Dopo la fondazione di Roma Romolo creò un asylum per accogliere gli stranieri. Infatti la città appena nata era formata da fuggitivi, schiavi liberati, contadini e pastori; un’estrazione tutt’altro che nobile. Il primo re si appellò dunque ai popoli vicini per rinfoltire le sue schiere, tuttavia mancava ancora un elemento fondamentale: le donne. Perciò invitò i vicini sabini ad assistere ad una corsa di carri nell’area in cui sarebbe sorto il circo Massimo, all’epoca ancora paludosa.

«Dopo la fondazione Romolo riunì uomini errabondi, indicò loro come luogo di asilo il territorio compreso tra la sommità del Palatino e il Campidoglio e dichiarò cittadini tutti coloro dei vicini villaggi che si rifugiassero lì.»

STRABONE, GEOGRAFIA, V, 3,2

«Già la potenza di Roma era così solida da poter fare fronte in guerra a qualsiasi delle città confinanti, ma mancando le donne la sua grandezza sarebbe durata lo spazio di una generazione, non avendo né speranza di prole in patria né facoltà di connubio con i vicini. Allora per consiglio del senato Romolo mandò ambasciatori alle genti vicine, a chiedere alleanza e diritto di matrimonio per il nuovo popolo: dicevano che anche le città, come ogni altra cosa, nascono dal basso; poi quelle che sono aiutate dalla virtù e dagli dèi raggiungono grande potenza e fama; sapevano che gli dèi avevano assistito il sorgere di Roma e che la virtù non sarebbe mancata, quindi non disdegnassero di mescolare, uomini con altri uomini, il sangue e la stirpe. In nessun luogo l’ambasceria fu accolta benevolmente; a tal punto disprezzavano e insieme temevano per sé e per i discendenti quella così grande potenza che cresceva in mezzo a loro. I più congedavano i Romani domandando se mai avessero aperto un asilo anche per le femmine: quello davvero sarebbe stato un degno accoppiamento. La gioventù di Roma mal sopportò l’affronto, e decise senza indugio di ricorrere alla violenza; per offrire a questa tempo e circostanze opportune, Romolo dissimulando l’interna amarezza preparò a bello studio dei giochi solenni in onore di Nettuno equestre, cui diede il nome di Consuali. Quindi fa bandire lo spettacolo presso i vicini, e lo allestiscono con la maggior grandiosità di cui allora fossero capaci, per accrescerne la fama e l’attesa. Molta folla accorse, attirata anche dal desiderio di vedere la nuova città, soprattutto dalle città più vicine, da Cenina, da Crustumerio e da Antemna; venne poi tutta la popolazione dei Sabini con i figli e le mogli. Invitati ospitalmente nelle abitazioni, dopo aver osservato la posizione, le mura e il gran numero degli edifici, si stupirono che in così breve tempo già tanto Roma si fosse sviluppata.»

tito livio, AUC, I, 9, 1-9

Romolo voleva unire romani e sabini, ma molti non erano d’accordo. Perciò decise di usare la forza: i sabini sarebbero stati invitati con l’inganno e le donne prese con la forza, per unire il seme romano col ventre sabino. I romani si prepararono dunque a compiere il rapimento in cui tutti i sabini erano distratti dalla corsa; moltissimi erano i presenti, curiosi di vedere la nuova città. L’atto, studiato e repentino, fu un successo, mentre tra i sabini scoppiava in panico:

