Dopo la cacciata di Tarquinio il Superbo questi chiese aiuto ad alcune città etrusche e con il lucumone di Chiusi Porsenna cercò di riprendere Roma già nel 508 a.C., un anno dopo. I romani, in difficoltà, furono salvati da Orazio Coclite che da solo fermò l’avanzata nemica sul ponte Sublicio, mentre i romani lo abbattevano per impedire ai nemici di attraversare il Tevere:

«Trattenuti dal senso dell’onore due restarono con lui: si trattava di Spurio Larcio e Tito Erminio, entrambi nobili per la nascita e per le imprese compiute. Fu con loro che egli sostenne per qualche tempo la prima pericolosissima ondata di Etruschi e le fasi più accese dello scontro. Poi, quando rimase in piedi solo un pezzo di ponte e quelli che lo stavano demolendo gli urlavano di ripiegare, costrinse anche loro a mettersi in salvo.»

Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 10

Secondo Polibio Orazio sarebbe poi morto affogato a causa del peso dell’armatura, mentre secondo Livio si sarebbe salvato a nuoto. Il popolo romano lo avrebbe poi ringraziato dedicandogli una statua e donandogli un terreno da arare. Ricevette anche molti doni da privati cittadini, ma non divenne mai console, secondo Livio, poiché venne colto da una malattia alle gambe che gli impediva di camminare. In questo caso il racconto liviano è più attendibile, in primis perchè Larcio ed Erminio, presenti nel racconto, furono consoli nel 506: avrebbe aggiunto la parte relativa alle ricompense, mentre effettivamente ricevette una statua, confermata dagli Annales Maximi, che riferiscono di una statua sua “in comitio posita“, trasportata nel Vulcanale perché fosse perennemente al Sole. Era infatti una scultura solare, un chiaro riferimento alla condizione di Orazio: per le ferite riportate dalla caduta era rimasto zoppo e cieco da un occhio e la statua è riconducibile a un dio zoppo che arranca. Lo stesso nome Cocles è l’equivalente latino di Cyclops. E’ possibile però che il nome Orazio sia legato più all’azione compiuta che non al suo vero nome, in quanto gli stessi Orazi derivano la loro radice da ὅρος, ossia difensori dei confini.

Muzio Scevola e il tentativo di assassinio

Gaio Muzio Cordo era un giovane nobile romano che mal sopportava l’assedio. Infatti nonostante il sacrificio di Orazio avesse permesso ai romani di ritirarsi, la città era ancora accerchiata dai nemici. Muzio decise di proporre allora al senato di uccidere Porsenna, che glielo concesse. Secondo Dionigi di Alicarnasso l’infiltrazione fu favorita dal fatto che era di origine etrusca, passando dunque inosservato.

