Le legioni all’inizio del II secolo d.C. erano reclutate tra i cittadini romani, principalmente italici, ma anche ispanici, galli, siriani e pannoni. All’epoca di Traiano quelli che venivano dall’Italia rappresentavano all’incirca un terzo: i restanti erano discendenti dei soldati stanziati nelle province, a loro volta reclutati, o uomini raccolti sul posto, principalmente discendenti di veterani nelle colonie. In oriente tuttavia non era raro che i legionari venissero reclutati tra la popolazione autoctona e concessa la cittadinanza all’atto dell’immissione nell’esercito: in fondo l’oriente grecofono era già molto civilizzato.

Alle legioni si affiancavano poi gli auxilia, precedentemente raccolti alla bisogna tra i regni clienti e ora regolarizzati in una forza professionale (es. Cohors I BrittonumAla I Brittonum etc.), che invece erano raccolti in più piccoli castra che contenevano una sola coorte o ala ausiliaria, spesso collocati in prossimità del confine fortificato come per esempio in Germania, o talvolta anche oltre: per difendere la nuova provincia degli Agri Decumates, annessi da Domiziano, collocati tra il Reno e il Danubio, verranno creati una fittissima rete di piccoli forti ausiliari. Gli auxilia prenderanno comunque nomi latini e verranno comandati da ufficiali romani di estrazione equestre, la cui carriera venne normalizzata dall’imperatore Claudio.

«Regolò la carriera militare dei cavalieri in modo tale da dare loro prima il comando d’una coorte, poi di un’ala e poi il tribunato di una legione. Istituì gli stipendi e una sorta di milizia fittizia, chiamata soprannumeraria, in cui, senza prestare servizio, si poteva usufruire del titolo solo nominalmente.»

SVETONIO, CLAUDIO, 25

Oltre alle legioni, gli auxilia e i marinai della flotta erano presenti a Roma 9 coorti di pretoriani (poi diventate 10). Augusto le aveva stanziate in varie regioni italiane, ma già Tiberio decise di raggrupparle a Roma nei castra pretoria. In suo onore presero come simbolo lo scorpione, segno zodiacale dell’imperatore. Augusto creò anche un corpo di vigiles, divisi in 7 coorti (una ogni due quartieri in cui era divisa la città), reclutate perlopiù tra liberti, che avevano il compito di garantire la sicurezza dell’Urbe e fungere da pompieri all’occorrenza, demolendo gli edifici pericolanti per evitare il propagare delle fiamme. Infine tre coorti urbane (diventate poi cinque), sotto il controllo del prefetto dell’Urbe, un senatore, e quindi svincolate formalmente dal principe, completavano le forze di polizia di Roma.

L’imperatore aveva a sua disposizione per la sua difesa personale non solo i pretoriani, ma anche le guardie del corpo germaniche, usate per la prima volta da Cesare, chiamati germani corporis custodes, all’incirca 500-1.000 uomini, delle vere e proprie guardie private, perlopiù di origine batava. Sciolte dopo Nerone, furono riformate da Traiano come equites singulares, dei cavalieri scelti reclutati tra i migliori soldati a cavallo dell’impero. Erano alloggiati in un castra nel luogo dove oggi sorge la basilica di San Giovanni. Proprio l’accampamento, ormai inutile dopo lo scioglimento anche dei pretoriani dopo Costantino, funse da fondamenta per una delle prime basiliche di Roma.

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Condizioni della ferma

Inizialmente Augusto aveva prefissato una ferma di 16 anni e 4 come veterani, per un totale di 20 anni. Tuttavia le lunghe campagne militari in Illirico e Germania lo spinsero ad allungare i tempi a 25 anni, 20 di servizio e 5 come evocati (veterani). Finché Augusto fu in vita i legionari accettarono loro malgrado questa estensione, ma quando Tiberio divenne imperatore divampò la protesta, controllata solo grazie all’intervento di Druso minore. Fu in quell’occasione che venne ucciso anche il famoso centurione “cedo alteram“, ovvero “datemene un’altra”, così soprannominato perché era solito spezzare una verga sulla schiena dei legionari e chiederne subito un’altra.