«Quando giunse il momento dello spettacolo, mentre l’attenzione e gli occhi di tutti su quello erano concentrati, allora secondo il piano prestabilito cominciò il tumulto, e al segnale convenuto i giovani romani si gettarono a rapire le vergini. Per gran parte furono rapite a caso, secondo che a ciascuno capitavano sotto mano, ma alcune che si distinguevano per bellezza, destinate ai più eminenti senatori, furono portate alle case di questi da uomini della plebe cui era stato affidato quest’incarico. Narrano che una fanciulla di gran lunga superiore alle altre per la bellezza dell’aspetto fu rapita dalla squadra di un certo Talassio, e ai molti che domandavano dove mai la portassero ripetutamente gridavano, perché nessuno le recasse molestia, che la portavano a Talassio; da allora in poi questo grido divenne rituale nelle cerimonie nuziali. Dopo che sui giochi fu gettato lo scompiglio e lo spavento, i genitori delle vergini afflitti fuggono, lamentando la violazione del patto di ospitalità e invocando il dio del quale erano venuti a celebrare la festa e i giochi, rimanendo poi ingannati in dispregio della legge divina e della parola data. Non migliore speranza nella loro sorte né minore sdegno avevano le rapite. Ma lo stesso Romolo andava in giro a convincerle che ciò era avvenuto per la superbia dei genitori, i quali avevano negato il diritto di matrimonio ai loro vicini; esse tuttavia sarebbero state considerate come mogli legittime, e avrebbero condiviso con gli uomini il possesso di tutti i beni, della cittadinanza, e dei figli, cosa di cui nessun’altra è più cara all’umano genere; placassero dunque lo sdegno, e offrissero il loro animo a coloro cui la sorte aveva concesso il corpo. Spesso da un’offesa nasce poi un maggiore affetto, ed esse avrebbero trovato i mariti tanto più premurosi, in quanto ciascuno, oltre all’adempiere i suoi doveri di sposo, si sarebbe sforzato di non far sentire la lontananza dei genitori e della patria. Alle parole di Romolo si aggiungevano le blandizie dei mariti, i quali adducevano a giustificazione dell’accaduto la passione amorosa, argomento quanto mai efficace a piegare gli animi femminili.»

tito livio, AUC, I, 9, 10-16

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Il ratto

Al segnale convenuto Romolo e i suoi estrassero le armi e catturarono le figlie dei ceninensi, crustumini, anemnati e sabini, lasciandone fuggire i padri. Ovviamente il gesto dei romani creò grande imbarazzo nei sabini e nei popoli vicini, che reclamavano vendetta; Romolo, che giustificava il gesto poiché tutte le donne catturate erano vergini o non sposate (tranne Ersilia), dovette affrontare anche delle razzie, con successo:

«L’animo delle rapite si era ormai molto calmato, ma i loro padri più che mai accendevano i concittadini con manifestazioni di lutto, pianti e lamenti. Né contenevano nelle loro città gli sdegni, ma si riunivano da ogni parte presso Tito Tazio, re dei Sabini; colà affluivano le ambascerie, perché il prestigio di Tazio era grandissimo in quella regione. I Ceninesi, i Crustumini e gli Antemnati erano fra i popoli colpiti da quella offesa; ad essi parve che Tazio e i Sabini tardassero troppo ad agire, e quindi si accordarono di intraprendere la guerra da soli. Neppure i Crustumini e gli Antemnati si muovevano abbastanza in fretta per l’ardore e l’ira dei Ceninesi, perciò il popolo di Cenina da solo invade il territorio romano. Ma mentre disordinatamente devastano le campagne, viene loro incontro con l’esercito Romolo, e con un facile scontro dimostra che vana è l’ira senza la forza. Sbaraglia e mette in fuga l’esercito nemico, lo insegue in rotta, uccide il re in battaglia e lo spoglia, e dopo la morte del condottiero dei nemici prende la città al primo assalto. Quindi ricondotto l’esercito vincitore, Romolo, che era uomo valoroso nelle imprese e non meno abile nel metterle in mostra, salì sul Campidoglio recando appese ad un’asta appositamente fabbricata le spoglie del condottiero nemico ucciso, e depostele ivi presso una quercia sacra ai pastori, offrendo il dono delimitò i confini di un tempio in onore di Giove e assegnò al dio l’appellativo dicendo: «O Giove Feretrio, io vincitore Romolo re regie armi ti porto, e ti consacro un tempio in questo spazio, che ora mentalmente ho delimitato, come sede per le spoglie opime che i posteri seguendo il mio esempio ti porteranno dopo aver ucciso i re e i condottieri nemici». Questa è l’origine del tempio che primo fra tutti fu consacrato a Roma. Gli dèi vollero poi che né vane fossero le parole del fondatore del tempio, laddove proclamò che i posteri avrebbero recato colà le spoglie, né la gloria di quella offerta fosse diminuita da un grande numero di partecipi: due volte sole in seguito, in tanti anni e con tante guerre, furono conquistate le spoglie opime, tanto rara fu la fortuna di quell’onore.»

