In seguito alle grandi vittorie romane nel III e II secolo a.C. la repubblica si era espansa in Asia, Africa e Europa, rendendo sempre più difficile mantenere un esercito stabile e al contempo garantire la piccola proprietà terriera. Infatti il reclutamento era censitario: i più poveri non potevano essere reclutati e diventavano sempre di più. Molti contadini impoveriti poiché i loro appezzamenti erano caduti in rovina erano migrati nell’Urbe, rimpinguando il numero di nullatenenti che gravavano enormemente sul bilancio pubblico. Poiché la situazione stava sfuggendo di mano e molti senatori e cavalieri stavano cominciando a creare enormi latifondi (grazie ai terreni rimasti incolti o in rovina che venivano acquistati a prezzi bassi), che restringevano ulteriormente il bacino di reclutamento, il tribuno della plebe Tiberio Sempronio Gracco decise di riformare la distribuzione di terre.

Tiberio Gracco era nipote di Scipione (sua madre Cornelia ne era la figlia). Ricevette un’eccellente educazione, grazie a migliori insegnanti greci. Combatté in Spagna come questore di Ostilio Mancino, dove cominciò a rendersi conto della situazione di profondo disagio dei legionari. D’altra parte le enormi ricchezze che venivano raccolte dalle continue spedizioni militari non venivano neanche ridistribuite equamente, andando ad arricchire spesso i comandanti, già più ricchi, che ne traevano ulteriormente vantaggio a scapito dei poveri.

Il fallimento delle riforme sociali

Di fatto poi i nuovi terreni dell’ager publicus, sebbene di dominio pubblico, venivano nella realtà occupati abusivamente dai comandanti, che coincidevano spesso con la categoria dei latifondisti, rendendo vana ogni speranza di nuove terre per i più poveri. Inoltre l’enorme apporto di schiavi che seguiva queste conquiste permetteva ai latifondisti di appropriarsi di manodopera a bassissimo prezzo, rendendo vane anche le speranze di tornare a lavorare come affittuari per i contadini. Tiberio Gracco venne eletto tribuno della plebe nel 133 a.C. Subito cercò di promulgare una lex agraria da far votare ai comizi, con l’appoggio del pontefice Publio Licinio Crasso Dive Muciano e del console Publio Muzio Scevola. La legge stabiliva che nessuno potesse occupare più di 500 iugeri di ager publicus (circa 125 ettari), più 250 per ogni figlio, per un massimo totale di 1.000. I terreni confiscati sarebbero stati distribuiti in modo che ognuno avesse almeno 30 iugeri.

La legge, non rivoluzionaria, in quanto non poneva limiti all’accumulo e all’estensione della proprietà privata, preveniva più che altro l’occupazione indebita di suolo pubblico. Tuttavia le critiche furono durissime fin da subito: da un lato i grandi proprietari terrieri, dall’altro i coloni italici, che richiedevano di ottenere la cittadinanza romana per beneficiare delle distribuzioni. Gli oppositori cercarono sostegno nel tribuno della plebe Marco Ottavio, che pose il veto sulla questione, facendo revocare perfino Tiberio in quanto secondo lui non agiva nell’interesse della plebe. Tiberio per tutta risposta scrisse una legge ancora più restrittiva, lanciando una lotta dialettica tra i due; Tiberio riuscì a far passare una norma che prevedeva che il senato non avesse potuto discutere altro fino all’approvazione della lex agraria.

Nel clima torrido che si creò, il giorno della votazione si rischiò lo scontro armato; il giorno dopo l’approvazione della legge il concilio della plebe approvò la destituzione di Ottavio, che per poco non venne scannato. In quello stesso anno Attalo III morì e donò il regno di Pergamo a Roma; si ripropose il problema della distribuzione di terre, con Tiberio che chiese la distribuzione tra la plebe. Poiché il suo mandato come tribuno era quasi terminato, ma non il suo progetto politico, Tiberio pensò di ricandidarsi (andando contro la lex Villia del 180 a.C. che lo proibiva esplicitamente) e propose nuove leggi che andavano a minare il potere dei senatori come il diritto di appello contro tutti i magistrati e l’ingresso di cavalieri in senato.

Il giorno della votazione Tiberio fu informato che i suoi detrattori volevano uccidere il console Muzio Scevola a lui favorevole e cominciò a scoppiare il panico, con i partigiani del tribuno che cominciarono a impugnare le armi, atto eversivo in quanto totalmente vietato all’interno di Roma. I nemici di Gracco non persero l’occasione e si precipitarono in senato invocando il tumultus, ossia la resistenza armata contro gli eversori: il pontefice massimo Publio Cornelio Scipione Nasica Serapione, cugino di Tiberio, si fece portatore della tradizione e guidò la spedizione fino al Campidoglio, dove si trovava il tribuno, che venne ucciso a bastonate. Il suo cadavere fu poi gettato nel Tevere e i suoi sostenitori condannati a morte o esiliati senza processo, mentre la spartizione di terre avvenuta non venne ritirata.