A partire da Cesare la paga del legionario era di 225 denari annui, cioè 900 sesterzi. La cifra è modesta, ma garantiva ai soldati, reclutati spesso tra proletari che non generalmente avevano altre fonti di reddito, una modesta rendita, che insieme alla liquidazione che ricevevano al congedo (in denaro o terre) permetteva loro di farsi un piccolo appezzamento di terra o avviare una piccola attività commerciale.

D’altro canto in alcune zone di frontiera, come la Germania e la Pannonia, la moneta circolava principalmente grazie alle paghe fornite all’esercito, che le reimmetteva nell’economia reale acquistando beni e servizi. Alla paga, già di per sé non elevata, venivano sottratte le spese per il cibo e i rifornimenti, come i vestiti. Le condizioni però migliorarono nel corso del tempo: Domiziano aggiunse una quarta rata al pagamento (prima fatto in tre rate annuali) di 75 denari, portandolo a 300 denari (1.200 sesterzi). 

I legionari potevano comunque ottenere paghe più alte: andando avanti con gli anni si scalavano i ranghi interni, divenendo immunes (esenti dai servizi gravosi) e sesquiplicarii (dalla paga di una volta e mezza). Erano questi i principales (ovvero i principali ufficiali della legione, circa 480):

  • beneficiarius
  • tesserarius
  • cornicen
  • bucinator
  • tubicen

Oppure duplicarii (dalla paga doppia):

  • aquilifer
  • imaginifer
  • cornicularius
  • optio (vice del centurione)
  • signifer
  • medicus
  • campidoctor

A questi si sommavano i legionari che svolgevano lavori come fabbri e artigiani e i centurioni, divisi in base alla centuria che comandavano.

Una perfetta macchina da guerra

Scene 106: Following the Council of War Scene in 105, legionaries set out on a march. This close view shows in detail the gear worn by a Roman soldier heading off for war, with characteristic helmet (galea), segmented armor (lorica segmentata), rectangular shield (scutum), and sandals (caligae). From cast 282, now in the Museo della Civiltà Romana, Rome. Compare Cichorius Pl. LXXIX, scene106 and Coarelli Pls. 128-129. Ref: RBU2011.8172.

«Riguardo alla loro organizzazione militare, i romani hanno questo grande impero come premio del loro valore, non come dono della fortuna. Non è infatti la guerra che li inizia alle armi e neppure solo nel momento dei bisogno che essi la conducono […], al contrario vivono quasi fossero nati con le armi in mano, poiché non interrompono mai l’addestramento, né stanno ad attendere di essere attaccati. Le loro manovre si svolgono con un impegno pari ad un vero combattimento, tanto che ogni giorno tutti i soldati si esercitano con il massimo dell’ardore, come se fossero in guerra costantemente. Per questi motivi essi affrontano le battaglie con la massima calma; nessun panico li fa uscire dai ranghi, nessuna paura li vince, nessuna fatica li affligge, portandoli così, sempre, ad una vittoria sicura contro i nemici […]. Non si sbaglierebbe chi chiamasse le loro manovre, battaglie senza spargimento di sangue e le loro battaglie esercitazioni sanguinarie.»

GIUSEPPE FLAVIO, LA GUERRA GIUDAICA, III, 5.1.71-75

Ogni legione, divisa in dieci coorti, aveva un simbolo che la rappresentava, di origine animale, come un cinghiale o un lupo, mentre tutte avevano come insegna fin da Gaio Mario l’aquila, portata da un aquilifer. Questo era un simbolo sacro e perderlo in battaglia significava una disgrazia: non è un caso che Augusto si premurò di recuperare le insegne di Crasso prese dai parti a Carre e che Germanico trovò due delle tre aquile perse a Teutoburgo.