tito livio, AUC, I, 10, 1-7

Romolo sposò proprio Ersilia e offrì alle donne tutti i diritti ma non la possibilità di tornare tra i sabini. Dopo aver sconfitto ceninensi, antemnati e crustumini, i sabini attaccarono Roma e presero il Campidoglio, attaccando poi battaglia al lago Curzio. Durante lo scontro le donne sabine si gettarono nella mischia per separare i contendenti. I due eserciti si separarono e Romolo e il sabino Tito Tazio deposero le armi, condividendo il regno unito di romani e sabini; tuttavia Tazio morì poco tempo dopo e i romani assorbirono i sabini, per distinguersi dai quali, tra i romani, si facevano chiamare quiriti:

«Trionfando Romolo per la duplice vittoria, la moglie Ersilia, cedendo alle insistenti suppliche delle rapite, lo prega di perdonare ai loro padri e di accoglierli nella cittadinanza romana: così lo stato poteva crescere con la concordia. Senza difficoltà fu esaudita; quindi Romolo uscì contro i Crustumini che muovevano guerra. Qui ancor minore fu la resistenza incontrata, perché gli animi dei nemici già erano abbattuti per le altrui sconfitte. In entrambi i paesi furono mandate colonie; più numerosi furono quelli che si offersero di andare a Crustumerio, per la fertilità del suolo. Molti furono anche coloro che di là emigrarono a Roma, soprattutto genitori e parenti delle rapite. Un’ultima guerra fu mossa dai Sabini, e questa fu di gran lunga la più seria, poiché non fu condotta seguendo soltanto l’impulso dell’ira e della passione, ed anzi nulla lasciarono trapelare prima dell’inizio delle ostilità. All’accortezza unirono anche l’inganno. Custode della rocca romana era Spurio Tarpeo; Tazio ne corruppe con l’oro la vergine figlia, inducendola ad accogliere gli armati nella rocca; essa allora per caso era uscita fuori delle mura a prendere acqua per i sacri riti. Una volta entrati la uccisero schiacciandola sotto il peso delle armi, o perché la rocca sembrasse essere stata presa con la forza, o per mostrare con un esempio che verso i traditori nessuna parola mai è sicura. Aggiunge la leggenda che, usando portare i Sabini braccialetti d’oro di gran peso al braccio sinistro e anelli gemmati di grande bellezza, essa chiese come prezzo ciò che avevano nella mano sinistra; quindi su di lei furono gettati gli scudi in luogo degli aurei doni. Alcuni poi dicono che, in conformità al patto di consegnare ciò che avevano nella mano sinistra, essa chiese addirittura le armi, ma sospettando un inganno quelli la uccisero con la stessa ricompensa richiesta. Comunque i Sabini occuparono la rocca, e il giorno seguente, essendosi l’esercito romano schierato nella pianura che si stende fra il colle Palatino e il Capitolino, non scesero a battaglia se non quando i Romani, stimolati dall’ira e dall’impazienza di riprendere la rocca, presero a risalire il pendio. Nelle prime posizioni guidavano la lotta dalle due parti Mezio Curzio per i Sabini, Ostio Ostilio per i Romani. Questi in prima fila sosteneva con coraggio e audacia le sorti dei concittadini in posizione sfavorevole. Come Ostio cadde, subito l’esercito romano ripiegò e fu volto in fuga fino all’antica porta del Palatino. Romolo, sospinto anch’egli dalla turba dei fuggitivi, levando le armi al cielo gridò: «O Giove, per ordine dei tuoi auspici qui sul Palatino ho gettato le prime fondamenta della città. I Sabini già tengono la rocca comperata col tradimento; di là, superato il fondo della valle, si dirigono in armi a questa volta; matu, o padre degli dèi e degli uomini, di qui almeno allontana i nemici, fa cessare il terrore nei Romani e arresta la vergognosa fuga. A te Giove Statore io qui prometto un tempio, il quale sia testimonianza ai posteri che dal tuo provvidenziale intervento ora è stata salvata la città». Dopo aver così pregato, come se avesse inteso che la preghiera era stata accolta, disse: «Di qui, o Romani, Giove Ottimo Massimo vi ordina di resistere e di ricominciare da capo la lotta». Resistettero i Romani come