Dopo la morte del padre Germanico Gaio (soprannominato fin da piccolo Caligola per le caligae che indossava), rimasto solo, venne allevato nella casa della bisnonna Livia, la moglie di Augusto, che morì nel 29. Ne pronunciò l’elogio funebre, poi si trasferì dalla nonna Antonia, madre di Germanico e di Claudio. Nonostante il passato, Caligola raggiunse Capri invitato da Tiberio, rimanendo insieme all’imperatore negli anni successivi e sposando nel 33 Giunia Claudia. Quando Tiberio dispose il proprio testamento fu per lui naturale inserire come eredi il nipote Tiberio Gemello, figlio di Druso minore, e il nipote Gaio, figlio di Germanico. Fu escluso il fratello di Germanico, Claudio, poiché ritenuto inadatto a governare. Dì li a poco Giunia morì di parto, mentre il nuovo prefetto al pretorio Macrone mostrava di appoggiare Caligola. Tiberio Gemello infatti era sospettato essere figlio adulterino di Claudia Livilla e Seiano. Le condizioni di Tiberio peggiorarono nel 37 e il 16 marzo morì a Miseno. Alcuni insinuarono che ripresosi dopo un grave malore, venne fatto soffocare senza scrupoli dal prefetto Macrone, che già aveva acclamato Caligola come imperatore.

«Dopo aver declamato in pubblico l’orazione funebre di Tiberio e dopo avere celebrato il funerale con grande solennità, subito si affrettò verso Pandataria e Ponza, per portar via di là le ceneri della madre e del fratello, nonostante vi fosse una terribile tempesta, affinché ancor più spiccasse la sua pietà filiale e vi si avvicinò con grande devozione e con le sue stesse mani le mise nelle urne cinerarie. Inoltre, con una messinscena altrettanto spettacolare, le portò ad Ostia, avendo issato a poppa un vessillo, e di lì, lungo il Tevere a Roma, facendo trainare la nave dai cavalieri più insigni e in pieno giorno, in mezzo alla folla, le fece portare su due lettighe nel Mausoleo, istituì in loro onore riti funebri con celebrazioni pubbliche annuali e inoltre, in onore di sua madre istituì giochi circensi e un carpento per trasportare in processione la sua effigie. Inoltre, per commemorare il padre, chiamò Germanico il mese di settembre. In seguito, con un’unica delibera del Senato, conferì alla nonna Antonia tutti gli onori che erano stati conferiti a Livia Augusta; assunse come collega nel consolato lo zio Claudio, fino ad allora semplice cavaliere romano, adottò il fratello Tiberio lo stesso giorno in cui quello assunse la toga virile e lo denominò principe della gioventù. […] Con mossa egualmente popolare, graziò i condannati e i confinati e concesse indulgenza a tutte le imputazioni che fossero rimaste in sospeso dal periodo precedente. Fece bruciare tutti gli atti processuali relativi alle cause della madre e dei fratelli, dopo averli fatti raccogliere tutti nel foro, affinché nessun delatore o testimone avesse a temere ancora, e dopo aver chiamato a testimoni gli dèi che egli non ne aveva letto né toccato alcuno. Rifiutò di accettare un libello che denunciava rischi per la sua incolumità, contestando che non aveva fatto nulla per cui potesse essere odiato da qualcuno e disse di non avere orecchie per i delatori. Fece allontanare dalla città i cinedi che praticavano orribili atti di libidine, facendosi convincere a fatica a non farli gettare in mare. Permise che le opere di Tito Labieno, Cremuzio Cordo e Cassio Severo, tolte di mezzo per decreto del Senato, fossero ripescate e messe in giro e lette e rilette, perché era suo massimo interesse che tutti gli eventi accaduti fossero tramandati ai posteri. Rese pubblici i conti dello Stato, la cui pubblicazione, solitamente consentita da Augusto, era stata sospesa da Tiberio. Concesse ai magistrati libertà di giurisdizione senza doversi appellare a lui. […] Cercò anche di restituire al popolo il diritto di voto ripristinando l’uso dei comizi. Pagò i lasciti del testamento di Tiberio, sebbene fosse stato annullato, ma anche quelli del testamento di Giulia Augusta che Tiberio aveva tenuto nascosti e lo fece fedelmente senza sollevare obiezioni. Condonò il mezzo per cento delle vendite all’asta in Italia. […] Per sembrare favorire al massimo ogni buon esempio, donò ottantamila sesterzi a una liberta che, sottoposta a terribili torture, non aveva confessato le colpe del suo padrone.»

