Il più famoso organo consultivo dell’antichità, il senato romano, deve il suo nome a senectus, ossia “vecchiaia”. Era dunque, come spesso capitava in molte città mediterranee del tempo, un consiglio formato dai più anziani. La differenza era che non era unito da un legame di sangue o di terra, essendo il primo senato romuleo creato da errandi e vagabondi; i romani saranno sempre aperti ai popoli stranieri. Inoltre non era il solo organo decisionale, poiché in epoca repubblicana possedevano altrettanto potere i comizi centuriati, in cui votava il popolo romano. I plebisciti vennero anche equiparati alle decisioni del senato. Inoltre esisteva la possibilità di quest’ultimo di legiferare tramite senatus consultum. Ma il maggiore prestigio rese sempre maggiore il potere del senato, che sfociò nelle lotte tra optimates e populares nella tarda repubblica e infine la perdita di ogni potere da parte dei comizi a favore del senato, divenuto consiglio del principe.

Romolo

« Siccome erano gemelli e il rispetto per la primogenitura non poteva funzionare come criterio elettivo, toccava agli dei che proteggevano quei luoghi indicare, interrogati mediante aruspici, chi avrebbe dato il nome alla città e chi vi avrebbe regnato. Per interpretare i segni augurali, Romolo scelse il Palatino e Remo l’Aventino. Il primo presagio, sei avvoltoi, si dice toccò a Remo. Dal momento che a Romolo ne erano apparsi dodici quando ormai il presagio era stato annunciato, i rispettivi gruppi avevano proclamato re entrambi. Gli uni sostenevano di aver diritto al potere in base alla priorità nel tempo, gli altri in base al numero degli uccelli visti. Ne nacque una discussione e dallo scontro a parole si passò al sangue: Remo, colpito nella mischia, cadde a terra. È più nota la versione secondo la quale Remo, per prendere in giro il fratello, avrebbe scavalcato le mura appena erette [più probabilmente il pomerium, il solco sacro] e quindi Romolo, al colmo dell’ira, l’avrebbe ucciso aggiungendo queste parole di sfida: «Così, d’ora in poi, possa morire chiunque osi scavalcare le mie mura». In questo modo Romolo s’impossessò del potere e la città prese il nome del suo fondatore. »

T. LIVIO, AB URBE CONDITA LIBRI, I, 7

Romolo avrebbe riunito quindi alcune tribù, se non famiglie, che vivevano attorno al Palatino, dove avrebbe stabilito la sua dimora. I primi fondatori di Roma sarebbero divenuti i patres, i primi senatori. Il seguente leggendario ratto delle sabine (i sabini abitavano nei pressi della città) entrava nell’ottica della creazione di una nuova entità statale (laddove era impossibile stringere patti e alleanze), tendenzialmente aperta a tutti. La popolazione venne divisa tra i romani e i quiriti, quest’ultimi i discendenti dei fondatori romulei, a cui appartenevano le più antiche famiglie patrizie. Romolo infatti formò un senato di 100 membri per consigliarlo, i patres (da cui il nome patrizi). Successivamente raddoppiato, quando Romolo divise il regno con il re sabino Tito Tazio in seguito alla pace concordata al termine delle ostilità per il ratto delle sabine. Dopo la morte di Tito Tazio il governo di Romolo si fece sempre più assoluto e dispotico a occhio dei senatori, tanto che si crede, contrariamente alla storia ufficiale tramandata dai romani stessi che Romolo fosse improvvisamente asceso al cielo, che i senatori, indispettiti dal malgoverno del sovrano lo avessero fatto a pezzi e smembrato il corpo, seppellendolo in varie zone della città. A comunicare l’evento sarebbe stato Proculo Giulio, il più antico antenato conosciuto della gens Iulia:

«Stamattina o Quiriti, verso l’alba, Romolo, padre di questa città, è improvvisamente sceso dal cielo e apparso davanti ai miei occhi. […] Va e annuncia ai Romani che il volere degli Dei è che la mia Roma diventi la capitale del mondo. Che essi diventino pratici nell’arte militare e tramandino ai loro figli che nessuna potenza sulla Terra può resistere alle armi romane.»

