Nell’estate del 48 a.C., dopo l’infruttuoso assedio di Durazzo, Cesare, con un esercito grande la metà di quello di Pompeo, batteva quest’ultimo a Farsalo, in Tessaglia. Pompeo decise allora di fuggire in Egitto, dove avrebbe trovato la morte.

Verso la battaglia

Quando Cesare aveva varcato il Rubicone Pompeo era fuggito con gran parte del senato in Grecia, dove contava di ricevere l’appoggio di numerosi alleati orientali, visti i rapporti di amicizia creati durante la campagna contro i pirati. Cesare lo inseguì a Brindisi e poi varcò l’Adriatico. Il 10 luglio del 48 a.C. avveniva la battaglia di Durazzo tra le forze cesariane e i pompeiani. Cesare aveva assediato la città difesa da Pompeo Magno, attuando nuovamente la tattica di Alesia creando una nuova circonvallazione. Pompeo tuttavia trovò un punto debole e lanciò un attacco con tutte le sue forze, forte anche dei rinforzi che riceveva via mare. Cesare tentò di contrattaccare a più riprese ma infine i pompeiani sfondarono le difese cesariane, costringendo il conquistatore della Gallia alla ritirata, che riuscì a mettere in atto con vari stratagemmi. In un giorno, durante l’assedio, si svolsero sei scontri, che videro – secondo Cesare – 2.000 morti tra i pompeiani e solo 20 tra i cesariani; ma – aggiunge il comandante romano – i suoi furono tutti feriti e quattro centurioni dell’ottava coorte persero la vista:

«Così, in una sola giornata, si svolsero sei battaglie, tre presso Durazzo e tre presso le fortificazioni. Facendo un conto complessivo, calcolavamo a circa duemila uomini le perdite dei pompeiani, tra i quali molti richiamati e centurioni, e tra questi Valerio Fiacco, figlio di quel Lucio che era stato pretore in Asia; furono prese anche sei insegne militari. Le nostre perdite non ammontarono a più di venti uomini in tutti gli scontri. Ma non vi fu neppure un soldato, di quelli del fortino, che non riportasse delle ferite; quattro centurioni dell’ottava coorte persero la vista. Volendo presentare una prova della fatica e dei rischi che avevano corso, contarono davanti a Cesare circa tremila frecce scagliate contro il fortino e gli fu presentato lo scudo del centurione Sceva sul quale furono trovati centoventi fori. Cesare, per i meriti acquisiti verso di lui e la repubblica, gli fece un donativo di duecentomila sesterzi e lo promosse da centurione dell’ottava centuria a centurione primipilo – risultava infatti che in gran parte grazie al suo impegno il fortino si era salvato – premiò poi la coorte con doppia paga e una larga distribuzione di frumento, vesti, cibi e decorazioni militari.»

Cesare, De Bello Civili, III, 53

I cesariani furono costretti a ritirarsi da Durazzo, andando in Tessaglia, dove raccolsero alleati, tranne la città di Larissa in mano al pompeiano Quinto Cecilio Metello Pio Scipione Nasica, al comando delle truppe raccolte in oriente. Pompeo decise dunque di muoversi verso la Tessaglia, confidando di unire le forze e schiacciare Cesare, credendo impossibile per quest’ultimo una vittoria in inferiorità numerica così marcata. Giunto sul posto Pompeo si unì all’alleato, portando le sue forze a circa 45.000 uomini. Ormai certo della vittoria, iniziò una certa rilassatezza nel campo pompeiano, che sarà fatale. Infatti già cominciavano a spartirsi le cariche politiche per gli anni successivi nonostante la battaglia non fosse stata ancora combattuta. Lo scontro si sarebbe svolto nei pressi Farsalo. Cesare narra di un curioso scambio di battute prima della battaglia con un suo centurione, Gaio Crastino:

“Mentre si accingeva a muovere l’esercito e a dare inizio all’azione, Cesare vide uno dei centurioni, uomo fidato ed esperto di guerra, incoraggiare i suoi soldati sfidandoli a gareggiare in valore. «O Gaio Crassinio», gli disse, chiamandolo per nome, «quali speranze abbiamo, e come stiamo a coraggio?». E lui, gridando e protendendo la destra: «Sarà una splendida vittoria, o Cesare. Quanto a me, oggi, o vivo o morto, mi ringrazierai!». Detto questo, per primo si slancia sul nemico, trascinandosi dietro nella corsa i suoi centoventi soldati. Travolti i primi della schiera vi penetra dentro aprendosi un varco con forza e con grande strage, finché non crolla infilzato dalla lama di una spada che gli attraversa la bocca spuntando fuori dalla nuca.”