Ca’ Rezzonico – Mucius Scaevola before Porsenna – Giovanni Antonio Pellegrini

«Perduravano nondimeno l’assedio e la mancanza di frumento con grande carestia, e Porsenna sperava di poter prendere la città rimanendo fermo, quando Gaio Mucio, giovane nobile, a cui sembrava cosa vergognosa che il popolo romano finché era schiavo, sotto il dominio dei re, non avesse mai subìto assedi in nessuna guerra da parte di nessun nemico, e che una volta libero lo stesso popolo fosse assediato da quei medesimi Etruschi, i cui eserciti più volte aveva disfatti, ritenendo dunque di dover riscattare questa vergogna con una qualche azione grande e audace, decise dapprima di penetrare nel campo dei nemici di propria iniziativa; poi, temendo di venire sorpreso dalle sentinelle romane e di essere ricondotto indietro come un disertore, se fosse andato senza autorizzazione dei consoli e all’insaputa di tutti (e la condizione della città in quel momento avrebbe resa attendibile l’accusa), si presentò in senato e disse: «O senatori, io voglio passare il Tevere ed entrare, se mi riesce, nel campo nemico, non a scopo di preda né per vendicare i saccheggi: ho in animo una più grande azione, se gli dèi mi assistono». I senatori dànno l’approvazione, e nascosto un pugnale sotto la veste Mucio parte. Giunto nel campo etrusco, si mescolò alla folla che si stipava presso la tribuna regale. Qui si stava distri buendo la paga ai soldati, e poiché il segretario che sedeva vicino al re, vestito all’incirca nella stessa foggia, era molto affaccendato, e a lui si rivolgevano generalmente i soldati, Mucio, temendo di domandare chi dei due fosse Porsenna, perché si sarebbe tradito ignorando chi era il re, si affidò alla sorte, e uccise il segretario in luogo del re. Mentre cercava di fuggire, facendosi largo con la punta insanguinata del ferro fra la folla sbigottita, arrestato dalle guardie dei re accorse alle grida, ricondotto indietro e portato senza difesa davanti al tribunale del re, anche allora pur fra tanta minaccia della sorte incutendo timore anziché mostrarsi intimorito, disse: «Sono cittadino romano, mi chiamano Gaio Mucio. Nemico ho voluto uccidere un nemico, e avrò non minor coraggio a morire di quanto ne ho avuto a uccidere: è virtù romana agire e sopportare da forti. E non io solo ho tale animo verso di te: dietro di me vi è una lunga schiera di uomini che ambiscono allo stesso onore. Preparati dunque a questo cimento, se così ti piace, a combattere ad ogni momento per la salvezza della tua vita, e a tenere nel vestibolo della reggia un ferro nemico: questa è la guerra che ti dichiara la gioventù romana. Non un esercito, non una battaglia hai da temere: la lotta sarà contro te solo da parte di singoli uomini». Avendo il re, acceso d’ira e insieme impaurito dai pericolo, ordinato minacciosamente di farlo avvolgere dalle fiamme, se non avesse prontamente rivelato quali insidie nascoste gli minacciava con quel parlare coperto: «Ecco «disse, «perché tu comprenda quanto vile cosa è il corpo per chi mira ad una grande gloria», e pose la destra sul fuoco acceso per il sacrificio. Mentre la lasciava bruciare con l’animo quasi staccato dai sensi, il re sbalordito da quel prodigio balzò giù dal trono, e fatto allontanare il giovane dall’altare disse: «Va’ pure libero, tu che hai osato atti più ostili verso di te che verso di me. Plaudirei alla tua virtù, se essa andasse a beneficio della mia patria; ora invece ti lascio partire di qui esente dalla legge di guerra, incolume e illeso». Allora Mucio quasi per ricompensare tanta generosità disse: «Poiché tu sai rendere omaggio al valore, avrai da me per la tua generosità ciò che non hai avuto con le minacce: trecento giovani della più alta nobiltà romana hanno congiurato di assalirti per questa via; me la sorte ha designato per primo; gli altri, secondo che a ciascuno toccherà, a suo tempo tutti si presenteranno, finché la fortuna ti offrirà ai nostri colpi». Appena Mucio, cui in seguito venne dato il soprannome di Scevola per la perdita della mano destra, fu lasciato libero, dietro di lui vennero a Roma ambasciatori di Porsenna. Il re a tal punto era stato scosso da quel primo pericolo corso, da cui solo l’errore dell’attentatore l’aveva salvato, e dal pensiero di dover affrontare lo stesso rischio tante volte quanti erano i congiurati rimasti, che offerse di sua iniziativa proposte di pace ai Romani.»

TITO LIVIO, AB URBE CONDITA LIBRI, II, 12,1 – 13,2

Armato di pugnale arrivò nell’accampamento e attese la distribuzione della paga ai soldati. Quando però cercò di ucciderlo, sbagliò persona. Allora si diede alla fuga ma venne arrestato e portato davanti al tribunale del re. Lì però non si mostrò spaventato, anzi: disse che molti altri romani come lui sarebbero arrivati a tentare di ucciderlo, senza tregua, al che Porsenna minacciò di bruciarlo vivo. Muzio reagì in modo inaspettato, terrorizzando il lucumone; mise infatti la mano destra sul fuoco e la fece bruciare senza fiatare, come giuramento e mostrando la dedizione imperterrita dei romani. Porsenna, rimasto sconvolto, liberò il giovane, che replicò ancora come fossero trecento coloro i quali avevano giurato di ucciderlo e che sarebbero riusciti nell’impresa. Rientrato a Roma, Muzio ottenne il cognomen di Scevola (il mancino), mentre Porsenna trattò la fine delle ostilità.

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Il sacrificio di Muzio Scevola
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