La prima guerra sannitica

Nel corso della prima guerra sannitica (343-341 a.C.) i due popoli si contesero la Campania e furono i romani ad avere la meglio; la città di Capua era stata il casus belli. Attaccati dai sanniti, i capuani chiesero aiuto a Roma, che intervenne solo dopo che la città si consegnò ai romani tramite la pratica della deditio (i romani avevano infatti concluso un trattato di non belligeranza nel 354):

«Visto che rifiutate di far ricorso a un legittimo uso della forza per opporvi alla violenza e all’ingiustizia perpetrate nei confronti di ciò che ci appartiene, proteggerete almeno quanto appartiene a voi. Di conseguenza noi affidiamo alla vostra autorità e a quella del popolo romano il popolo della Campania e la città di Capua, le campagne, i santuari degli dèi e tutte le cose sacre e profane: qualunque cosa affronteremo da questo momento in poi, la affronteremo come vostri sudditi». Pronunciando queste parole, con le mani tese verso il console e il volto rigato dalle lacrime, si prostrarono a terra nel vestibolo della curia. »

Tito Livio, Ab Urbe condita libri, VII, 31

Capua era adesso una città romana e fu chiesto ai sanniti di interrompere l’assedio, inutilmente. I consoli Cornelio Cosso Arvina e Marco Valerio Corvo attaccarono i sanniti; Marco Valerio vinse al Monte Gauro:

« I sanniti vennero catturati, uccisi (e non ne sarebbero sopravvissuti molti, se la notte non avesse interrotto quella che era una vittoria più che una battaglia). I romani ammettevano di non aver mai combattuto con un nemico più tenace, mentre i sanniti, essendo loro stato domandato che cosa li avesse spinti, nella loro determinazione, alla fuga, dicevano di aver visto il fuoco negli occhi dei romani, e un folle furore nei loro sguardi. »

Tito Livio, Ab Urbe condita libri, VII, 33

Aulo Cornelio ebbe più difficoltà, ma alla fine, con l’intervento di Publio Decio Mure, ebbe la meglio. Alla fine, nel 341, i sanniti chiesero e ottennero la pace.

La seconda guerra sannitica

La seconda guerra tra romani e sanniti fu invece molto più lunga e complessa, tanto da durare vent’anni, dal 326 al 304 a.C. La guerra scaturì da una serie di atti ostili da ambo le parti. I romani fondarono nel 328 a.C. una colonia a Fregellae, presso l’odierna Ceprano, sulla riva orientale del fiume Liri, cioè in un territorio che i sanniti consideravano loro.

Nonostante lo scontro, nel 324 a.C., tra il dittatore Lucio Papirio Cursore e il suo magister equitum Quinto Fabio Massimo Rulliano, i romani ottennero la vittoria contro i sanniti a Imbrinum (dove iniziò la lite tra i due) e altri successi l’anno seguente sotto il comando del console Gaio Sulpicio Longo. Nel 322 il dittatore Aulo Cornelio Cosso Arvina ottenne un altro successo.

I sanniti erano preoccupati dall’avanzata dei romani in Campania, così quando Roma dichiarò guerra alla città greca di Palopolis, i sanniti inviarono 4.000 soldati a difenderla. I romani invece accusavano i sanniti di aver spinto alla ribellione le città di Formia e Fondi. L’ostilità tra i due popoli era dunque forse inevitabile, visto che entrambe le potenze volevano il controllo del centro-sud Italia.

Le forche caudine

Inizialmente la guerra fu favorevole ai romani, finché nel 321, alle Forche Caudine, i sanniti di Gaio Ponzio Telesino sconfissero le legioni dei consoli Tiberio Veturio Calvino e Spurio Postumio Albino Caudino: i romani furono condotti in un’imboscata, presso una gola, ingannati dai sanniti travestiti da pastori e catturati, mentre marciavano da Capua a Benevento:

« due gole profonde, strette, ricoperte di boschi, congiunte l’una all’altra da monti che non offrono passaggi, delimitano una radura abbastanza estesa, a praterie irrigate, nel mezzo della quale si apre la strada; ma per arrivare a quella radura bisogna prima passare attraverso la prima gola; e quando tu l’abbia raggiunta, per uscirne, o bisogna ripercorre lo stesso cammino o, se vuoi continuare in avanti, superare l’altra gola, più stretta e irta di ostacoli. »

« I romani, discesi con tutto l’esercito nella radura per una strada ricavata nelle rocce, quando vollero attaccare senza indugi la seconda gola, la trovarono sbarrata da tronchi d’albero e da ammassi di poderosi macigni. »

« Senza che ne venga dato l’ordine si arrestano: gli animi sono presi da sgomento, le membra irrigidite da una specie di torpore; si guardano gli uni gli altri come se ciascuno cercasse nel viso del compagno un’idea o un progetto di cui si sente privo: immobili in lungo silenzio. »

Tito Livio, Ab Urbe condita libri, IX, 2

I romani si accorsero solo dopo essere entrati nella gola che tutte le vie d’accesso erano state sbarrate e i sanniti li controllavano dall’alto. Tuttavia, nonostante lo sgomento descritto da Livio i romani eressero come loro solito il campo. Continua Tito Livio con il discorso del sannita Erennio Ponzio:

