aver sconfitto ceninensi, antemnati e crustumini, i sabini attaccarono Roma e presero il Campidoglio, attaccando poi battaglia al lago Curzio. Durante lo scontro le donne sabine si gettarono nella mischia per separare i contendenti. I due eserciti si separarono e Romolo e il sabino Tito Tazio deposero le armi, condividendo il regno unito di romani e sabini; tuttavia Tazio morì poco tempo dopo e i romani assorbirono i sabini, per distinguersi dai quali, tra i romani, si facevano chiamare quiriti:

«Là mentre stavano per tornare a combattere nuovamente, furono fermati da uno spettacolo incredibile e difficile da raccontare a parole. Videro infatti le figlie dei Sabini, quelle rapite, gettarsi alcune da una parte, ed altre dall’altra, in mezzo alle armi ed ai morti, urlando e minacciando con richiami di guerra i mariti ed i padri, quasi fossero possedute da un dio. Alcune avevano tra le braccia i loro piccoli… e si rivolgevano con dolci richiami sia ai Romani sia ai Sabini. I due schieramenti allora si scostarono, cedendo alla commozione, e lasciarono che le donne si ponessero nel mezzo

PLUTARCO, VITE PARALLELE, VITA DI ROMOLO, 19, 1-3

Il luogo deputato ai ludi

La prima sistemazione della Valle Murcia (l’area compresa tra Palatino e Aventino in cui i romani avevano attirato i sabini) per corse dei carri risale all’epoca dei Tarquini, ma fu solo con Giulio Cesare che l’area ricevette un’adeguata sistemazione architettonica; fino ad allora infatti la struttura era stata principalmente in legno. Il monumento fu poi restaurato da Augusto in seguito ad un incendio e vi aggiunse un obelisco di Ramses II preso in Egitto (poi spostato da papa Sisto V in piazza del Popolo nel XVI secolo, ora chiamato obelisco Flaminio). Successivamente l’imperatore Costanzo II vi aggiunse un secondo obelisco nel 357, portato durante i festeggiamenti dei suoi vicennalia a Roma, posto sulla spina. Oggi si trova dietro la basilica di San Giovanni in Laterano.

Altri restauri furono fatti da Tiberio e Nerone, mentre Tito costruì un arco al centro del lato corto, divenendo un’entrata monumentale integrata nel circo. Durante il principato di Nerone fu forse l’epicentro delle fiamme che avvolsero Roma nel luglio del 64:

« Iniziò in quella parte del circo che confina lungo il Palatino e il Celio, dove il fuoco, scoppiato nelle botteghe che contenevano prodotti altamente infiammabili, divampò subito violento, alimentato dal vento, e avvolse il circo in tutta la sua lunghezza, visto che non esistevano palazzi con recinti o templi cinti con mura o qualcosa che potesse fermare le fiamme. »

Tacito, Annali, XV, 38, 2

Dopo un’altro grave incendio sotto Domiziano, ne venne completata la ricostruzione da Traiano, a cui si deve il grosso della forma attuale, il quale completò la monumentalizzazione del sito. Successivamente ci furono importanti restauri sotto Antonino Pio, Caracalla e Costantino. Il circo rimase in uso fino al 549, anno in cui Totila presenziò alle ultime corse.

Lungo oltre 600 metri e largo 140, il Circo Massimo poteva ospitare forse 250.000 mila spettatori, circa un quarto o un quinto della popolazione di Roma al suo apice, nel II secolo d.C., ed era usato principalmente per le corse di quadrighe. Era collegato direttamente al palazzo imperiale sul Palatino con dei tunnel (in cui venne ucciso Caligola), perciò l’imperatore poteva accedervi senza uscire “di casa”. La facciata esterna era composta di tre ordini, quello inferiore di altezza doppia e ad arcate. La cavea poggiava su muratura, che ospitava passaggi e scale per raggiungere i sedili, ambienti di servizio e le botteghe (da cui partì l’incendio neroniano). Le corse vedevano gareggiare dodici quadrighe (carri a quattro cavalli), con diverse squadre rappresentate da colori a competere (azzurri, verdi, rossi, bianchi), solitamente di sette giri, con sette delfini da cui sgorgava acqua e sette uova a scandire il compiersi dei giri. Lunga la spina c’erano anche vari tempietti ed edicole. Infine dodici carceres, ossia batterie di partenza, erano allineate obliquamente per garantire una partenza uniforme e possedevano un meccanismo che garantiva l’apertura simultanea.

«Costoro consacrano tutta la loro vita al vino, ai dadi, ai bordelli, ai piaceri ed agli spettacoli; per loro il Circo Massimo è il tempio, la casa, l’assemblea e la mèta dei loro desideri. È possibile vedere nei fori, nei trivi, nelle piazze e nei luoghi di riunione molti gruppi in preda a contrasti, poiché chi sostiene, come è naturale, una tesi, chi un’altra. Fra costoro quelli che son vissuti a lungo e godono di maggiore autorità grazie alla loro età, giurano per i loro capelli bianchi e le rughe che lo stato non potrà più sussistere se nella prossima gara non balzerà per primo fuori dai cancelli del circo quell’auriga che ognuno favorisce, e non riuscirà a correre rasente alla mèta con la coppia di cavalli di punta. In un simile marciume di negligenza, quando spunta il giorno desiderato dei giochi equestri ed il sole ancora non splende in tutta la sua luminosità, tutti in massa s’affrettano al circo correndo precipitosamente, tanto che superano in velocità i cocchi che scenderanno in gara. Moltissimi, in preda a conflitti interni sull’esito ed ansiosi per le loro speranze, trascorrono le notti vegliando.»

Ammiano marcellino, storie, 28, 4, 29-31

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Il Circo Massimo
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