Si stima che al tempo di Augusto circa 150.000 cittadini militassero nelle legioni e altrettanti non cittadini, peregrini (stranieri che vivevano nelle province sottomesse a Roma) e barbari, negli auxilia, coorti e ali ausiliarie che diventarono stabili ma mai accorpate in unità tattiche superiori alle 1.000 unità (le coorti e ale dette miliaria o le equitatae, ossia miste di fanti e cavalieri). A questi si aggiungevano i marinai della flotta, collocata in larga parte a Miseno in Campania e Classe, vicino Ravenna. Esistevano anche piccole flotte minori come ad Alessandria ma il Mediterraneo era ormai pacificato dopo la campagna di Pompeo contro la pirateria. In totale dunque l’esercito romano nel I-II secolo d.C., al netto di successivi nuovi reclutamenti e creazione di nuovi reparti, contava all’incirca 400-450.000 uomini, sparsi in un territorio che andava dalla Britannia (conquistata da Claudio e che contava in media ben 3 delle circa 30 legioni) alla Mesopotamia.

La formazione di un esercito professionale

Le legioni furono impegnate fino all’epoca di Tiberio in continue campagne militari, specialmente nella zona renana e danubiana. Al termine di queste lunghe campagne militari, che portarono il limes al Reno e al Danubio (e pacificarono la Spagna dopo secoli), le legioni vennero collocate inizialmente in zone non troppo vicine alla frontiera, seppure in province imperiali (ovvero sotto la giurisdizione dell’imperatore: all’incirca tutte quelle che confinavano con le popolazioni barbariche). Alcune legioni erano raggruppate in campi che ne contenevano più di una; molte erano in Germania e nell’Illirico, pronte a intervenire in caso di necessità. Come ha detto giustamente Luttwak, queste legioni avevano un potere deterrente enorme: bastava il loro stazionamento e il timore dell’intervento romano, aiutato da una serie di stati clienti limitrofi e gli auxilia, per evitare gli sconfinamenti nelle province.

Oltre alle legioni, gli auxilia e i marinai della flotta erano presenti a Roma 9 coorti di pretoriani (poi diventate 10). Augusto le aveva stanziate in varie regioni italiane, ma già Tiberio decise di raggrupparle a Roma nei castra pretoria. In suo onore presero come simbolo lo scorpione, segno zodiacale dell’imperatore. Augusto creò anche un corpo di vigiles, divisi in 7 coorti (una ogni due quartieri in cui era divisa la città), reclutate perlopiù tra liberti, che avevano il compito di garantire la sicurezza dell’Urbe e fungere da pompieri all’occorrenza, demolendo gli edifici pericolanti per evitare il propagare delle fiamme. Infine tre coorti urbane (diventate poi cinque), sotto il controllo del prefetto dell’Urbe, un senatore, e quindi svincolate formalmente dal principe, completavano le forze di polizia di Roma.

L’imperatore aveva a sua disposizione per la sua difesa personale non solo i pretoriani, ma anche le guardie del corpo germaniche, usate per la prima volta da Cesare, chiamati germani corporis custodes, all’incirca 500-1.000 uomini, delle vere e proprie guardie private, perlopiù di origine batava. Sciolte dopo Nerone, furono riformate da Traiano come equites singulares, dei cavalieri scelti reclutati tra i migliori soldati a cavallo dell’impero. Erano alloggiati in un castra nel luogo dove oggi sorge la basilica di San Giovanni. Proprio l’accampamento, ormai inutile dopo lo scioglimento anche dei pretoriani dopo Costantino, funse da fondamenta per una delle prime basiliche di Roma.