TITO LIVIO, AB URBE CONDITA LIBRI, I, 16

Con l’avvento della repubblica il senato ottenne enorme prestigio, ma in seguito alle lotte tra patrizi e plebei dovette cedere parrte delle sue prerogative. I plebisciti del popolo vennero equiparati alle decisioni del senato, mentre molte leggi varate dai comizi erano poi ratificate dai padri coscritti. Tuttavia il senato aveva anche potere legislativo, tramite senatus consultum.

Silla

Alla morte di Cinna, nell’84 a.C., Silla rientrò a Roma, ottenendo anche l’appoggio di Gneo Pompeo, figlio di Strabone, che aveva guidato gli eserciti romani durante la fase finale della guerra sociale. Nel novembre dell’82 a.C. Silla entrò a Roma dopo aver sconfitto i populares (appoggiati dai sanniti) a Porta Collina. Morti entrambi i consoli, Silla venne eletto dittatore a tempo indeterminato dai comizi centuriati grazie alla lex Valeria de Sulla dictatore.

Silla possedeva poteri straordinari, compreso il diritto di condannare a morte, presentare leggi, scegliere i magistrati, effettuare confische, fondare città e colonie. Forte della sua posizione Silla decise di riformare la repubblica. Prima di tutto emanò delle liste di proscrizione, mettendo a morte gli oppositori politici; tra loro rischiò anche di finire Cesare (sua zia era moglie di Mario), che riuscì a fuggire in oriente. In sostanza Silla decise di intraprendere una politica di restaurazione del senato a scapito dei cavalieri e dei populares.

Il senato venne portato a 600 membri, mentre veniva fissato il cursus honorum: la questura portava automaticamente alla cooptazione nell’assemblea. Seguiva l’edilità o il tribunato della plebe, la pretura e il consolato. Al senato venne anche restituito il controllo dei processi (quindi nel caso di malversazioni i senatori si giudicavano tra di loro), dato dai Gracchi ai cavalieri. Silla venne rieletto console nell’80 a.C., ma proprio quando era all’apice della carriera politica, nel 79 a.C., decise di abbandonare il potere e ritirarsi a vita privata, morendo nel 78 a.C.

Cesare e Augusto

Cesare portò il senato a circa 1000 membri, immettendo molti provinciali. Dopo la sua dipartita, in un tentativo effimero di ripristinare le istituzioni repubblicane mantenendo una parvenza di legalità, Augusto lo riformò a 600. I requisiti base per entrare nell’assemblea, in epoca repubblicana periodicamente riformata dai censori, era di possedere 1 milione di sesterzi ed essere nato libero da almeno tre generazioni, mentre chi raggiungeva la cifra di 400.000 sesterzi poteva divenire cavaliere e ricevere anche l’equus publicus. Nel 27 a.C. il senato gli attribuì il titolo di Augustus. Sommati a una serie di poteri straordinari (l’imperium proconsulare maius, ossia il comando militare assoluto, il titolo di princeps senatus, la possibilità di parlare per primo in senato), ottenne sostanzialmente il potere assoluto sebbene da privato cittadino (anche se gli veniva dato quasi annualmente il consolato).

Nel 23 a.C. ricevette l’ultimo potere che legittimava la sua “superiorità”: una tribunicia potestas a vita, che gli permetteva di essere sacro e inviolabile come i tribuni della plebe e gli concedeva la possibilità di porre il veto a qualunque azione del senato. Inoltre, alla morte di Lepido assunse il titolo di pontefice massimo, in modo da essere la massima autorità religiosa. Infine nel 2 a.C. ottenne il titolo di pater patriae.

Perciò Augusto poteva bloccare qualunque decisione non gradisse, ma teoricamente non poteva forzare il senato o i comizi a fare delle scelte, se non tramite la sua influenza e autorità (o comunque spesso grazie al consolato e il titolo di princeps e imperator che deteneva – titoli che rappresenteranno il potere imperiale; si è a capo dello stato perché si è a capo dell’esercito in quanto imperator e a capo del senato in quanto princeps).