Al comando di una legione c’era un legatus legionis di estrazione senatoria e che doveva aver già ricoperto alcune cariche politiche; di solito dopo questo comando si otteneva una provincia propretoria e un consolato. Al di sotto del legato (che dipendeva dal governatore della provincia, il legatus Augusti pro praetore) c’erano 6 tribuni, di cui uno era un tribuno laticlavius di famiglia senatoria che svolgeva la sua prima esperienza militare e 5, angusticlavi (ossia dal clavio, il bordo color porpora della tunica, più sottile, per riconoscerli). Alcuni studiosi hanno supposto che i 5 tribuni potessero comandare ognuno 2 coorti e che il tribuno laticlavio fungesse da vice del legato.

Solo l’Egitto, che era amministrato come proprietà privata del principe, aveva come comandante di legione un cavaliere praefectus legionis agens vice legati. Successivamente Settimio Severo recluterà tre legioni partiche affidandole tutti a prefetti analoghi a questo. C’era infine, a controllare l’accampamento e la legione, un prefetto apposito, il praefectus castrorum, che si collocava un gradino sotto il tribuno laticlavio e uno sopra il primipilo.

Il legionario dell’epoca di Traiano era armato con un elmo, una corazza (segmentata, hamata o squamata), lo scutum rettangolare, due pila e un gladio. A questi si aggiunsero gli schinieri tornati di moda per contrastare le falci daciche e vennero aggiunte delle maniche segmentate per lo stesso motivo. Anche gli elmi vennero rinforzati per resistere ai fendenti con una calotta a croce e delle tese e paranuche più ampie. La tattica della legione, distribuita su 10 coorti schierate in duplex o triplex acies (o due linee da 5 coorti o tre da 4, 3, 3 coorti), era di ingaggiare il nemico dopo il fuoco delle macchine come scorpioni e carroballiste (balliste montate su carri) e le raffiche di arcieri, frombolieri e ausiliari armati alla leggera.

Il nemico già indebolito veniva caricato con il lancio dei pila a distanza ravvicinata, che erano stati rinforzati nell’ultimo secolo con una palla di piombo per aumentarne il danno. Il pilum generalmente trapassava lo scudo e se non lo faceva rendeva impossibile usarlo. Arrivati al corpo a corpo l’enorme esperienza e disciplina delle legioni, unita alla terribile efficacia del gladio, usato per pugnalare più che per menare fendenti, rendeva spesso la vittoria romana una mera questione di tempo.

Nella colonna di Traiano legionari e ausiliari appaiono ben distinti sia visivamente (i primi con scutum rettangolare e lorica segmentata, i secondi con lorica hamata e scudo ovale) sia tatticamente. I legionari infatti sembrano occuparsi principalmente di opere di ingegneria, mentre gli ausiliari combattono in prima linea, e mostrano alcune pratiche barbare che ne denotano l’origine (come le teste degli sconfitti che mostrano a Traiano). I legionari sembrano intervenire principalmente in occasioni di difficoltà e durante gli assedi, confermando la descrizione di pochi decenni prima di Giuseppe Flavio che li descrive come delle vere e proprie macchine da guerra da cui sarebbe più saggio fuggire che affrontare.

Scudi, spade, elmi, armi e corazze

Lo scudo, lungo più di un metro, era di forma ovale leggermente curva per proteggere meglio il corpo e usato dagli hastatiprincipes triarii (e successivamente dai legionari post mariani). Al centro un enorme umbone metallico, utilizzato anche come arma di offesa per colpire il nemico, specialmente in faccia, e una lunga spina di legno che lo tagliava trasversalmente in verticale per rafforzarlo; tale spina divenne superflua quando vennero introdotti scudi a forma di tegola a partire dal principato, che non necessitavano più della spina, ma solo dell’umbone, diventando anche più leggeri e pratici, oltre che lievemente più piccoli.

Ogni scutum era formato da diverse assi di legno sovrapposte e piegate, tenute insieme da colla, mentre lo strato esterno era dipinto o con figure animalesche che rappresentavano le legioni repubblicane (cavalli, tori, etc.) o, specialmente a partire dall’impero, simboli come saette. I bordi erano rafforzati da una lamiera di ferro, che lo rendeva più resistente ed evitava crepe in caso di fendenti particolarmente forti; nel retro dell’umbone, c’era l’impugnatura orizzontale, e dunque serviva anche a proteggere la mano. Altri reparti come i velites o i cavalieri usavano protezioni differenti, scudi più piccoli e generalmente tondi chiamati parma (i gladiatori infatti erano divisi tra le macro categorie di scutari e i parmularii a seconda della protezione). Infine, esternamente, lo scudo era ricoperto da una fodera in cuoio per proteggerlo dall’acqua e dall’umidità quando non veniva utilizzato.