La ferma

Le legioni erano reclutate tra i cittadini romani, principalmente italici. All’epoca di Traiano questi rappresentavano all’incirca un terzo: i restanti erano discendenti dei soldati stanziati nelle province, a loro volta reclutati, o uomini raccolti sul posto, principalmente discendenti di veterani nelle colonie. In oriente tuttavia non era raro che i legionari venissero reclutati tra la popolazione autoctona e concessa la cittadinanza all’atto dell’immissione nell’esercito: in fondo l’oriente grecofono era già molto civilizzato. Inizialmente Augusto aveva prefissato una ferma di 16 anni e 4 come veterani, per un totale di 20 anni. Tuttavia le lunghe campagne militari in Illirico e Germania lo spinsero ad allungare i tempi a 25 anni, 20 di servizio e 5 come evocati (veterani). Finché Augusto fu in vita i legionari accettarono loro malgrado questa estensione, ma quando Tiberio divenne imperatore divampò la protesta, controllata solo grazie all’intervento di Druso minore:

«La rivolta divampa sempre più forte, si moltiplicano i caporioni. Un soldato semplice, un certo Vibulento, sollevato su le spalle dei compagni davanti al seggio di Bleso, si volse a quegli uomini eccitati e intenti a vedere che cosa si proponeva di fare e disse: «Voi avete restituito la luce e lo spirito a questi infelici innocenti; ma chi renderà a mio fratello la vita, a me il fratello? vi era stato mandato dall’esercito di Germania per trattare degli interessi comuni; ebbene, la notte stessa questi l’ha fatto massacrare dai suoi gladiatori, che tiene in armi per il danno dei soldati. Rispondi, Bleso: dove hai nascosto il cadavere? Quando avrò dato sfogo al mio dolore con baci, con lacrime, ordina che sia trucidato io pure, affinché gli uomini ci seppelliscano insieme, uccisi non per aver commesso un delitto, ma perché ci adoperavamo a vantaggio delle legioni». Rendeva ancor più acceso il suo dire col pianto, si percuoteva con le mani il petto e il volto. Poi, allontanò quelli che lo sostenevano su le spalle, balzò a terra e prostrandosi ai piedi di ciascuno, suscitò costernazione e furore a tal punto che alcuni dei soldati incatenarono i gladiatori di Bleso, alcuni i suoi schiavi, altri si sparsero alla ricerca del cadavere. E se ben presto non si fosse visto che non si trovava nessun cadavere e gli schiavi, sottoposti a tortura, non avessero dichiarato che non c’era stata alcuna uccisione e che quello non aveva mai avuto un fratello, non sarebbero andati molto lontano dall’assassinare il comandante. Comunque, espulsero i tribuni e il Prefetto dell’accampamento e distrussero i loro bagagli mentre fuggivano e uccisero il centurione Lucilio, al quale i soldati per scherno avevano appioppato il soprannome: «Un’altra!», perché quando gli si spezzava una verga su la schiena d’un soldato subito a gran voce ne chiedeva un’altra e poi un’altra ancora. Gli altri centurioni si rifugiarono in nascondigli; fu trattenuto uno, Giulio Clemente, ritenuto atto a farsi latore delle richieste dei soldati per la sua prontezza. E già la legione ottava e la quindicesima si apprestavano a impugnare le armi, poiché quella chiedeva la morte d’un centurione di nome Sirpico, questa lo difendeva, fino a che intervennero i soldati della nona con preghiere e, con quelli che non li ascoltavano, con minacce.»

TACITO, ANNALI, I, 22-23

A partire da Cesare la paga del legionario era di 225 denari annui, cioè 900 sesterzi. La cifra è modesta, ma garantiva ai soldati, reclutati spesso tra proletari che non generalmente avevano altre fonti di reddito, una modesta rendita, che insieme alla liquidazione che ricevevano al congedo (in denaro o terre) permetteva loro di farsi un piccolo appezzamento di terra o avviare una piccola attività commerciale. D’altro canto in alcune zone di frontiera, come la Germania e la Pannonia, la moneta circolava principalmente grazie alle paghe fornite all’esercito, che le reimmetteva nell’economia reale acquistando beni e servizi. Alla paga, già di per sé non elevata, venivano sottratte le spese per il cibo e i rifornimenti, come i vestiti.

