«Per dieci anni fece parte del triumvirato per la riorganizzazione dello Stato. In esso, per qualche tempo veramente resistette ai colleghi perché non si facessero proscrizioni, ma, una volta iniziate, le esercitò più spietatamente degli altri due. In effetti, mentre quelli, dinanzi a molte personalità, si mostravano spesso arrendevoli alle influenze e alle preghiere, lui solo insistette molto perché non si risparmiasse nessuno, e arrivò a proscrivere il suo tutore Gaio Toranio, che per giunta era stato collega di suo padre Ottavio nella carica di edile. Giulio Saturnino riferisce in più anche questo, che allorché, conclusa la proscrizione, Marco Lepido in Senato giustificava il passato e prospettava una speranza di clemenza per il futuro giacché si era punito abbastanza, lui al contrario dichiarò di aver fissato come limite alle proscrizioni il momento in cui avesse completamente mano libera. Ciò nonostante, in compenso di tanta ostinazione, onorò più tardi con la dignità di cavaliere Tito Vinio Filopèmene, perché si diceva che a suo tempo avesse tenuto nascosto il suo patrono proscritto. Durante l’esercizio di questa stessa magistratura accese molti odii contro di sé. Una volta, mentre teneva un discorso alle truppe – e c’era presente anche una folla di civili – notò che un certo Pinario, cavaliere romano, prendeva furtivamente qualche appunto; allora, ritenendolo un curioso o una spia, lo fece ammazzare seduta stante. A Tedio Afro, console designato, per aver criticato con parole maligne un suo atto, incusse tanta paura con le sue minacce, che quello si buttò giù nel vuoto. Il pretore Quinto Gallio durante la cerimonia del saluto teneva sotto la toga un dittico di tavolette; Augusto sospettò che nascondesse un’arma; ma, non osando sul momento indagare oltre, perché non si trovasse dell’altro, lo fece poco dopo da centurioni e soldati trascinare via dal tribunale e sottoporre a tortura come uno schiavo; non confessò nulla, ma egli lo fece uccidere dopo avergli cavato gli occhi di sua mano. Veramente, egli scrive che Gallio, chiestogli un colloquio, aveva attentato alla sua vita, per cui lo aveva gettato in prigione; poi lo aveva rilasciato interdicendogli però la capitale; e quello era perito per naufragio o per un attacco di pirati. Ricevette la potestà tribunizia a vita: in essa, una prima e una seconda volta si aggregò per cinque anni un collega. Gli attribuirono anche la sovrintendenza ai costumi e alle leggi, anch’essa a vita. Con questa prerogativa, anche senza la carica di censore, fece però tre volte il censimento della popolazione, il primo e il terzo con un collega, il secondo da solo.»

SVETONIO, AUGUSTO, 27

Nel novembre del 43 a.C. Ottaviano, ottenuto il peso politico e la credibilità necessaria dato che era appena diciannovenne quando Cesare lo aveva adottato per testamento (avendo sconfitto Marco Antonio a Modena), strinse un patto costituzione di riforma della repubblica, il secondo triumvirato, con Marco Emilio Lepido e Marco Antonio. A sancirlo fu la lex Titia, ratificata il 27 novembre 43 a.C. I tre triumviri avevano poteri straordinari e al di sopra di chiunque altro. Nonostante pochi mesi prima Antonio accusasse Ottaviano di aver cercato di farlo assassinare, accettò, ma chiese in cambio la testa di Cicerone. Ottaviano non esitò ad accettare. Sconfitti in seguito i cesaricidi a Filippi, in Grecia, nel 42 a.C., i meriti di Antonio in battaglia e l’anzianità gli permisero di avere tutto l’oriente e la Gallia, Lepido, il più anziano, ebbe la Spagna e l’Africa. Ottaviano riuscì ad avere solo l’Italia, con cui sperava di controllare il senato e i veterani di Cesare.