plutarco, vite parallele, cesare, 44

Lo scontro

Il 9 agosto del 48 a.C. avvenne lo scontro decisivo a Farsalo. Pompeo aveva circa il doppio dei soldati, 45.000 contro 22.000, e una larga forza di cavalleria (6 o 7.000, il quadruplo circa di quelli di Cesare). Il piano fin da subito fu quello di usare la cavalleria, comandata da Tito Labieno, già comandante di Cesare in Gallia, per accerchiare il fianco destro di Cesare, mentre sul lato opposto un fiume non rendeva possibile alcuna manovra. L’idea era di usare la cavalleria e il maggior numero di uomini per accerchiare senza scampo Cesare. Ma quest’ultimo, che aveva affidato il suo fianco destro a Publio Cornelio Silla con la X legione, le legioni VIII e VIIII (dagli effettivi dimezzati) a sinistra, protetto dal fiume Enipeo comandato da Marco Antonio, aveva fiutato qualcosa, e decise di staccare una coorte da ogni legione della terza linea, per formare una riserva di sei coorti dietro la sua cavalleria. Infine Gneo Domizio Calvino teneva il centro con la XI e XII legione, per un totale di circa 22.000 legionari e 1.000 cavalieri cesariani (molti reparti di Cesare erano anche sotto organico).

I legionari avrebbero dovuto usare i pila non per lanciarli, ma per mirare al volto dei cavalieri di Pompeo, perlopiù nobili, e che si sarebbero spaventati, temendo di restare deturpati. Il piano funzionò alla perfezione e la cavalleria di Pompeo andò subito in rotta, mentre i legionari che li avevano respinti accerchiavano Pompeo, il quale da accerchiatore si trovava accerchiato. Al contempo Marco Antonio, vedendo che il piano funzionava, premeva senza sosta dal lato opposto. A quel punto i pompeiani si diedero alla fuga; la battaglia era vinta e Pompeo decise di abbandonare il campo senza neanche rientrare nell’accampamento. Cesare riporta di oltre 15.000 morti tra i pompeiani più innumerevoli arresi e passati dalla sua parte, e solo duecento caduti tra le sue file, tra cui il centurione Gaio Crastino.

Vittoria

Dopo aver vinto a Farsalo, nel 48 a.C., i cesariani entrarono nell’accampamento di Pompeo, dove trovarono ogni genere di lusso; narra Cesare stesso che forse confidavano troppo nella vittoria:

“Nell’accampamento di Pompeo si poterono vedere pergole ben costruite, una gran profusione di argenteria, le tende pavimentate di zolle fresche, la tenda di Lucio Lentulo e molte altre coperte di edera e molti altri segni che denunciavano un eccesso di lusso e di fiducia nella vittoria, tanto che fu facile capire come non avessero alcun dubbio sull’esito di quella giornata, essi che ricercavano comodità non necessarie. Eppure questi rinfacciavano il lusso al poverissimo e pazientissimo esercito di Cesare, cui era sempre mancato il necessario. Pompeo, mentre i nostri già facevano irruzione al di là del vallo, trovato un cavallo, strappatesi le insegne di generale, si precipitò fuori dall’accampamento per la porta decumana e, a briglia sciolta, puntò direttamente su Larisa. Ma non vi si fermò e, con la stessa velocità, trovati alcuni dei suoi che fuggivano, senza fermarsi nemmeno di notte, accompagnato da trenta cavalieri raggiunse il mare e si imbarcò su una nave frumentaria, lamentandosi continuamente, a quanto si diceva, di essersi tanto ingannato nelle sue aspettative e che proprio quegli uomini, dai quali aveva sperato la vittoria, sembrava quasi lo avessero tradito dando inizio alla disfatta.”

Cesare, De Bello Civili, III, 96

Sconfitto, Pompeo trovò rifugio in Egitto, dove però Tolomeo XIII, contando sull’appoggio del vincitore, lo fece uccidere dietro consiglio del suo consigliere Potino, alla fine di settembre del 48 a.C. Racconta Cassio Dione che Cesare rimase disgustato:

«Cesare dunque, avendo visto la testa di Pompeo, si mise a piangere e si lamentò, chiamandolo cittadino e genero, ed enumerando tutto quanto un tempo si erano dati in cambio l’uno con l’altro. Disse che non c’era modo di esser debitore a quelli che lo avevano ucciso di una qualche gratitudine, anzi li accusava, e ordinò ad alcuni (del seguito) di adornarla, di disporla convenientemente e di seppellirla»

Plutarco aggiunge:

«… si girò via con ripugnanza, come da un assassino; e quando ricevette l’anello con il sigillo di Pompeo su cui era inciso un leone che tiene una spada nelle sue zampe, scoppiò in lacrime.»

In ogni caso la battaglia di Farsalo fu talmente fondamentale da diventare persino parte di un poema, i Pharsalia di Lucano, scritti al tempo di Nerone.

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La battaglia di Farsalo
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