«Due volte pensò di restaurare la repubblica: una prima volta sùbito dopo aver fiaccato Antonio, ricordando che da questo gli era stato ripetutamente rinfacciato che dipendeva proprio da lui il fatto che essa non fosse restaurata; poi, di nuovo, perché stanco di una lunga malattia. In questa occasione, anzi, convocate le autorità e il Senato in casa sua, consegnò loro un rendiconto finanziario dell’impero. Ma, considerando che come privato cittadino egli sarebbe stato sempre in pericolo, e che era rischioso affidare lo Stato all’arbitrio di più persone, continuò a tenerlo in pugno lui. Non si sa se con migliore risultato o con migliore intenzione. Questa intenzione egli non solo la sbandierò di tanto in tanto, ma una volta giunse a proclamarla in un comunicato ufficiale: «Vorrei proprio che mi fosse possibile rimettere al suo posto sana ed indenne la repubblica, e godere il frutto che io cerco di questa restaurazione, di essere detto cioè fondatore di un ottimo Stato, e di portare con me, morendo, la speranza che rimangano salde le fondamenta dello Stato, quali io avrò gettato». Ed egli stesso fu realizzatore del suo voto, sforzandosi in ogni modo a che nessuno avesse a dolersi della nuova situazione. La città non era adorna in proporzione della sua maestà, ed era esposta a inondazioni e ad incendi: ebbene, egli la abbellì a tal punto che giustamente si potè gloriare di lasciarla di marmo, mentre l’aveva ricevuta di mattoni. E, per quanto una mente umana poteva prevedere, la rese sicura anche per l’avvenire.»

Svetonio, Augusto, 28

Claudio e i galli in senato

Durante un discorso in senato nel 48 d.C., l’imperatore Claudio propose una legge che concedeva lo ius honorum (il diritto a ricoprire cariche politiche) ai cittadini Romani della Gallia Comata, cioè la possibilità di entrare in senato. Ci furono dure reazioni dei senatori, indignati. Molti sostenevano come i nonni di questi galli avessero combattuto contro Cesare e ucciso molti romani, anche loro antenati. Claudio allora pronunciò un discorso storico, riportato da Tacito e confermato da un’epigrafe rinvenuta a Lione:

” I miei antenati, al più antico dei quali, Clauso, venuto dalla Sabina, furono conferiti insieme la cittadinanza romana e il patriziato, mi esortano ad adottare gli stessi criteri […] non ignoro che i Giuli vennero da Alba, i Coruncanii da Camerio, i Porcii da Tuscolo e, per non risalire ad epoche più antiche, furono tratti in Senato uomini dall’ Etruria, dalla Lucania e da tutta l’Italia […] A quale altra cagione fu da attribuirsi la rovina degli Spartani e degli Ateniesi, se non al fatto che essi, per quanto prevalessero con le armi, consideravano i vinti come stranieri?Romolo, nostro fondatore, fu invece così saggio che ebbe a considerare parecchi popoli in uno stesso giorno prima nemici e subito dopo concittadini. Stranieri presso di noi ottennero il regno […] O padri coscritti, tutte le cose che si credono antichissime furono nuove un tempo […] Anche questa nostra deliberazione invecchierà, e quello che oggi noi giustifichiamo con antichi esempi, sarà un giorno citato fra gli esempi.”

Tacito, Annales, XI, 24

Naturalmente alla fine la legge di Claudio passò. Ma il suo discorso è emblematico: quando ci si discosta da una certa idea, bisogna tornare alla linea tradizionale romana: gli stranieri sono ben accetti, purché si romanizzino. L’atteggiamento dei romani era estremamente pragmatico: accogliere gli stranieri e renderli romani, a partire dalle élite, uniformando gradualmente i costumi ma mantenendo intatte le usanze e lingue locali , portando i vinti a trasformarsi volontariamente in romani (che era pur sempre un privilegio giuridico e fiscale).