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Il Principato

Rinnovato con il trattato di Taranto del 38 a.C. il triumvirato per altri cinque anni, Antonio iniziò la campagna partica nel 36 a.C., non senza qualche difficoltà, con i romani costretti a ritirarsi inseguiti dai nemici. Infatti Ottaviano non gli aveva ancora inviato le legioni promesse, asserendo che gli servissero contro Sesto Pompeo che era venuto meno ai patti di Brindisi. Nel giro di poco Ottaviano prese anche la Sicilia e sottrasse l’Africa a Lepido, divenendo padrone di tutto il Mediterraneo occidentale. Nel frattempo sia Ottavia che Cleopatra erano rimaste incinta, dandogli dei figli. Antonio, d’altra parte, aveva praticamente ripudiato e relegato ad Atene la moglie Ottavia, sorella di Ottaviano.

Nel frattempo anche Lepido aveva perso ogni potere politico, mantenendo la sola carica di pontifex maximus. Il casus belli furono, nel 33 a.C., allo scadere del triumvirato (non più rinnovato), le donazioni di Alessandria, con cui Antonio dava ai figli suoi e di Cleopatra territori appartenenti alla repubblica e soprattutto il testamento di Antonio, rubato e letto in senato, in cui chiedeva di essere seppellito a Alessandria e donare territori della repubblica ai suoi figli. Lo scontro avvenne ad Azio, in Grecia, il 2 settembre del 31 a.C. Nonostante la superiorità numerica Agrippa riuscì a battersi ad armi pari, finché Cleopatra si diede alla fuga e Antonio la seguì: l’esercito di Antonio e tutte le sue legioni si arresero e passarono dalla parte di Ottaviano. L’anno seguente Ottaviano entrò a Alessandria e trovò Antonio e Cleopatra morti.

«Augusto assunse cariche ed onori anche prima del tempo legale, alcune poi nuove ed a vita. Si pigliò il consolato a diciannove anni, avvicinando a Roma minacciosamente le sue legioni e inviando chi lo chiedesse per lui a nome dell’esercito; e poiché il Senato si mostrava esitante, il centurione Cornelio, capo della delegazione, gettò indietro il mantello, mostrando l’impugnatura della spada, e non esitò a dire in piena Curia: «Lo farà questa, se non lo farete voi». Esercitò il secondo consolato dopo nove anni, e il terzo con l’intervallo di un solo anno; i successivi, fino all’undicesimo, tutti di séguito. Dopo averne rifiutati molti che gli venivano conferiti, chiese egli stesso, dopo un lungo intervallo – erano trascorsi diciassette anni – il dodicesimo, e, due anni dopo, il tredicesimo: voleva accompagnare nel Foro rivestito della suprema magistratura i due figli Gaio e Lucio per il loro tirocinio, ciascuno a suo turno. I cinque consolati centrali – dal sesto al dodicesimo – li esercitò per tutto l’anno, gli altri, invece, o per nove mesi, o per sei o per quattro o per tre; il secondo, poi, per pochissime ore: il primo di gennaio sedette per un po’ sul seggio curule dinanzi al tempo di Giove Capitolino, poi rinunciò alla carica, mettendo un altro al suo posto. Non tutti i consolati inaugurò a Roma: il quarto in Asia, il quinto nell’isola di Samo, l’ottavo e il nono a Tarragona.»

SVETONIO, AUGUSTO, 26

Ottaviano sciolse molte legioni e congedò i veterani (ne aveva ormai oltre 60). Ne restarono 28, ridotte a 25 dopo il disastro di Teutoburgo nel 9 d.C. (la XVII, XVIII e XIX non furono più ricostrute). Aveva il comando di tutte le legioni esistenti e le pagava direttamente (Cesare aveva stabilito un salario fisso, rimasto invariato fino all’età di Domiziano). La leva fu fissata a 16 anni più 4 come “riserve”, ma fu poi costretto ad aumentarla, non senza resistenze, a 25 (20 di leva e 5 di riserva). La maggior parte delle entrate fiscali (convogliate più o meno direttamente nelle casse “private”) servivano a pagare l’esercito.

