Una legione della media e tardo repubblica era composta da circa cinquemila uomini, suddivisi in 10 manipoli di hastati, principes e triarii ciascuno (la suddivisione era data sia dal censo che dall’età: i più poveri formavano i velites, i più ricchi gli equites), comandati da centurioni:

«Da ciascuna di queste classi, ad eccezione per quella dei più giovani, i tribuni scelgono, in base al merito, dieci ufficiali subalterni (centuriones priores); poi ne scelgono altri dieci (centuriones posteriores). Tutti loro sono chiamati centurioni e quello che è stato scelto per primo, entra a far parte del consiglio militare […] non si può sapere come si comporti un comandante o cosa possa succedergli, e comunque, le necessità della guerra non ammettono scuse, essi hanno come obbiettivo che il manipolo non rimanga mai senza un comandante. »

POLIBIO, STORIE, VI, 24, 1-2; 7

«L’ordine di battaglia dell’esercito romano è molto difficile da rompere, dal momento che consente a ogni uomo di combattere sia singolarmente che collettivamente […]»

Polibio, storie, XV, 15, 7

Secondo Polibio dunque la legione romana non era solo una macchina da guerra molto efficiente, ma lasciava anche spazio a combattimenti individuali, come sottolinea anche Tito Livio nel riportare il giuramento dei nuovi legionari:

«Non abbandonare mai i ranghi per timore o per fuga, ma solo per prendere o recuperare un’arma, per uccidere un nemico o per salvare un commilitone.»

tito livio, ab urbe condita libri, XXII, 38, 2-5

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Tattiche

In seguito alle guerre sannitiche l’esercito romano era andato strutturandosi nella sua forma classica descritta da Polibio nel II secolo a.C., diviso in base al censo. I meno abbienti e più giovani formavano i veliti, armati alla leggera, con scudo rotondo, giavellotti e spada. Il grosso delle legioni era invece formato dalla fanteria pesante, divisa in hastati, principes triarii. A questi si aggiungevano i cavalieri romani e gli alleati italici, organizzati in modo simile, e di numero generalmente all’incirca equivalente, posizionati sulle ali.

Gli hastati, come indica il nome, dovevano essere dotati in principio delle hastae, le lunghe lance in dotazione ai triarii, ma che già nel III secolo a.C. dovettero abbandonarle a favore del pilum. Completava l’equipaggiamento lo scutum ovale, l’elmo (specialmente Montefortino) e la spada, sostituita dalla seconda guerra punica dal gladio ispaniense, oltre a una placca di metallo che fungeva da corazza, e uno schiniere per la gamba sinistra, posizionata più avanti in combattimento. I principes, più abbienti e anziani, formavano la seconda linea, e potevano generalmente contare su alcuni equipaggiamenti migliori, come cotte di maglia (loricae hamatae), che fornivano migliore protezione. L’equipaggiamento offensivo era analogo a quello degli hastati. L’ultima linea era formata dai triarii (tanto che per i romani dire “arrivare ai triarii” significava giungere a una situazione disperata), raramente usati in battaglia e solo se le cose volgevano al peggio. Erano equipaggiati come i principes, ma erano dotati di una lunga lancia al posto del pilum, e pare attendessero lo scontro in ginocchio.

Infine i più abbienti, raccolti nelle diciotto centurie più abbienti degli equites durante i comizi centuriati, combattevano a cavallo, e se non potevano permetterselo gli veniva dato un cavallo pubblico, equus publicus. Tuttavia il combattimento a cavallo non era il preferito dai romani:

«Anche le lance non erano di alcuna utilità, principalmente per due motivi: prima di tutto, essendo sottili e fragili, non erano minimamente in grado di raggiungere il bersaglio e prima che la punta provasse a conficcarsi in qualcosa, spesso si spezzava a causa della vibrazione generata dal movimento del cavallo; [in secondo luogo], poiché erano costruite senza il puntale inferiore, potevano colpire di punta solo la prima volta, poi si spezzavano e non erano più utilizzabili.»