Epurazioni imperiali

Adriano

«Indirizzando al senato una lettera accuratamente riguardosa, chiese e, col consenso generale, ottenne, che fossero concessi onori divini a Traiano, facendo sì che i senatori, di loro stessa iniziativa, decretassero per Traiano anche molte onoranze che Adriano non aveva richiesto. Sempre scrivendo al senato, si scusò del fatto che non aveva lasciato ad esso la prerogativa di sancire la sua accessione al trono, spiegando che era stato acclamato imperatore dai soldati senza il minimo indugio, perché lo Stato non poteva rimanere senza un capo. Avendogli poi il senato decretato il trionfo, che spettava a Traiano, egli lo rifiutò, e sul carro trionfale fece trasportare l’immagine di Traiano, affinché quell’ottimo principe non venisse privato, neppure dopo la morte, degli onori del trionfo. Rifiutò l’appellativo di «padre della patria» che gli era stato offerto sin dal primo momento, e un’altra volta successivamente, ricordando che Augusto non aveva ricevuto se non dopo molti anni questo titolo.»

(Historia Augusta, Adriano, 6, 1-4)


«Vietò che i servi fossero messi a morte dai padroni e ordinò che, ove lo meritassero, fossero condannati dai giudici. Proibì di vendere schiavi o ancelle a lenoni o maestri di gladiatori senza produrne giustificato motivo. Ordinò che coloro che avevano dissipato le proprie sostanze, se legalmente responsabili, venissero frustati nell’anfiteatro e poi lasciati andare. Soppresse le case di pena a lavori forzati sia per gli schiavi che per i liberi. Nei bagni costituì due sezioni distinte per i due sessi. Stabilì che, se un padrone veniva ucciso in casa sua, non fossero sottoposti ad interrogatorio tutti i servi, ma quelli che, per essersi trovati nelle vicinanze, potevano essersi accorti del fatto.»

(Historia Augusta, Adriano, 18, 7-11)

Adriano invitò Lucio Salvio Giuliano, consolare e giurista, a raccogliere gli editti dei pretori, formando un primo corpus legislativo romano. Le iniziative che toglievano potere ai padroni nei confronti degli schiavi, che non potevano più condannare senza un processo, né vendere liberamente come gladiatori, uniti ai dubbi di molti senatori sulla successione (restii alle politiche meno espansionistiche), portò ad alcuni complotti, che Adriano risolse mandando a morte quattro consolari, tra cui Lusio Quieto, consolare e comandante della cavalleria maura sotto Traiano e uno dei fautori delle sue vittorie militari, già nel 118, condannati in absentia.

Adriano cercò di togliersi di dosso l’immagine di imperatore anti-senatorio, senza tuttavia riuscirci del tutto; promise anche non avrebbe mai più reso alcun danno a un senatore, ma nel 137 fece uccidere il cognato Lucio Giulio Urso Serviano e il nipote Fusco, rei di aver ordito una congiura nei confronti del principe adottato, Lucio Elio Cesare. Inoltre il rapporto col senato venne incrinato dalla divisione in quattro zone dell’Italia, affidata a quattro consolari, che ne amministravano la giustizia, sottraendola di fatto ai senatori. Fu solo grazie alle pressioni di Antonio, per questo soprannominato Pio, che l’imperatore venne divinizzato dal senato.

Commodo

Commodo decise subito di abbandonare le conquiste del padre Marco Aurelio oltre il Danubio e di ritornare a Roma. Era stato nominato Cesare e aveva ricevuto la tribunicia potestas nel 177. Strinse la pace con i barbari, contro i consigli dei collaboratori paterni e fermò le persecuzioni contro i cristiani che c’erano state sotto il padre. Probabilmente diversi dei suoi collaboratori lo erano.