Le condizioni però migliorarono nel corso del tempo: Domiziano aggiunse una quarta rata al pagamento (prima fatto in tre rate annuali) di 75 denari, portandolo a 300 denari (1.200 sesterzi). A partire dall’epoca di Marco Aurelio fu istituita l’annona militare, prima in via provvisoria, poi definitiva da Settimio Severo. Grazie all’annona veniva requisito o acquistato a prezzo conveniente per lo stato l’occorrente per l’esercito, vettovagliamento e armi da fornire all’esercito, che quindi non se lo vedeva più sottratto dalla paga. Dall’età dei severi inoltre la paga fu aumentata da Settimio Severo e di un altro 50% da Caracalla; inoltre venne garantito il matrimonio durante il servizio (prima consentito praticamente solo ai senatori) e dato l’accesso al ceto equestre ai primipili. Dal III secolo inoltre saranno sempre più frequenti i donativi, una tantum, in oro, dati all’esercito, che arricchiranno la paga e forniranno spesso il pretesto per acclamare un nuovo imperatore (il quale era tenuto a donare oro quando scelto).

I legionari potevano comunque ottenere paghe più alte: andando avanti con gli anni si scalavano i ranghi interni, divenendo immunes (esenti dai servizi gravosi) e sesquiplicarii (dalla paga di una volta e mezza). Erano questi i principales (ovvero i principali ufficiali della legione, circa 480):

  • beneficiarius
  • tesserarius
  • cornicen
  • bucinator
  • tubicen

Oppure duplicarii (dalla paga doppia):

  • aquilifer
  • imaginifer
  • cornicularius
  • optio (vice del centurione)
  • signifer
  • medicus
  • campidoctor

A questi si sommavano i legionari che svolgevano lavori come fabbri e artigiani e i centurioni, divisi in base alla centuria che comandavano.

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Equipaggiamento e tattiche

«Riguardo alla loro organizzazione militare, i romani hanno questo grande impero come premio del loro valore, non come dono della fortuna. Non è infatti la guerra che li inizia alle armi e neppure solo nel momento dei bisogno che essi la conducono […], al contrario vivono quasi fossero nati con le armi in mano, poiché non interrompono mai l’addestramento, né stanno ad attendere di essere attaccati. Le loro manovre si svolgono con un impegno pari ad un vero combattimento, tanto che ogni giorno tutti i soldati si esercitano con il massimo dell’ardore, come se fossero in guerra costantemente. Per questi motivi essi affrontano le battaglie con la massima calma; nessun panico li fa uscire dai ranghi, nessuna paura li vince, nessuna fatica li affligge, portandoli così, sempre, ad una vittoria sicura contro i nemici […]. Non si sbaglierebbe chi chiamasse le loro manovre, battaglie senza spargimento di sangue e le loro battaglie esercitazioni sanguinarie.»

GIUSEPPE FLAVIO, LA GUERRA GIUDAICA, III, 5.1.71-75

Gladio

Le prime armi adottate dai romani erano infatti simili a quelle greche e celtiche con cui erano entrati in contatto: xiphos a lama dritta e makhaira a lama curva all’inizio, poi anche spade di derivazione italo-celtica. Infine, a partire dal III secolo a.C., iniziarono a usare un’arma mutuata dai celtiberi con cui combattevano in Hispania, il gladius hispaniensis. Si suppone che la parola stessa venga dal celtico attraverso l’etrusco, proprio in quel periodo, da Kladi(b)os o Kladimos, che significa spada. Il termine diventerà l’equivalente italiano di spada, tanto da indicare l’arma in sé e l’intera categoria di gladiatori (“combattenti armati di spada”).

In ogni caso l’arma divenne l’unica utilizzata dai legionari nel corso del II secolo a.C., e tale resterà fino al II secolo d.C. (quando sarà progressivamente rimpiazzata dalla spatha). Portata sul fianco destro, per avere una rapida estrazione che non impacciasse lo scutum dopo il lancio del pilum, era lunga circa 60 cm in media, con una lama affilatissima e larga, fatta appositamente per pugnalare a morte. L’arma era talmente devastante che i macedoni rimasero inorriditi quando videro i loro morti, durante la seconda guerra macedonica, a Cinocefale, nel 197 a.C.:

«Quando [i macedoni] videro i corpi smembrati con la spada ispanica, le braccia staccate dalle spalle, le teste mozzate dal tronco, le viscere esposte ed altre orribili ferite […] un tremito di orrore corse tra i ranghi.»