SVETONIO, CALIGOLA, 14-16

Tuttavia pochi mesi dopo l’inizio del suo principato Caligola cadde gravemente malato e per poco non rischiò di morire; non sappiamo quali siano state le sue reali condizioni di salute e cosa abbia causato tutto ciò, ma tutte le fonti sono concordi nell’identificare il principe venuto dopo la lunga degenza come un mostro:

«Finora ho parlato più o meno del principe; mi resta ora di parlare del mostro. Dopo aver assunto vari epiteti (si faceva chiamare infatti Pio, Figlio dell’accampamento, Padre degli eserciti, Cesare Ottimo Massimo), quando sentì per caso alcuni re, giunti a Roma per rendergli ossequio, discettare durante la cena che si teneva alla sua mensa, della nobiltà di stirpe, esclamò: «Uno solo sia il sovrano, uno solo il re!». E mancò poco che si mettesse in testa immediatamente il diadema e mutasse la parvenza del principato nella forma effettiva del regno.»

SVETONIO, CALIGOLA, 22

Un cavallo importante

«Non passò molto tempo e l’uomo che era stato considerato benefattore e salvatore […] si trasformò in essere selvaggio o piuttosto mise a nudo il carattere bestiale che aveva nascosto sotto una finta maschera»

Filone di Alessandria, De Legatione ad Gaium, 22

Non è chiaro quale fosse stata la causa, ma da allora il modo di governare cambiò completamente: cominciò a governare in modo assolutistico, senza tenere più in considerazione il senato, che anzi dispregiava; arrivò anche a considerare di dare il consolato al suo carissimo cavallo Incitatus:

«Per il suo cavallo Incitato faceva imporre e rispettare il silenzio, anche con l’intervento delle guardie, la sera prima della corsa, affinché non fosse disturbato. Gli donò, oltre una stalla di marmo e una greppia d’avorio, coperte di porpora e bardamenti di pietre preziose e anche una casa con tanto di servitù e mobilio, perché le persone che faceva invitare a nome del cavallo fossero ospitate assai degnamente. Si dice che volesse persino candidarlo al consolato.»

Svetonio, Caligola, 55

Lo storico romano Cassio Dione racconta che l’alimentazione del cavallo comprendeva fiocchi d’avena, frutti di mare e pollo; possedeva coperte di porpora e pietre preziose; aveva inoltre una villa e dei servi che si occupavano solo di lui. Le stalle in cui viveva erano di marmo con mangiatoie d’avorio. Talvolta mangiava alla stessa tavola dell’imperatore e quando quest’ultimo brindava in suo onore i commensali erano costretti a fare lo stesso. Probabilmente dietro il gesto di Caligola c’era anche la voglia di mettere in ridicolo i senatori, considerati da lui un retaggio del passato o forse era solo frutto della pazzia che aveva colpito l’imperatore dopo la malattia. E’ anche vero, tuttavia, che sia Svetonio, sia Cassio Dione, scrissero molto tempo dopo e forse riportavano notizie e voci non comprovate. Certo è che le numerose storie di follia raccontate da Svetonio devono pur avere una qualche base.

Caligola divenne insomma autoritario e dispotico, mettendosi contro praticamente tutti. Venne accusato di adulterio, di uccidere per divertimento, di dilapidare il tesoro pubblico (che reintegrava uccidendo senatori e intascandone le proprietà); infine giunse nel 40 a far porre per disprezzo una sua statua colossale nel tempio di Gerusalemme, causando quasi una rivolta. Si sentiva in tutto e per tutto un dio:

«Dopo aver assunto vari epiteti (si faceva chiamare infatti Pio, Figlio dell’accampamento, Padre degli eserciti, Cesare Ottimo Massimo), quando sentì per caso alcuni re, giunti a Roma per rendergli ossequio, discettare durante la cena che si teneva alla sua mensa, della nobiltà di stirpe, esclamò: «Uno solo sia il sovrano, uno solo il re!». E mancò poco che si mettesse in testa immediatamente il diadema e mutasse la parvenza del principato nella forma effettiva del regno. Ma, poiché gli ricordarono che egli era andato ben oltre la grandezza dei principi e dei re, da quel momento iniziò ad attribuirsi la maestà divina. Diede incarico di portare dalla Grecia i simulacri degli dei, noti per la loro importanza religiosa o artistica, e tra questi la statua di Zeus Olimpio, e fece sostituire la testa di queste statue con la riproduzione della propria. Fece prolungare una parte del Palazzo fino al Foro e, trasformato il tempio di Castore e Polluce in vestibolo, si presentava spesso seduto tra i due Dioscuri a coloro che si recavano da lui, come terza divinità da adorare in mezzo agli altri due e alcuni lo salutavano anche come Giove Laziale. Instituí inoltre in onore del proprio nume un tempio, dei sacerdoti e vittime assai rare. Nel tempio era stata eretta una sua statua d’oro a grandezza naturale, che ogni giorno veniva avvolta da una veste identica a quella indossata da lui stesso. I cittadini più ricchi si contendevano le cariche di quel sacerdozio brigando e offrendo grandi somme di denaro per ottenerle. Le vittime erano fenicotteri, pavoni, urogalli, faraone, galli indiani, fagiani ed ogni giorno ne veniva immolata una specie diversa. Di notte poi invitava la luna piena e luminosa, con preghiere assidue, a far l’amore e a giacere con lui; di giorno invece conversava in segreto con Giove Capitolino, ora bisbigliando e porgendo a sua volta l’orecchio, ora a voce alta e lanciando improperi. Lo si udì infatti minacciare: «O tu togli di mezzo me, o io te!». Finché, supplicato, così andava dicendo, e anzi invitato a vivere con lui, fece unire il Palatino con il Campidoglio, facendo passare un ponte sopra il tempio del Divo Augusto. Subito dopo, per stargli ancora più vicino, fece gettare le fondamenta della nuova reggia proprio nell’area capitolina.»

Svetonio, Caligola, 22

Le continue stravaganze ed eccessi di Caligola non potevano durare a lungo nella Roma del I secolo d.C. Attiratosi le antipatie di senatori e soldati, era solo una questione di tempo. La morte giunse infine il 24 gennaio del 41 d.C., per mano dei pretoriani, con l’appoggio del senato:

«Verso l’una, Caio era indeciso se andare a pranzo, avendo ancora lo stomaco in disordine per quanto aveva mangiato il giorno prima. Alla fine, persuaso dagli amici, uscì. In una galleria, che doveva attraversare, alcuni nobili giovinetti chiamati dall’Asia per rappresentare uno spettacolo in scena stavano provando. Caio si fermò a guardarli e ad incoraggiarli e, se il capo della compagnia non avesse detto che avevano freddo, avrebbe deciso di tornare indietro e far eseguire lo spettacolo. Da questo punto ci sono due versioni diverse: alcuni raccontano che, mentre stava parlando con questi ragazzi, Cherea da dietro lo colpì pesantemente alla nuca con la spada, di taglio, dopo aver detto «Colpisci!» e subito l’altro congiurato, il tribuno Cornelio Sabino, gli trafisse il torace. Secondo altri, invece, Sabino, fatta allontanare la folla da alcuni centurioni complici della congiura, aveva chiesto a Caio la parola d’ordine, secondo la consuetudine militare e, quando quello aveva risposto «Giove», Cherea da dietro aveva gridato: «Prendilo per certo» e, mentre si voltava, lo aveva colpito alla mascella. Mentre Caio a terra, con le membra contratte, gridava di essere ancora vivo, gli altri lo finirono con trenta ferite. Infatti la parola d’ordine per tutti era: «Colpisci ancora!». Alcuni gli trafissero anche i genitali. All’inizio del tumulto accorsero i portantini e anche le guardie del corpo germaniche che uccisero alcuni degli attentatori e anche alcuni senatori innocenti.»

Svetonio, Caligola, 58

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Incitato, il cavallo di Caligola
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