Tuttavia il suo atteggiamento libertino e l’amore per i giochi e gli spettacoli, e la poca cura che riponeva nel governo, spinse la sorella Lucilla e il consolare Ummidio Quadrato, a organizzare una congiura, fallita, per eliminarlo. La congiura, avvenuta nel 182, era fallita. Ma da allora Commodo, sconsolato, si ritirò dagli affari pubblici, che delegava ad altri, preferendo dedicarsi agli spettacoli gladiatori, che amava oltremodo:

«Dopo quanto avvenuto Commodo si mostrava difficilmente in pubblico, e non voleva che gli venissero portati messaggi senza che prima se ne fosse occupato Perenne. Perenne, poi, che sapeva tutto del carattere di Commodo, trovò il modo di diventare lui stesso potente. Persuase infatti Commodo a dedicarsi completamente ai suoi divertimenti, mentre lui, Perenne, si assumeva le cure del governo; ciò che Commodo accettò con entusiasmo. Vivendo dunque secondo questo accordo, se la spassava nel Palazzo gozzovigliando tra banchetti e bagni in compagnia di trecento concubine, che aveva radunato scegliendole fra le matrone e le meretrici per la loro bellezza, e di giovanetti pervertiti, anch’essi in numero di trecento, che aveva raccolto a viva forza o comprandoli, tanto fra il popolo quanto di mezzo alla nobiltà, e avendo quale criterio di scelta l’avvenenza. Di tanto in tanto, in veste di sacerdote, immolava vittime. Si cimentava in duelli in qualità di gladiatore, usando nell’arena dei bastoni, mentre, quando combatteva con gli inservienti di corte, con armi talvolta affilate. Intanto comunque Perenne aveva avocato a sé ogni potere; metteva a morte chi voleva, spogliava dei beni moltissime persone, sovvertiva tutte le leggi, si accaparrava tutto ciò che poteva arraffare. Dal canto suo Commodo fece uccidere la sorella Lucilla dopo averla confinata a Capri. Poi, dopo aver violentato, a quanto si dice, tutte le altre sorelle, e aver anche avuto rapporti con una cugina del padre, arrivò a dare il nome della madre a una delle sue concubine. Sua moglie, che aveva sorpreso in adulterio, la cacciò di casa, poi la fece deportare, e infine la fece uccidere. Ordinava che le stesse sue concubine venissero violentate sotto i suoi occhi. Né era esente dall’ignominia di essere stato oggetto di rapporti omosessuali con giovani, e non c’era parte del suo corpo, compresa la bocca, che non fosse stata contaminata da aberrazioni sessuali in rapporto ad entrambi i sessi.»

HISTORIA AUGUSTA, COMMODO, 5, 1-11

Messi da parte gli affari pubblici, Commodo cominciò a passare sempre più tempo nel Colosseo, fino a voler scendere lui stesso nell’arena, azione considerata infamissima, in quanto chi vi partecipava era solitamente uno schiavo. Non solo, partecipava ai combattimenti travestito da Ercole, con una clava e una pelle di leone.

«Giunse a tal punto di follia e di stoltezza da rifiutare il nome paterno, e da farsi chiamare, anziché Commodo figlio di Marco, Ercole, figlio di Giove. Abbandonato il costume degli imperatori romani, indossava una pelle di leone reggendo in mano una clava; ma insieme portava un mantello di porpora intessuto d’oro: sicché tutti lo schernivano perché in un solo costume egli imitava lo sfarzo femminile e il vigore degli eroi. Cosí camuffato egli si mostrava al pubblico. Volle inoltre cambiare il nome ai mesi dell’anno, abolendo i nomi tradizionali e creandone di nuovi tratti dai propri appellativi, la maggior parte dei quali si riferiva, naturalmente, a Ercole, come all’eroe piú valoroso. Elevò anche statue con la propria effigie per tutta la città, una delle quali si trovava di fronte alla curia ed era in atto di tendere l’arco: voleva infatti intimorire i senatori anche per mezzo della propria immagine.»

ERODIANO, STORIA DELL’IMPERO ROMANO DOPO MARCO AURELIO, I, 14, 8-9
Settimio Severo

Commodo era ormai impazzito e, racconta Cassio Dione, in un’occasione decapitò uno struzzo e procedette verso i senatori seduti con la sua testa in una mano e il gladio nell’altra, limitandosi a scuotere la testa e sghignazzare. Fu proprio la prontezza di Cassio Dione a salvare tutti; infatti prese una foglia dell’alloro che aveva in testa e prese a masticarla, facendo cenno agli altri di imitarlo, in modo da nascondere il riso (Cassio Dione, Storia Romana, 72, 21, 2).