LIVIO, AB URBE CONDITA LIBRI, XXXI, 34

Il modello ispanico, il primo, aveva praticamente sempre una lama di più di 60 cm, risultando tutt’altro che corto. Veniva utilizzato per colpi di punta micidiali, specialmente all’inguine, zona generalmente poco protetta e le cui ferite erano mortali. Successivamente, a partire dall’impero, vennero introdotti il modello Magonza Pompei, leggermente più corti; il primo aveva una forma particolare con la lama ondeggiata, più stretta al centro e più larga in punta, mentre il secondo era semplicemente una versione più piccola dell’hispaniensis

Pilum

Il pilum era il giavellotto usato dai legionari prima del corpo a corpo. Lanciato a breve distanza, aveva lo scopo di trafiggere l’uomo che si difendeva dietro lo scudo. Se questo non avveniva, era comunque impossibile continuare a combattere con il pilum incastrato, e se si provava a toglierlo si piegava o spezzava:

«I Romani, lanciando dall’alto i giavellotti, riuscirono facilmente a rompere la formazione nemica e quando l’ebbero scompigliata si gettarono impetuosamente con le spade in pugno contro i Galli; questi erano molto impacciati nel combattimento, perché molti dei loro scudi erano stati trafitti dal lancio dei giavellotti e, essendosi i ferri piegati, non riuscivano a svellerli, cosicché non potevano combattere agevolmente con la sinistra impedita; molti allora, dopo aver a lungo scosso il braccio, preferivano buttare via lo scudo e combattere a corpo scoperto.»

CESARE, DE BELLO GALLICO, I, 25

Scutum

Lo scudo, lungo più di un metro, era di forma ovale leggermente curva per proteggere meglio il corpo e usato dagli hastatiprincipes triarii (e successivamente dai legionari post mariani). Al centro un enorme umbone metallico, utilizzato anche come arma di offesa per colpire il nemico, specialmente in faccia, e una lunga spina di legno che lo tagliava trasversalmente in verticale per rafforzarlo; tale spina divenne superflua quando vennero introdotti scudi a forma di tegola a partire dal principato, che non necessitavano più della spina, ma solo dell’umbone, diventando anche più leggeri e pratici, oltre che lievemente più piccoli.

Ogni scutum era formato da diverse assi di legno sovrapposte e piegate, tenute insieme da colla, mentre lo strato esterno era dipinto o con figure animalesche che rappresentavano le legioni repubblicane (cavalli, tori, etc.) o, specialmente a partire dall’impero, simboli come saette. I bordi erano rafforzati da una lamiera di ferro, che lo rendeva più resistente ed evitava crepe in caso di fendenti particolarmente forti; nel retro dell’umbone, c’era l’impugnatura orizzontale, e dunque serviva anche a proteggere la mano. Altri reparti come i velites o i cavalieri usavano protezioni differenti, scudi più piccoli e generalmente tondi chiamati parma (i gladiatori infatti erano divisi tra le macro categorie di scutari e i parmularii a seconda della protezione). Infine, esternamente, lo scudo era ricoperto da una fodera in cuoio per proteggerlo dall’acqua e dall’umidità quando non veniva utilizzato.

Lo scutum permetteva un’ottima protezione anche contro le frecce, nonostante disastri come quello di Carre. Racconta infatti Cesare di un suo centurione che resistette a 120 frecce grazie al suo scudo:

«Così, in una sola giornata, si svolsero sei battaglie, tre presso Durazzo e tre presso le fortificazioni. Facendo un conto complessivo, calcolavamo a circa duemila uomini le perdite dei pompeiani, tra i quali molti richiamati e centurioni, e tra questi Valerio Fiacco, figlio di quel Lucio che era stato pretore in Asia; furono prese anche sei insegne militari. Le nostre perdite non ammontarono a più di venti uomini in tutti gli scontri. Ma non vi fu neppure un soldato, di quelli del fortino, che non riportasse delle ferite; quattro centurioni dell’ottava coorte persero la vista. Volendo presentare una prova della fatica e dei rischi che avevano corso, contarono davanti a Cesare circa tremila frecce scagliate contro il fortino e gli fu presentato lo scudo del centurione Sceva sul quale furono trovati centoventi fori. Cesare, per i meriti acquisiti verso di lui e la repubblica, gli fece un donativo di duecentomila sesterzi e lo promosse da centurione dell’ottava centuria a centurione primipilo – risultava infatti che in gran parte grazie al suo impegno il fortino si era salvato – premiò poi la coorte con doppia paga e una larga distribuzione di frumento, vesti, cibi e decorazioni militari.»