Polibio, Storie, VI, 25, 5-6

L’esercito veniva schierato su tre linee disposte a scacchiera, con i velites davanti gli hastati, e dietro di questi i principi; in ultima e terza fila i triarii, con centurie grandi generalmente la metà, mentre ai fianchi si disponevano i cavalieri e le coorti e ali ausiliarie dei socii. Le legioni non avevano un singolo comandante come in epoca imperiale, bensì erano comandate da sei tribuni militari:

«Da ciascuna di queste classi, ad eccezione per quella dei più giovani, i tribuni scelgono, in base al merito, dieci ufficiali subalterni (centuriones priores); poi ne scelgono altri dieci (centuriones posteriores). Tutti loro sono chiamati centurioni e quello che è stato scelto per primo, entra a far parte del consiglio militare […] non si può sapere come si comporti un comandante o cosa possa succedergli, e comunque, le necessità della guerra non ammettono scuse, essi hanno come obbiettivo che il manipolo non rimanga mai senza un comandante. »

Polibio, Storie, VI, 24, 1-2; 7

L’idea tattica alla base della legione manipolare era che quando una linea si stancava subentrava la successiva, con hastati e principes ad alternarsi, mentre i triarii subentravano solo in caso di assoluta necessità:

«Quando l’esercito aveva assunto questo schieramento, gli hastati iniziavano primi fra tutti il combattimento. Se gli hastati non erano in grado di battere il nemico, retrocedevano a passo lento e i principes li accoglievano negli intervalli tra loro. […] i triarii si mettevano sotto i vessilli, con la gamba sinistra distesa e gli scudi appoggiati sulla spalla e le aste conficcate in terra, con la punta rivolta verso l’alto, quasi fossero una palizzata… Qualora anche i principes avessero combattuto con scarso successo, si ritiravano dalla prima linea fino ai triarii. Da qui l’espressione in latino “Res ad Triarios rediit” (“essere ridotti ai Triarii”), quando si è in difficoltà.»

T. Livio, Ab Urbe Condita Libri VIII, 8, 9-12

Nonostante nel I secolo a.C. la coorte soppiantò il manipolo la tattica rimase sostanzialmente la stessa: una coorte (i tre manipoli di hastati, triarii e principes riuniti) combatteva in un schieramento di tre linee (4 davanti, 3 nelle due file posteriori) o più raramente due (5 e 5), dandosi il cambio con la coorte che le stava dietro. Tuttavia il maggior numero conferiva anche alla coorte la possibilità di compiere azioni tattiche più importanti, come assaltare piccoli forti o tenere posizioni che un singolo manipolo non avrebbe potuto tenere, o perfino raggruppate in più coorti potevano rinforzare un’intera ala di uno schieramento in difficoltà.

Combattimento

“Ora, un soldato romano con le sue armi ha bisogno di uno spazio libero di tre piedi [ca. 90 cm]. Secondo i metodi di combattimento romani, ogni uomo si muove separatamente: non solo difende il suo corpo con il lungo scudo, spostandolo in continuazione per evitare di essere colpito, ma, usando la sua spada di punta e di taglio, è ovvio quindi che una formazione più aperta sia necessaria, e che ogni uomo sia a una distanza di almeno tre piedi da quello al suo fianco e alle sue spalle […]”

POLIBIO, STORIE, XVIII, 30

Polibio lascia intendere che il legionario romano non combattesse solamente in formazione serrata, ma che l’ampio spazio che aveva attorno a sé servisse anche a prestazioni di coraggio individuale. Non solo, il tipo di combattimento romano presuppone l’individualità (il legionario deve essere in grado di colpire dove vuole e avere lo spazio attorno a sé), ma è un individualismo “di gruppo”, che è concesso nei limiti della formazione. Il legionario usa il gladio colpendo chi ritiene opportuno davanti ai suoi occhi; anche a questo serve il grandissimo scutum ovale. E’ infatti nell’ardore guerriero che si riconosce il vero cittadino romano: coraggioso, ma in grado di sottostare agli ordini. La possibilità di passare da uno schieramento più stretto a uno più largo è supportata anche da Cesare, che richiama all’uso dei manipoli quando ormai la coorte aveva preso il sopravvento:

«Cesare, riunite le insegne della XII legione, i soldati accalcati erano d’impaccio a se stessi nel combattere, tutti i centurioni della quarta coorte erano stati uccisi ed il signifer era morto anch’egli, dopo aver perduto l’insegna, quasi tutti gli altri centurioni delle altre coorti erano o feriti o morti […] mentre i nemici, pur risalendo da posizione da una posizione inferiore, non si fermavano e da entrambi i lati incalzavano i Romani […] Cesare vide che la situazione era critica […] tolto lo scudo ad un soldato delle ultime file […] avanzò in prima fila e chiamati per nome i centurioni, esortati gli altri soldati, ordinò di avanzare con le insegne allargando i manipoli, affinché potessero usare le spade. Con l’arrivo di Cesare ritornata la speranza nei soldati e ripresi d’animo […] desiderarono, davanti al proprio generale, di fare il proprio dovere con professionalità, e l’attacco nemico fu in parte respinto. Cesare avendo poi visto che anche la legione VII era incalzata dal nemico, suggerì ai tribuni militari che a poco a poco le legioni si unissero e marciassero contro il nemico voltate le insegne. Fatto questo, dopo che i soldati si soccorrevano vicendevolmente senza più aver paura di essere presi alle spalle dal nemico, cominciarono a resistere con maggior coraggio e a combattere più valorosamente. Frattanto le due legioni che erano state nelle retroguardie e di scorta alle salmerie [le legioni XIII e XIV] giunta notizia della battaglia, presero a correre a gran velocità […] Tito Labieno dopo aver occupato il campo nemico, e visto quanto accadeva nel nostro campo da un’altura, mandò in soccorso ai nostri la legione X.»

Cesare, De bello Gallico, II, 25-26

L’episodio della battaglia del fiume Sabis contro i nervi nel 57 a.C. è un altro evento che denota l’attaccamento dei soldati al comandante: nonostante i romani fossero in netta difficoltà e anche accerchiati, riescono, con l’incitamento di Cesare, a ribaltare le sorti dello scontro in loro favore. Dunque possibilità di combattere in modo “stretto” o “largo” a seconda della situazione, ma esiste sempre la possibilità di uscire dai ranghi: è quello di salvare qualcuno o di evitare l’onta pubblica; in tal caso l’azione non solo è permessa, ma è perfino auspicabile:

«[i legionari che hanno perso un’arma in combattimento] si lanciano temerariamente contro i nemici, con la speranza di recuperare l’arma perduta o di schivare con la morte l’onta inevitabile e gli insulti dei propri cittadini.»

POLIBIO, STORIE, VI, 37, 1-4

E infatti ancora una volta Cesare torna in aiuto per comprendere questo “coraggio virtuoso” accettato dai romani e considerato da questi come disciplinato, mentre per noi la disciplina è un insieme di regole a cui sottostare senza porsi eccessive domande:

«C’erano in quella legione due centurioni, due uomini coraggiosissimi, che già si avviavano a raggiungere i gradi più alti, Tito Pullone e Lucio Voreno. Erano in continua competizione tra di loro, per chi dei due sarebbe stato anteposto all’altro, e ogni anno lottavano con accesa rivalità per far carriera. Mentre si combatteva con grande accanimento sulle fortificazioni, Pullone disse: «Che aspetti Voreno? Che promozione vuoi avere come premio per il tuo coraggio? Questa è la giornata che deciderà delle nostre controversie». Detto questo, esce allo scoperto e irrompe dove più fitto è lo schieramento nemico. Neppure Voreno, allora, resta al coperto ma, temendo il giudizio degli altri, lo segue. Quasi addosso al nemico, Pullone lancia il giavellotto e trapassa uno dei loro che, staccatosi dal gruppo, correva ad affrontarlo. I nemici lo soccorrono esanime, proteggendolo con gli scudi, mentre tutti lanciano frecce contro di lui, bloccandolo. Un’asta trapassa lo scudo di Pullone e si conficca nel balteo, spostando il fodero della spada e, mentre egli si trova impacciato e perde tempo nel tentativo di estrarre l’arma, viene circondato dai nemici. Il suo avversario, Voreno, si precipita a soccorrerlo nella difficile situazione. Tutta la massa dei nemici si volge allora contro Voreno, ritenendo l’altro trafitto dall’asta. Voreno si batte corpo a corpo con la spada e, ucciso un nemico, respinge gli altri di poco, ma mentre incalza con foga, cade scivolando in una buca. Circondato a sua volta, viene aiutato da Pullone e ambedue, dopo aver ucciso molti nemici e acquistato grande onore, riparano incolumi all’interno delle fortificazioni. Così la fortuna volle, nella contesa e nel combattimento, che, sebbene avversari, si recassero reciproco aiuto e si salvassero l’un l’altro la vita, e non si potesse stabilire quale dei due fosse il più coraggioso.»

CESARE, DE BELLO GALLICO, V, 44

La disciplina romana è dunque legata a doppio filo a una virtus bellica, una competizione fra commilitoni, all’interno di un pericolo di regole ben definite, tra cui non abbandonare ciecamente i ranghi. Ma se si presentava l’occasione non solo era consentito, ma era considerato un massimo esempio di virtù farlo, come ricorda ancora Cesare durante il suo primo sbarco in Britannia, quando l’aquilifero si gettò in acqua da solo contro i britanni, per spronare i compagni all’azione:

«I barbari, infatti, colpiti dalla forma delle navi, dal movimento dei remi e dal singolare aspetto delle macchine da guerra, si arrestarono e arretrarono leggermente. Ma, dato che i nostri soldati esitavano, per timore soprattutto delle acque profonde, l’aquilifero della x legione, invocati gli dèi affinché il suo gesto portasse fortuna alla legione, «Saltate giù», disse, «commilitoni, se non volete consegnare l’aquila al nemico; per conto mio, io avrò fatto il mio dovere verso la Repubblica e il generale». Gridate queste parole, saltò giù dalla nave e cominciò a portare l’aquila contro i nemici. Allora i nostri, esortandosi l’un l’altro a non tollerare un tale disonore, si gettarono tutti dalla nave. Quando dalle navi vicine li videro, anche gli altri soldati li seguirono ed avanzarono contro il nemico. Si combatté accanitamente da entrambe le parti. Tuttavia i nostri, non potendo mantenere lo schieramento né trovare un sicuro punto d’appoggio né porsi sotto le proprie insegne, poiché sbarcando chi da una nave chi da un’altra si aggregavano alla prima insegna che capitava, erano in una situazione di grande confusione. I nemici invece, conoscendo tutti i bassifondi, appena dalla spiaggia avvistavano gruppi isolati di soldati che toccavano terra, spronati i cavalli, li assalivano mentre si trovavano in difficoltà, circondandoli in massa, mentre altri, dal fianco scoperto, lanciavano frecce sul grosso dell’esercito. Cesare, appena se ne accorse, ordinò che si calassero in mare le scialuppe delle navi da guerra e i battelli da ricognizione carichi di soldati e li inviava in aiuto di quanti vedeva in difficoltà. I nostri, appena toccarono terra e furono raggiunti da tutti gli altri, caricarono il nemico e lo misero in fuga, ma non poterono protrarre l’inseguimento, perché le navi con la cavalleria non avevano potuto mantenere la rotta e raggiungere l’isola. Solo questo mancò alla consueta fortuna di Cesare.»

CESARE, DE BELLO GALLICO, IV, 22-26

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