«Sebbene il popolo gli offrisse con grande insistenza la dittatura, egli, piegato in ginocchio, tiratasi giù dalle spalle la toga e denudatosi il petto, supplicò di non addossargliela. Respinse sempre con orrore, come un insulto infamante, l’appellativo di padrone. Una volta, mentre egli assisteva allo spettacolo, poiché in un mimo era stata recitata l’espressione: O giusto e buon padrone! tutti quanti, come se fossero pienamente d’accordo che il verso si riferisse a lui, applaudirono esultanti; Augusto prima frenò quelle indecorose adulazioni con la mano e con il volto, poi, l’indomani, le redarguì con un durissimo comunicato. Da allora non tollerò di essere chiamato padrone nemmeno dai suoi figli o nipoti, né sul serio né per gioco, e vietò simili piaggerìe anche tra loro stessi.»

SVETONIO, AUGUSTO, 52-53

Rimasto solo, Ottaviano rimise tutti i poteri, ritornando formalmente ad essere un privato cittadino. Dal 30 al 23 a.C. ricoprì ininterrottamente il consolato, motivo per cui i senatori decisero, dopo il suo rifiuto a prendere il consolato o la dittatura perpetua, a trovare una soluzione. Nel 27 a.C. il senato gli attribuì il titolo di Augustus. Sommati a una serie di poteri straordinari (l’imperium proconsulare maius, ossia il comando militare assoluto, il titolo di princeps senatus, la possibilità di parlare per primo in senato), ottenne sostanzialmente il potere assoluto sebbene da privato cittadino (anche se gli veniva dato quasi annualmente il consolato). Nel 23 a.C. ricevette l’ultimo potere che legittimava la sua “superiorità”: una tribunicia potestas a vita, che gli permetteva di essere sacro e inviolabile come i tribuni della plebe e gli concedeva la possibilità di porre il veto a qualunque azione del senato. Inoltre, alla morte di Lepido assunse il titolo di pontefice massimo, in modo da essere la massima autorità religiosa. Infine nel 2 a.C. ottenne il titolo di pater patriae.

“Due volte Augusto pensò di restaurare la repubblica: una prima volta sùbito dopo fiaccato Antonio, ricordando che da questo gli era stato ripetutamente rinfacciato che dipendeva proprio da lui il fatto che essa non fosse restaurata; poi, di nuovo, perché stanco di una lunga malattia. In questa occasione, anzi, convocate le autorità e il Senato in casa sua, consegnò loro un rendiconto finanziario dell’impero. Ma, considerando che come privato cittadino egli sarebbe stato sempre in pericolo, e che era rischioso affidare lo Stato all’arbitrio di più persone, continuò a tenerlo in pugno lui. Non si sa se con migliore risultato o con migliore intenzione. Questa intenzione egli non solo la sbandierò di tanto in tanto, ma una volta giunse a proclamarla in un comunicato ufficiale: «Vorrei proprio che mi fosse possibile rimettere al suo posto sana ed indenne la repubblica, e godere il frutto che io cerco di questa restaurazione, di essere detto cioè fondatore di un ottimo Stato, e di portare con me, morendo, la speranza che rimangano salde le fondamenta dello Stato, quali io avrò gettato». Ed egli stesso fu realizzatore del suo voto, sforzandosi in ogni modo a che nessuno avesse a dolersi della nuova situazione. La città non era adorna in proporzione della sua maestà, ed era esposta a inondazioni e ad incendi: ebbene, egli la abbellì a tal punto che giustamente si potè gloriare di lasciarla di marmo, mentre l’aveva ricevuta di mattoni. E, per quanto una mente umana poteva prevedere, la rese sicura anche per l’avvenire.”

SVETONIO, AUGUSTO, 28

L’impero “costituzionale”

I successori di Augusto furono suoi discendenti e dunque in qualche modo legittimati a detenere il primato politico in quanto tutti facenti parte della famiglia Giulio-Claudia. Tuttavia alla morte di Nerone nel 68 non ci furono più eredi, per cui il potere venne assunto, alla fine della guerra civile, da Vespasiano. Si poneva ora il problema della sua legittimità; impose che la data di inizio del suo imperium fosse il 1 luglio del 69, data in cui l’avevano acclamato imperatore le legioni e non dicembre, cioè quando Vitellio era stato sconfitto; a tal proposito, per controllare il senato, ricoprì anche la censura, immettendo molti italici e provinciali.

