«Mentre il console a Roma attendeva a placare gli dèi e a far leve, Annibale, che era partito dai quartieri d’inverno, poiché si diceva che il console Flaminio fosse già giunto ad Arezzo, prese la via più breve — benché gli se ne presentasse un’altra più lunga ma più comoda — attraverso paludi per dove l’Arno in quei giorni più del solito era straripato. Diede ordine che per primi avanzassero gli Ispani e gli Africani e il nerbo dell’esercito veterano unitamente ai loro bagagli, affinché non mancassero loro i mezzi di sussistenza se fossero costretti a fermarsi in qualche luogo, e che tenessero loro dietro i Galli, purché fossero essi il centro dell’esercito in marcia, e per ultimi avanzassero i cavalieri, e Magone poi chiudesse la schiera con i Numidi privi di bagagli, con il compito soprattutto di tenere a freno i Galli, se per avversione alla fatica e alla lunga marcia — dato che è gente imbelle a tali disagi — si fossero sbandati o fermati.»

TITO LIVIO, AUC XXII, 2, 1-4

Dopo l’arrivo di Annibale in Italia, nel 218 a.C., attraversando le Alpi, i romani erano stati colti di sorpresa e sconfitti al Ticino e alla Trebbia in quello stesso anno. Il cartaginese ottenne ben presto l’appoggio dei galli cisalpini, che odiavano i romani e dai quali erano stati appena sottomessi, che andarono dunque a rimpinguare l’esercito dell’invasore, il quale si mosse rapidamente verso sud. I romani decisero subito di inviare i consoli Gaio Servilio Gemino e Gaio Flaminio Nepote a bloccarlo.

Paludi e laghi

«[Annibale] Trattosi finalmente fuori dalle paludi dopo aver perso miseramente molti uomini e bestie da soma, si accampò non appena lo poté in luogo asciutto; e seppe con certezza dagli esploratori mandati innanzi che l’esercito romano si trovava intorno alle mura di Arezzo. Poi cercava di sapere con indagini accuratissime su ogni cosa le intenzioni e l’indole del console e la posizione dei luoghi e le strade e i mezzi per procacciare vettovaglie e tutte le altre cose che era utile sapere. La regione era tra le più fertili d’Italia, la campagna etrusca che si stende tra Fiesole e Arezzo, pingue di frumento e di bestiame e di ogni prodotto in abbondanza; il console era arrogante per il precedente consolato e poco timorato non solo delle leggi e della maestà del senato, ma persino degli dèi. Questa temerità insita nella sua indole era stata alimentata dalla fortuna, per il buon esito delle sue imprese civili e militari.»

TITO LIVIO, AUC XXII, 3, 1-4

Annibale cercò di sorprendere i romani e di marciare secondo la via più breve possibile, ovvero attraverso le paludi che circondavano il lago Trasimeno: il clima insalubre favorì il peggioramento delle condizioni dell’occhio di Annibale, già malmesso, che gli causò la perdita parziale della vista. Nel frattempo Gaio Flaminio Nepote era stato inviato a raccogliere le forze al nord, che il cartaginese si era lasciato alle spalle, mentre Gneo Servilio presidiava Rimini e la via Flaminia, per impedire ai galli di portare altro aiuto ad Annibale, con quattro legioni e socii italici, per un totale di circa 20-25.000 uomini. C’erano altre sette legioni a difesa della repubblica, oltre all’esercito di Flaminio: due a Roma, due in Spagna, due in Sicilia, una in Sardegna e anche altri aiuti erano arrivati a Taranto, dove erano state allestite 60 quinqueremi; anche il re siracusano Gerone aveva inviato cinquecento arcieri cretesi e mille peltasti.

Flaminio aveva un esercito di circa 25-30.000 uomini, inferiore a quello di Annibale che ne aveva circa 40-50.000. Il cartaginese aveva varcato gli Appennini e si apprestava a muoversi verso Roma; il console si decise a intercettarlo il prima possibile, mentre i nemici saccheggiavano l’Etruria. L’azione serviva a spingere il romano a combattere e non attendere i rinforzi di Servilio. Per stuzzicarlo il barcide sfilò nei pressi di Arezzo, continuando a depredare la regione e instillare il seme della ribellione negli alleati italici, mentre il console Flaminio era accampato nei pressi della stessa città. Ma il romano non abboccò e inviò una richiesta d’aiuto a Servilio, mentre seguiva il cartaginese senza accettare di dare battaglia, almeno non fino all’arrivo dell’altro console.