Settimio severo

Settimio Severo era nato a Leptis Magna, in Tripolitania. Era il primo imperatore di origine africana; anche se i suoi antenati erano cavalieri e senatori romani, quindi probabilmente notabili del posto. Sembra che fin da piccolo giocasse a fare il giudice, cosa che amava molto. Aveva ricoperto varie cariche del cursus honorum ed era governatore della Pannonia Superiore, senza molta esperienza militare, quando fu acclamato imperatore durante l’anno dei cinque imperatori. Settimio, dipinto dalle fonti come manipolatore, riuscì dunque a far uccidere Didio Giuliano e farsi riconoscere come imperatore dal senato, mentre dava a Clodio Albino, anche lui acclamato imperatore in Britannia, il titolo di Cesare, fingendo che lo avrebbe nominato suo successore. Arrivato a Roma, convocò i pretoriani, e con l’inganno li fece accerchiare e disarmare, mentre i suoi sequestravano le armi rimaste nei Castra Pretoria. Sciolse poi le coorti, per aver venduto il titolo all’asta (ma i 30.000 sesterzi a testa offerti da Didio Giuliano non erano molto lontano dai 20.000 dati da Marco Aurelio Lucio Vero alla loro elezione), riformandole con soldati pannonici a lui fedeli.

Mentre il nuovo prefetto al pretorio Plauziano teneva la città di Roma, e Clodio Albino credeva nella promessa fatta, Settimio Severo si recava in oriente per affrontare Pescennio Nigro, acclamato in Siria e appoggiato anche dai parti. Sconfitto a Isso, nello stesso luogo dove Alessandro aveva vinto Dario, ritornò in occidente, accusò Clodio Albino di congiurare contro di lui e affrontò anche lui in battaglia. Dopo due giorni di aspri combattimenti a Ludgnum tra Settimio Severo e Clodio Albino, il 21 febbraio del 197 d.C. il primo ebbe la meglio. Severo, rimasto unico imperatore dopo essersi sbarazzato in precedenza anche di Didio Giuliano e Pescennio Nigro, fece decapitare il corpo di Albino, che si era tolto la vita, passò a cavallo sul suo cadavere e lo fece gettare nel Rodano. La testa venne invece inviata in senato come monito ai senatori che avevano simpatie per Albino. Racconta l’Historia Augusta che Severo fu implacabile coi senatori, facendo uccidere a decine, oltre a Giulio Leto, che aveva guidato parte delle forze di Severo in battaglia e di cui l’imperatore era geloso.

Il senato di Costantinopoli e la fine di quello occidentale

Fortemente prostrato dalla terribile crisi del III secolo, perse ulteriormente di importanza quando Gallieno decise di proibire la carriera militare ai senatori e Diocleziano sdoppiò quelle politiche e militari. Già da molto tempo ormai molti soldati provenienti dai ranghi avevano ottenuto la porpora. Nel maggio del 330 d.C. veniva inaugurata la nuova città di Costantinopoli, costruita per volere dell’imperatore sulla vecchia Bisanzio. La posizione strategica tra l’Europa e l’Asia aveva colpito Costantino durante la guerra con Licinio, decidendo di farne la sua nuova capitale. La città, che guardava verso oriente e il cristianesimo, fu costruita su 7 colli come una nuova Roma, ed ebbe il suo senato. Divenne infine capitale definitiva dell’imperatore d’oriente nel V secolo e da allora sarà la capitale dell’impero bizantino fino al 1453. Nel frattempo il senato occidentale sopravviveva perfino ad Odoacre, i cui membri continuarono a far parte dell’amministrazione e ancora di più sotto Teoderico e Atalarico. Tuttavia la terribile guerra greco gotica e poi l’arrivo dei longobardi ridusse drasticamente di dimensioni il senato, di cui molti membri vennero uccisi o si rifugiarono a Costantinopoli. Le ultime menzioni risalgono alla fine del VI secolo – inizio VII, per poi riapparire nel pieno medioevo come puro organo cittadino analogo a quelli di altri comuni italiani.

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