Il pilum era il giavellotto usato dai legionari prima del corpo a corpo. Lanciato a breve distanza, aveva lo scopo di trafiggere l’uomo che si difendeva dietro lo scudo. Se questo non avveniva, era comunque impossibile continuare a combattere con il pilum incastrato, e se si provava a toglierlo si piegava o spezzava:

«I Romani, lanciando dall’alto i giavellotti, riuscirono facilmente a rompere la formazione nemica e quando l’ebbero scompigliata si gettarono impetuosamente con le spade in pugno contro i Galli; questi erano molto impacciati nel combattimento, perché molti dei loro scudi erano stati trafitti dal lancio dei giavellotti e, essendosi i ferri piegati, non riuscivano a svellerli, cosicché non potevano combattere agevolmente con la sinistra impedita; molti allora, dopo aver a lungo scosso il braccio, preferivano buttare via lo scudo e combattere a corpo scoperto.»

CESARE, DE BELLO GALLICO, I, 25

Le prime armi adottate dai romani erano simili a quelle greche e celtiche con cui erano entrati in contatto: xiphos a lama dritta e makhaira a lama curva all’inizio, poi anche spade di derivazione italo-celtica. Infine, a partire dal III secolo a.C., iniziarono a usare un’arma mutuata dai celtiberi con cui combattevano in Hispania, il gladius hispaniensis. Si suppone che la parola stessa venga dal celtico attraverso l’etrusco, proprio in quel periodo, da Kladi(b)os o Kladimos, che significa spada. Il termine diventerà l’equivalente italiano di spada, tanto da indicare l’arma in sé e l’intera categoria di gladiatori (“combattenti armati di spada”).

In ogni caso l’arma divenne l’unica utilizzata dai legionari nel corso del II secolo a.C., e tale resterà fino al II secolo d.C. (quando sarà progressivamente rimpiazzata dalla spatha). Portata sul fianco destro, per avere una rapida estrazione che non impacciasse lo scutum dopo il lancio del pilum, era lunga circa 60 cm in media, con una lama affilatissima e larga, fatta appositamente per pugnalare a morte. L’arma era talmente devastante che i macedoni rimasero inorriditi quando videro i loro morti, durante la seconda guerra macedonica, a Cinocefale, nel 197 a.C.:

«Quando [i macedoni] videro i corpi smembrati con la spada ispanica, le braccia staccate dalle spalle, le teste mozzate dal tronco, le viscere esposte ed altre orribili ferite […] un tremito di orrore corse tra i ranghi.»

LIVIO, AB URBE CONDITA LIBRI, XXXI, 34

Il modello ispanico, il primo, aveva praticamente sempre una lama di più di 60 cm, risultando tutt’altro che corto. Veniva utilizzato per colpi di punta micidiali, specialmente all’inguine, zona generalmente poco protetta e le cui ferite erano mortali. Successivamente, a partire dall’impero, vennero introdotti il modello Magonza Pompei, leggermente più corti; il primo aveva una forma particolare con la lama ondeggiata, più stretta al centro e più larga in punta, mentre il secondo era semplicemente una versione più piccola dell’hispaniensis

Infine per quanto riguarda l’armatura nel tempo i romani passarono da un equipaggiamento oplitico, all’armatura ad anelli gallica, la lorica segmentata, per tornare poi ad anelli e squamate. I romani durante la repubblica adottarono la lorica hamata (la cotta di maglia ad anelli) come principale armatura difensiva, tanto da diventare nel I secolo a.C. la protezione più diffusa tra i legionari. Tuttavia l’incontro con nuovi nemici li spinse a realizzare un nuovo modello di lorica, chiamato dai moderni segmentata, poiché non abbiamo idea di come la definissero gli antichi.

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Il legionario della Colonna Traiana
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