CESARE, DE BELLO CIVILI, III, 53

Lorica segmentata

Quando il triumviro Marco Linicio Crasso venne pesantemente sconfitto dai parti a Carre, nel 53 a.C., trovandovi la morte, Cicerone si accorse che l’equipaggiamento utilizzato non era adatto ad affrontare un nemico così mobile in pieno deserto. Diceva infatti al fidato Attico: “Contra equitem parthum negant ullam armaturam meliorem inveniri posse” (Ad familiares, 9, 25), ovvero “negano che si possa inventare un’armatura migliore per affrontare i cavalieri parti”. In questo caso Cicerone non fa riferimento ai catafratti, che i romani avevano già affrontato contro i seleucidi e Mitridate, ma bensì ai terribili hippotoxotai, gli arcieri a cavallo, che inondarono di frecce l’esercito di Crasso, impossibilitato a muoversi, poiché sotto la minaccia combinata dei catafratti.

Di fatto pochi anni dopo cominciò a divenire comune una nuova armatura, fatta di fasce di ferro che avvolgevano il torace: la lorica segmentata (letteralmente “armatura a segmenti), i cui rinvenimenti più antichi risalgono alla fine del I secolo a.C. e l’inizio del I d.C. I test moderni hanno determinato come effettivamente l’armatura non solo fosse lievemente più leggera di un’hamata (anche se meno confortevole), ma nettamente più resistente al lancio di dardi, che invece penetravano tra gli anelli o li spezzavano. Inoltre la lorica combinava anche una forte protezione contro fendenti e colpi dall’alto, che venivano dispersi grazie alle placche sovrapposte delle spalle, risultando quindi particolarmente utile pure nei combattimenti contro i barbari. Successivamente vennero impiegate anche nuove protezioni aggiuntive, come manicae segmentate per il braccio destro, per difendersi dalle falci daciche, forse rimodellate sulle protezioni in uso dai gladiatori, dalle quali a loro volta forse avevano tratto spunto per realizzare la segmentata.

Riguardo il suo nome le fonti tacciono e si possono fare solo ipotesi. La più accreditata la vorrebbe legata al termine clibanarius, che indicava un soldato particolarmente corazzato, legandolo anche a un passo di Ammiano Marcellino in cui parla di soldati clibanarii che seguivano l’imperatore Giuliano. Il termine tra l’altro in greco e poi nell’impero bizantino (klibanon) indicava appunto le armature lamellate che usavano i cavalieri catafratti. Probabilmente la parola greca, da cui deriva quella latina, viene da “kribanos” (teglia da forno per il pane). Non solo, sappiamo grazie alla Notitia Dignitatum, che esistevano fabbriche dedicate alla produzione di armature dette clibanariae, diverse dalle altre.

«et incedebat hinc inde ordo geminus armatorum clipeatus atque cristatus corusco lumine radians nitidis loricis indutus, sparsique cataphracti equites quos clibanarios dictitant, [personati] thoracum muniti tegminibus et limbis ferreis cincti ut Praxitelis manu polita crederes simulacra non viros quos laminarum circuli tenues apti corporis flexibus ambiebant per omnia membra diducti ut quocumque artus necessitas commovisset vestitus congrueret iunctura cohaerenter aptata»

«Marciava dall’una e dall’altra parte una doppia schiera di soldati rivestiti di lucide corazze, con scudi ed elmi adorni di creste risplendenti di luce corrusca. Venivano in ordine sparso i corazzieri a cavallo, chiamati di solito clibanari, i quali erano forniti di visiere e rivestiti di piastre sul torace. Fasce di ferro avvolgevano le loro membra tanto che si sarebbero creduti statue scolpite da Prassitele, non uomini. Erano coperti da sottili lamine di ferro disposte per tutte le membra ed adatte ai movimenti del corpo, di modo che qualsiasi movimento fossero costretti a compiere, la corazzatura si piegasse per effetto delle giunture ben connesse.»