Si decise dunque di promulgare una Lex de imperio Vespasiani, in cui gli venivano concessi con un unico mandato tutti i poteri imperiali: imperium proconsulare maius, tribunicia potestas, pontificato massimo etc. Il testo, riscoperto nel 1347 da Cola di Rienzo e giunto miracolosamente in parte integra a noi (una tavola bronzea che stava nella Basilica di San Giovanni in Laterano, ora si trova nei Musei Capitolini), racchiudeva otto clausole, di cui la terza e la quarta senza precedenti:

1.[che all’imperatore Cesare Vespasiano Augusto]
sia lecito concludere trattati con chiunque voglia, così come fu consentito al divo Augusto, a Tiberio Giulio Cesare Augusto e a Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico;

2.che gli sia consentito di convocare e presiedere il senato, sottoporre o rimettere (al senato) il tema della consultazione, far votare i senatusconsulta tramite la presentazione di una proposta o senza discussione, così come fu consentito al divo Augusto, a Tiberio Giulio Cesare Augusto, Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico;

3.che quando il senato sia convocato per sua volontà o autorità, ordine o mandato o comunque in sua presenza si mantenga e si conservi nello stesso modo la pienezza del diritto, come se il senato fosse stato convocato e si tenesse in base alla legge ( lex Iulia de senatu habendo promulgata da Augusto nel 9 a.C.);

4.che nei comizi elettorali si tenga conto, al di fuori dell’ordine dei candidati a una magistratura, a una potestà, imperium o a una curatela che egli abbia raccomandato al senato e al popolo romano oppure ai quali abbia dato o promesso la propria preferenza;

5.che gli sia consentito di ampliare ed estendere i confini del pomerio, quando riterrà che sia utile per la res publica, così come fu consentito a Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico;

6.che egli abbia il diritto e il potere di compiere e realizzare qualunque cosa riterrà utile alla res publica e consono alla grandezza delle questioni divine, umane, pubbliche e private, così come fu per il divo Augusto, per Tiberio Giulio Cesare Augusto, per Tiberio Claudio Cesare Augusto
Germanico;

7.che l’imperatore Cesare Vespasiano sia svincolato da quelle leggi e da quei plebisciti dai quali fu scritto che non fossero vincolati il divo Augusto o Tiberio Giulio Cesare Augusto o Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico e che all’imperatore Cesare Vespasiano Augusto sia consentito compiere tutte quelle cose che fu necessario che facessero, in base a qualsiasi legge o proposta, il divo Augusto, Tiberio Giulio Cesare Augusto o Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico;

8.che tutto ciò che prima di questa legge sia stato compiuto, realizzato, decretato, ordinato dall’imperatore Cesare Vespasiano Augusto o da chiunque su suo ordine o mandato sia valido come se fosse stato compiuto per ordine del popolo o della plebe.


SANCTIO
Se qualcuno, in forza della presente legge, abbia compiuto o avrà compiuto atti contrari a leggi, proposte, plebisciti o senatoconsulti oppure se, in forza della presente legge, non avrà compiuto quello che dovrà compiere in base a una legge, proposta, plebiscito o senatoconsulto, non subisca danno, nessuno debba rendere conto al popolo per questi fatti, nessuno sia accusato o citato in giudizio per questi fatti, nessuno consenta che presso di sé si intenti un processo per questi fatti.

Nella metà (o forse più) che non è stata ritrovata, dovevano apparire le funzioni istituzionali principali dell’imperatore, ovvero la tribunicia potestas e l’imperium proconsulare maius, poteri forse votati nei comizi. Non sappiamo neanche se fossero previsti altri atti che descrivessero l’iter di entrata in funzione di questa lex e se quest’ultima sia stata un’eccezione o se invece venisse votata per ogni imperatore: in questo caso dopo l’acclamazione e il senatoconsulto che ne riconosceva la legittimità, i comizi avrebbero dovuto votare l’approvazione o meno della legge che riconosceva l’imperatore come tale.

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Il passaggio dalla repubblica all’impero
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