per ordine di una voce celeste, e lo stesso Romolo si slanciò fra i primi. Mezio Curzio in testa ai Sabini era corso giù dalla rocca e aveva cacciato i Romani in fuga per tutta l’estensione dell’attuale foro. Non era ormai lontano dalla porta del Palatino e gridava: «Abbiamo vinto questi sleali ospiti, imbelli nemici; ormai sapranno che altro è rapire delle fanciulle, altro combattere con dei guerrieri». Mentre così si vantava, Romolo gli si slanciò contro con una schiera di animosissimi giovani. Mezio allora combatteva a cavallo, e perciò fu più facile farlo indietreggiare; quando retrocede i Romani lo incalzano, ed anche il resto dell’esercito rianimato dall’audacia del re volge in fuga i Sabini. Mezio fu gettato in una palude dal cavallo impaurito dallo strepito degli inseguitori; al vedere in pericolo un così forte guerriero i Sabini furono distolti dal combattere. Egli allora, fra i gesti d’incoraggiamento e le grida dei suoi, ripreso animo per il favore di molti, riuscì a scampare; i Romani e i Sabini nel mezzo dell’avvallamento fra i due colli rinnovarono la battaglia: ma i Romani avevano la meglio. Allora le donne sabine, dalla cui offesa aveva tratto origine la guerra, sciolti i capelli e lacerate le vesti, vinta dai mali la paura femminile, osarono gettarsi in mezzo alla pioggia dei dardi, ed irrompendo dai fianchi dividere le schiere nemiche, dividere le ire, pregando di qua i padri, di là i mariti, che non si bagnassero del sangue nefando del suocero e del genero, che non macchiassero con l’assassinio di congiunti la loro progenie, gli uni i nipoti e gli altri i figli. «Se vi incresce la parentela reciproca o il matrimonio, volgete su di noi le ire: noi siamo causa della guerra, noi causa delle ferite e della morte dei mariti e dei padri; meglio per noi sarà morire che vivere vedove od orfane senza gli uni o gli altri di voi». Il fatto commuove sia la moltitudine che i capi: d’un tratto si producono silenzio e calma; quindi i capi avanzano a stringere il patto, e non solo fanno la pace, ma di due stati ne fanno uno solo. Associano il regno, portando a Roma tutto il governo. Raddoppiata così la città, perché anche ai Sabini fosse concesso qualcosa, gli abitanti dalla città di Curi presero il nome di Quiriti. A ricordo di quella battaglia chiamarono Curzio il lago dove il cavallo aveva riportato Curzio all’asciutto emergendo dalla profonda palude. La lieta pace nata improvvisamente da una guerra così dolorosa rese più care le donne sabine ai mariti ed ai genitori, e soprattutto a Romolo stesso. Pertanto, dividendo il popolo in trenta curie, pose alle curie i nomi di quelle. La tradizione non dice, dato che senza dubbio il numero delle donne doveva essere alquanto superiore a trenta, se quelle che diedero il nome alle curie furono scelte in base all’età, o alla nobiltà loro o dei mariti, oppure furono estratte a sorte. Nello stesso tempo furono costituite anche tre centurie di cavalieri: furono chiamati Ramnensi da Romolo, Tiziensi da Tito Tazio; dei Luceri. incerta è l’origine e la derivazione del nome. Di poi il regno non solo fu in comune, ma vide anche il pieno accordo fra i due re.»

«Là mentre stavano per tornare a combattere nuovamente, furono fermati da uno spettacolo incredibile e difficile da raccontare a parole. Videro infatti le figlie dei Sabini, quelle rapite, gettarsi alcune da una parte, ed altre dall’altra, in mezzo alle armi ed ai morti, urlando e minacciando con richiami di guerra i mariti ed i padri, quasi fossero possedute da un dio. Alcune avevano tra le braccia i loro piccoli… e si rivolgevano con dolci richiami sia ai Romani sia ai Sabini. I due schieramenti allora si scostarono, cedendo alla commozione, e lasciarono che le donne si ponessero nel mezzo

tito livio, AUC, I, 11, 2- 13, 8; PLUTARCO, VITE PARALLELE, VITA DI ROMOLO, 19, 1-3

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Il ratto delle sabine
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