« […] Conservate ora coloro che avete inaspriti col disonore: il popolo romano non è un popolo che si rassegni ad essere vinto; rimarrà sempre viva in lui l’onta che le condizioni attuali gli hanno fatto subire, e non si darà pace se non dopo averne fatto pagare il fio ad usura »

Tito Livio, Ab Urbe condita libri, IX, 3

I romani capirono di non aver via d’uscita e chiesero la resa. I sanniti decisero che:

« li avrebbero fatti passare sotto il giogo, disarmati, vestiti della sola tunica. Le altre condizioni di pace accettabili ai vinti e ai vincitori: il ritiro dell’esercito dal territorio dei sanniti e quello delle colonie ivi mandate; in seguito romani e sanniti sarebbero vissuti ciascuno con le proprie leggi in giusta alleanza. »

Tito Livio, Ab Urbe condita libri, IX, 4

Fu così che ebbe luogo uno dei più disonorevoli episodi della storia romana, un atto di “grande gloria a chi imponeva una tale umiliazione, ma totale ignominia a chi la subiva” (Cassio Dione, Storia Romana, V):

«Furono fatti uscire dal terrapieno inermi, vestiti della sola tunica: consegnati in primo luogo e condotti via sotto custodia gli ostaggi. Si comandò poi ai littori di allontanarsi dai consoli; i consoli stessi furono spogliati del mantello del comando […] Furono fatti passare sotto il giogo innanzi a tutti i consoli, seminudi; poi subirono la stessa sorte ignominiosa tutti quelli che rivestivano un grado; infine le singole legioni. I nemici li circondavano, armati; li ricoprivano di insulti e di scherni e anche drizzavano contro molti le spade; alquanti vennero feriti ed uccisi, sol che il loro atteggiamento troppo inasprito da quegli oltraggi sembrasse offensivo al vincitore. »

Tito Livio, Ab Urbe condita libri, IX, 5-6

Il senato romano, saputo della disfatta, rigettò sdegnosamente la resa, ritenuta infamante:

«Già anche a Roma era giunta la fama della vergognosa disfatta. Dapprima avevano saputo che erano stati circondati; poi più doloroso che l’annuncio del pericolo era giunto quello della pace ignominiosa. Alla notizia dell’assedio si era cominciata a tenere la leva, ma quando si apprese che era avvenuta una resa così disonorante, fu interrotto l’allestimento dei rinforzi, e subito senza attendere alcuna decisione ufficiale il popolo unanime si abbandonò ad ogni manifestazione di lutto: furono chiuse le botteghe intorno al foro, e sospesi spontaneamente gli affari pubblici prima ancora che venisse dato l’ordine; furono deposte le toghe orlate di porpora e gli anelli d’oro; i cittadini erano quasi più addolorati che lo stesso esercito, e non solo erano adirati contro i comandanti e contro gli autori e i garanti della pace, ma odiavano pure i soldati innocenti, ed affermavano che non si dovevano accogliere nella città né dentro le case. Ma il risentimento degli animi fu troncato dall’arrivo dell’esercito, che suscitò la compassione anche dei più irati. Infatti entrati a tarda sera in città, non come gente che contro ogni speranza ritornava in patria sana e salva, ma con aspetto e volto di prigionieri, si rinchiusero nelle loro case, e né l’indomani né i giorni successivi nessuno di loro volle vedere il foro o la pubblica via. I consoli, nascosti nella loro abitazione, non compirono alcun atto inerente alla carica, tranne ciò che un decreto del senato aveva prescritto, di nominare un dittatore per presiedere i comizi. Nominarono Quinto Fabio Ambusto, e maestro della cavalleria Publio Elio Peto; ma essendovi stata un’irregolarità in questa nomina, furono sostituiti dal dittatore Marco Emilio Papo e dal maestro della cavalleria Lucio Valerio Flacco. Neppure questi ultimi tennero le elezioni, e poiché il popolo era insofferente di tutti i magistrati di quell’anno, si ebbe un interregno. Furono interré Quinto Fabio Massimo e Marco Valerio Corvo, il quale proclamò consoli Quinto Publilio Filone e Lucio Papirio Cursore per la seconda volta, eletti col consenso unanime della cittadinanza, poiché erano i più insigni generali di quel tempo.»

Tito Livio, Ab Urbe Condita Libri, IX, 7, 7-15

Tuttavia già l’anno successivo, il 320, i consoli Lucio Papirio Cursore e Quinto Publilio Filone (nominati dai due interreges Quinto Fabio Massimo e Marco Valerio Corvo, lo stesso della prima guerra sannitica – una pratica antichissima e dovuta al fatto che non era stato possibile eleggere un dictator -, in quanto giudicati i migliori comandanti militari possibili) marciarono verso le Forche Caudine e consegnarono ai sanniti i consoli che avevano trattato, rigettando dunque la pace e riprendendo le ostilità.

Ne seguirono altri anni di guerra, in cui i romani combatterono una durissima battaglia a Lautulae, nel 315, presero diverse città ai sanniti tra cui Nola e infine, con la battaglia di Bovianum, nel 305, i romani sconfissero definitivamente il nemico, e nel 304 fu concordata la pace. Anche stavolta i romani avevano avuto la meglio, ma stavolta le ostilità si erano protratte per un ventennio.

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Le Forche Caudine
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