Annibale decise di cogliere l’occasione per annientare l’esercito nemico ed evitare che si riunisse con l’alleato: deviò il suo percorso e invece di passare per Chiusi virò verso est e prese la via Flaminia, addentrandosi nella zona antistante il lago Trasimeno, dove decise di nascondersi e attendere l’arrivo dell’inseguitore. Dispose l’esercito nelle colline circostanti e nelle foreste; Flaminio giunse già la sera, ma avrebbe ripreso la marcia il giorno seguente. I romani allora passarono per l’unica strada percorribile, uno stretto passaggio lungo circa 400 m, delimitato da un lato dalle sponde del lago e dall’altro dalle pendici dei monti di Cortona. Di fronte alla via, a sbarrare il passo, Annibale fece costruire un campo ben visibile e pose tutta la sua fanteria pesante libica e ispanica, circa 15.000 soldati. Sulle colline pose i galli, altrettanti, nascondendo anche la cavalleria, composta di circa 10.000 cavalieri. Sul lato opposto alla fanteria Annibale nascose la fanteria leggera e i frombolieri delle Baleari.

Quando i romani iniziarono a marciare, all’alba del 21 giugno 217 a.C., infilandosi nella stretta via prospicente le rive lacustri, c’era anche una fitta nebbia a valle, mentre i cartaginesi, accampati in alto, avevano una buona visuale. Arrivati nella vallate di fronte all’accampamento cartaginese, Annibale lanciò l’attacco, mentre il grosso dell’esercito era ancora in marcia e non si rendeva conto del pericolo per via della nebbia. Contemporaneamente i galli, i cavalieri e i frombolieri attaccarono i restanti soldati in marcia, generando il caos e spingendo i romani verso l’acqua: chi sopravvisse finì in molti casi per annegare. La fanteria leggera cartaginese aggirò i romani e chiuse la via di fuga alle spalle, ampliando il massacro. Nonostante tutto i romani resistettero per tre ore, finché Flaminio non venne ucciso da un cavaliere celta. A quel punto iniziò la fuga: quasi tutti i romani che componevano la colonna di marcia vennero uccisi o catturati e ben pochi riuscirono a darsi alla macchia attraverso le colline, ma i componenti dell’avanguardia riuscirono a sfondare la fanteria pesante cartaginese e ritirarsi in numero di circa 6.000. Alla fine, secondo Tito Livio, 15.000 furono i caduti e i prigionieri e circa 10.000 fuggirono e rientrarono a Roma, mentre i nemici persero solo 1.500 uomini.