AMMIANO MARCELLINO, XVI, X, 8

Il legionario “modello”

Il legionario dell’epoca di Traiano era armato con un elmo, una corazza (segmentata, hamata o squamata), lo scutum rettangolare, due pila e un gladio. A questi si aggiunsero gli schinieri tornati di moda per contrastare le falci daciche e vennero aggiunte delle maniche segmentate per lo stesso motivo. Anche gli elmi vennero rinforzati per resistere ai fendenti con una calotta a croce e delle tese e paranuche più ampie. La tattica della legione, distribuita su 10 coorti schierate in duplex o triplex acies (o due linee da 5 coorti o tre da 4, 3, 3 coorti), era di ingaggiare il nemico dopo il fuoco delle macchine come scorpioni e carroballiste (balliste montate su carri) e le raffiche di arcieri, frombolieri e ausiliari armati alla leggera. Il nemico già indebolito veniva caricato con il lancio dei pila a distanza ravvicinata, che erano stati rinforzati nell’ultimo secolo con una palla di piombo per aumentarne il danno. Il pilum generalmente trapassava lo scudo e se non lo faceva rendeva impossibile usarlo. Arrivati al corpo a corpo l’enorme esperienza e disciplina delle legioni, unita alla terribile efficacia del gladio, usato per pugnalare più che per menare fendenti, rendeva spesso la vittoria romana una mera questione di tempo.

Nella colonna di Traiano legionari e ausiliari appaiono ben distinti sia visivamente (i primi con scutum rettangolare e lorica segmentata, i secondi con lorica hamata e scudo ovale) sia tatticamente. I legionari infatti sembrano occuparsi principalmente di opere di ingegneria, mentre gli ausiliari combattono in prima linea, e mostrano alcune pratiche barbare che ne denotano l’origine (come le teste degli sconfitti che mostrano a Traiano). I legionari sembrano intervenire principalmente in occasioni di difficoltà e durante gli assedi, confermando la descrizione di pochi decenni prima di Giuseppe Flavio che li descrive come delle vere e proprie macchine da guerra da cui sarebbe più saggio fuggire che affrontare.

Veterani e congedo

Durante il principato, fino a Caracalla, gli ausiliari romani, reclutati in larga parte tra i peregrini (gli abitanti delle province conquistate da Roma che non erano cittadini romani), ricevevano al congedo, dopo 25 anni di servizio, la cittadinanza romana. Il documento che la attestava era un diploma militare, una tavoletta di bronzo, composta di due parti, sigillate. All’esterno della tavola frontale era scritto che il soldato aveva ottenuto la cittadinanza (emerita o honesta missio), in quella posteriore c’erano i sigilli con i nomi dei 7 testimoni. All’interno, per evitare contraffazioni, entrambe le tavole riportavano il testo della tavola frontale.

Una copia, anch’essa in bronzo, era inviata a Roma e conservata in Campidoglio e dopo i lavori intrapresi da Domiziano, alle spalle del tempio del divo Augusto, che era collocato probabilmente nella zona della Chiesa di Santa Maria della Consolazione. I diplomi, di cui ne sono stati trovati centinaia, erano sigillati poiché una volta giunto al luogo dove intendeva passare il “pensionamento” il soldato lo consegnava all’archivio cittadino o provinciale, dove veniva aperto e in questo modo si verificava che non fosse un falso. Dopo la Constitutio Antoniniana di Caracalla, che dava a tutti la cittadinanza, questi diplomi spariscono per i soldati comuni, e se ne ritrova ancora qualcuno nel III secolo per dei reparti speciali, come i pretoriani.

Tacito infine descrive così il servizio militare del suo tempo. il legionario deve praticamente pagarsi tutto, e ben lontani sono, nel I secolo d.C., i tempi dei grossi bottini che integravano la paga. In seguito gli imperatori saranno costretti a sempre più larghi donativi:

«Il servizio militare è, nella sua sostanza, faticoso e non rende nulla: l’anima e il corpo si valutano dieci assi al giorno e con questi si deve pagare gli indumenti, le armi, le tende, oltre a salvarsi dalle sevizie dei centurioni o per comprare qualche esenzione da qualche fatica.»

TACITO, ANNALES, I, 17

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Il legionario romano durante il Principato
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