«Flaminio, che era giunto al tramonto del giorno precedente presso il lago, l’indomani, senza aver fatto ricognizioni, superato lo stretto passaggio quando appena albeggiava, dopo che l’esercito in marcia ebbe cominciato a dispiegarsi nel tratto più largo di pianura, scorse soltanto quella parte dei nemici che gli era di fronte; 〈non〉 colse le insidie che aveva alle spalle e sulla testa. Il Cartaginese, non appena ebbe il nemico chiuso dal lago e dai monti e accerchiato dalle sue truppe — ciò che appunto aveva voluto — diede il segnale che tutti attaccassero contemporaneamente. E appena questi corsero giù, ciascuno per la via a lui più vicina, tanto più per i Romani inaspettato e repentino fu l’attacco, perché una nebbia levatasi dal lago si era addensata più sulla pianura che sui monti e le schiere dei nemici da molte alture erano piombate giù tanto più simultaneamente in quanto per parte loro potevano scorgersi l’una l’altra sufficientemente. I Romani dalle grida che si eran levate da ogni parte, prima che sufficientemente lo vedessero, si accorsero di essere stati accerchiati e si cominciò a combattere sulla fronte e sui fianchi prima che sufficientemente l’esercito fosse disposto in ordine di battaglia o le armi potessero essere prese e le spade brandite. Il console, nello sbigottimento generale, per parte sua abbastanza calmo tenuto conto della 〈situazione〉 critica, cerca di ordinare, per quanto lo permettono il tempo e il luogo, le file scompigliate — ciascuno infatti si volge a seconda delle grida che qua e là risuonano — e, dovunque possa andare ed essere udito, esorta e ordina di star fermi e di combattere: non si deve infatti uscir di lì facendo voti o implorando gli dèi, ma con la forza e il valore; in mezzo alle schiere ci si fa strada con il ferro e, quanto minore è la paura, tanto minore di solito è il pericolo. Del resto a causa dello strepito e del trambusto non si poteva intendere né un’esortazione né un ordine, ed erano tanto lontani dal riconoscere le proprie insegne e file e posto di combattimento che a stento avevano il coraggio di prendere le armi e di prepararle per la battaglia e certuni, più che protetti da esse, erano soffocati dal loro peso. Ed in così fitta nebbia servivano più le orecchie che gli occhi. Volgevano attorno i volti e gli occhi, ai gemiti causati dalle ferite e ai colpi dei corpi o delle armi e alle grida mischiate di chi faceva strepito e di chi era terrorizzato. Alcuni che cercavano di fuggire cacciatisi in un gruppo di combattenti vi rimanevano impigliati, altri che cercavano di tornare in battaglia ne erano volti via da una schiera di fuggenti. Poi, allorché gli attacchi in ogni direzione risultarono infruttuosi, e ai lati i monti e il lago, di fronte e alle spalle le schiere dei nemici facevano barriera, e fu evidente che non c’era nessuna speranza di salvezza se non nella destra e nel ferro, allora ciascuno divenne per sé stesso comandante ed esortatore a combattere, e nacque daccapo una nuova battaglia, non quella ordinata regolarmente secondo i prìncipi, gli astati e i triari, né in modo che gli antesignani combattessero davanti alle insegne e dietro le insegne il resto dello schieramento, e neanche in modo che il soldato fosse nella propria legione o coorte o manipolo; il caso li accozzava e il proprio coraggio assegnava a ciascuno il posto di combattimento davanti o dietro; e tanto grande fu l’ardore degli animi, a tal punto intenti alla battaglia furono gli animi, che nessuno dei combattenti si accorse di quel terremoto che rase al suolo vaste parti di molte città d’Italia e deviò dal corso rapidi fiumi e fece rifluire il mare nei fiumi e fece precipitare montagne con enorme frana. Si combatté per circa tre ore e dappertutto con grande accanimento; intorno al console tuttavia la battaglia fu più violenta e furiosa. Egli sia era seguito dal fior fiore dei guerrieri sia per parte sua con slancio portava aiuto dovunque si fosse accorto che i suoi erano incalzati e si trovavano in difficoltà; e poiché si distingueva per l’armatura, sia i nemici con estrema violenza cercavano di colpirlo sia i cittadini lo difendevano, finché un cavaliere insubro — si chiamava Ducario — riconoscendo il console anche alla fisionomia: «È questi — disse ai suoi concittadini — colui che ha fatto strage delle nostre truppe e ci ha saccheggiato i campi e la città. Or dunque lo sacrificherò come vittima ai Mani dei cittadini crudelmente uccisi!» e spronato il cavallo si scaglia per dove più folta è la massa dei nemici e, trucidato prima uno scudiero il quale si era gettato avanti contro di lui che veniva all’attacco, trafisse il console con la lancia; bramoso di spogliarlo, ne fu impedito da triari che frapposero a difesa gli scudi. Quello fu il momento d’inizio della fuga di gran parte (dell’esercito romano); e ormai né il lago né i monti eran d’ostacolo alla paura; come ciechi, cercan di fuggire per luoghi che son solo strettoie e dirupi, e armi e uomini precipitano gli uni sopra gli altri. Molti, allorché manca una via di fuga, attraverso i primi bassifondi paludosi s’immergono nell’acqua, inoltratisi fin dove possono sporger fuori con la testa 〈o〉 le spalle. Ci furon coloro che una sconsiderata paura spinse a darsi alla fuga anche a nuoto: dal momento che una tale fuga era interminabile e senza speranza, o, venendo meno la forza d’animo, erano inghiottiti dai gorghi o, dopo essersi invano stancati, con enorme fatica tornavano indietro nei bassifondi e lì venivano massacrati qua e là dai cavalieri dei nemici entrati in acqua. Circa seimila uomini dell’avanguardia dell’esercito, fatto prontamente un tentativo di sfondamento attraverso i nemici che avevano di fronte, ignari di tutto ciò che accadeva dietro di loro, si trassero fuori dalla gola e, essendosi fermati su di un’altura, udendo soltanto le grida e il suono delle armi, non potevano né sapere né vedere a causa della nebbia quale fosse l’andamento della battaglia. Soltanto dopo che questa ebbe preso la piega decisiva e il dissiparsi della nebbia sotto la sferza del sole ebbe lasciato apparire il giorno, allora nella luce ormai limpida i monti e il piano mostrarono il disastro e l’esercito romano orribilmente steso al suolo. Perciò, per non essere attaccati dai cavalieri se fossero stati avvistati di lontano, levate in fretta e furia le insegne, fuggirono precipitosamente a marce quanto più possibile forzate. Il giorno dopo, mentre oltre a tutto il resto anche una fame giunta agli estremi era loro addosso, sulla parola di Maarbale, il quale di notte li aveva raggiunti con tutta la cavalleria — se avessero consegnato le armi, egli avrebbe permesso loro di andarsene con un solo vestito per ciascuno — si arresero; questa parola fu mantenuta da Annibale secondo la scrupolosa coscienza cartaginese, e tutti furono gettati in catene.»

TITO LIVIO, AUC XXII, 4,4 – 6,12

Il temporeggiatore

Dopo la sconfitta del Trasimeno nel 217 a.C., in quello stesso anno Quinto Fabio Massimo venne nominato dittatore. La sua scelta, a differenza dei predecessori, fu di attendere ed evitare lo scontro diretto, dove Annibale sembrava invincibile, lasciandolo libero di scorrazzare ma seguendolo sempre da vicino e stando pronto a fare piccole sortite, ma ponendo il campo in zone rialzate e impervie dove la cavalleria numida non avrebbe potuto dispiegare la sua forza. Nonostante l’opposizione la tattica si rivelò vincente e si guadagnò il sopranome di cuntactor (dice Ennio che qui cunctando restituit rem, “temporeggiando ripristinò lo stato), ossia “temporeggiatore“:

«Fabio aveva deciso di non esporsi al rischio e di non venire a battaglia [con Annibale]. […] Inizialmente tutti lo consideravano un incapace, e che non aveva per nulla coraggio […] ma col tempo costrinse tutti a dargli ragione e ad ammettere che nessuno sarebbe stato in grado di affrontare quel momento delicato in modo più avveduto e intelligente. Poi i fatti gli diedero ragione della sua tattica.»

POLIBIO, STORIE, III, 89, 3-4

Tuttavia le critiche verso la sua strategia restavano forti e il magister equitum Marco Minucio Rufo, alla guida dei suoi detrattori, cercò nuovamente di tornare ad affrontare Annibale, mentre il tribuno della plebe Marco Metilio presentava una legge per dividere in parti uguali il potere tra il dittatore e il suo vice, come se fossero stati due consoli. La legge fu comunque accettata e votata dai comizi e ratificata dal senato (si ebbero così due dittatori), ma quando Rufo fu quasi ucciso da Annibale e il suo esercito in forte pericolo vennero salvati dall’intervento risolutivo di Massimo, l’ex magister equitum lasciò la sua carica lasciando di nuovo la dittatura a Fabio, che però la rimise al termine dei sei mesi di mandato. Dei due consoli che seguirono, Lucio Emilio Paolo seguì i suoi insegnamenti, mentre Gaio Terenzio Varrone, più avventato, guidò i romani nel disastro di Canne del 216 a.C.

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La battaglia del lago Trasimeno
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