Nel 123 a.C. il fratello di Tiberio, Gaio Sempronio Gracco, venne eletto tribuno della plebe; il suo obiettivo era quello di perseguire gli intenti del defunto fratello. Gaio fu più drastico: le ridistribuzioni dell’ager publicus, nel suo progetto, erano inalienabili. Propose inoltre una riforma giudiziaria, che toglieva ai senatori il controllo dei tribunali, in cui i giudici diventavano per metà cavalieri. Inoltre tramite una lex frumentaria si sarebbe approvvigionato il popolo romano a basso costo. L’opposizione fu però fortissima e Gaio non venne rieletto; anzi dovette difendersi dalle accuse di aver detto nuovamente una colonia a Cartagine, atto ritenuto infausto. Il giorno in cui si dovette presentarsi per difendersi scoppiò una rissa; il console Opimio represse la sedizione e Scipione Nasica si vantò pubblicamente di aver ucciso Tiberio, cosa che gli causò il malcontento del popolo, che lo costrinse a fuggire. Gaio si rifugiò sull’Aventino per una resistenza armata; Opimio allora promise l’immunità e Gaio, abbandonato da tutti, si fece uccidere dal suo schiavo Filocrate. Seguì una repressione che portò alla morte di molti partigiani graccani, la loro memoria fu maledetta e alla madre fu proibito di vestirsi a lutto.

Dalla guerra sociale a Silla

Durante il tribunato della plebe di Lucio Apuleio Saturnino (103-100 a.C.) avvenne un’estesa immissione di italici nel corpo della cittadinanza, facendo passare nelle liste dei cittadini molti italici (probabilmente anche sulla scia delle invasioni di cimbri e teutoni affrontate da Gaio Mario e la sua apertura all’esercito ai proletari); anche il censimento del 97 a.C. fece entrare molti che legalmente non avevano diritto, motivo per cui nel 95 a.C. con la lex Licinia Mucia venne votata l’espulsione di coloro che erano entrati illegalmente nel corpo civico. Nel 91 a.C. il tribuno della plebe Marco Livio Druso propose una serie di riforme: immettere nel senato 300 cavalieri per riequilibrare il conflitto tra gli ordini, ridistribuire alcune terre ai cittadini romani e di concedere la civitas romana alle popolazioni italiche. La proposta venne osteggiata tanto dal ceto senatorio quanto da quello equestre; anche parte degli italici si dichiararono contrari perché la legge avrebbe annullato le distanze sociali al loro interno.

Il successivo svolgimento militare può essere ricostruito con buona approssimazione grazie al racconto di Appiano (Bella civilia, 1.175-231). La strategia romana fu fin da subito quella di dividere gli alleati su due fronti, inviando in quello settentrionale – comandato da Poppaedius Silo (sul fronte marsico) – il console Publio Rutilio Lupo e in quello meridionale – comandato da Papius Mutilus (sul fronte sannitico) – il console Lucio Giulio Cesare, puntando verso la via Valeria contro marsi e peligni. Poppaedius Papius avevano la carica di console: l’ordinamento datosi dai ribelli ricalcava anche nella carica più elevata quello romano. Si combatté anche in Campania e nel Sannio, infine nell’89 a.C. venne presa Asculum: la vittoria romana era stata repentina; d’altronde Publio Rutilio Lupo e Lucio Giulio Cesare avevano avuto come aiutanti niente meno che, rispettivamente, Gaio Mario e Lucio Cornelio Silla.

Nell’ultimo secolo della repubblica il popolo romano si spaccò tra due fazioni: populares optimates. I primi parteggiavano per una visione più popolare e aperta alle novità e alla partecipazione del popolo romano, mentre i secondi cercavano di mantenere alto l’ordine senatorio e di ripristinare laddove possibili antichi privilegi dell’ordine, come voluto da Silla. Tuttavia la restaurazione durò ben poco, poiché con Catilina, poi Cesare Augusto vinse il partito popolare, mascherato dietro una facciata di antichi valori repubblicani. Gaio Mario era il principale esponente del partito filopopolare, Silla di quello filosenatorio. Mario era un homo novus che aveva portato a termine, dietro la protezione di Metello, grazie al quale era stato eletto console, la guerra giugurtina. Fu proprio grazie all’intervento di Silla, che convinse il re della Mauretania Bocco a passare dalla parte dei romani, Mario riuscì a portare a termine la guerra numidica. Bocco infatti riuscì a convincere ad un incontro Giugurta, dove venne catturato e consegnato a Mario. Negli anni seguenti Silla continuò ad essere uno degli ufficiali superiori di Mario durante le campagne contro cimbri e teutoni, specialmente nella battaglia dei Campi Raudii. Silla riuscì a farsi eleggere pretore urbano grazie ai suoi successi, nonostante venisse accusato di aver corrotto gli elettori. Al termine della pretura, nel 96 a.C., gli fu data la Cilicia:

«Dopo l’anno di pretura, [Silla] fu inviato in Cappadocia. Motivo ufficiale della sua missione era il porre di nuovo sul trono Ariobarzane I.In verità egli aveva il compito di contenere e controllare l’espansione di Mitridate, che stava acquisendo nuovi domini e potenza non inferiori a quanti ne aveva ereditati.»

PLUTARCO, VITA DI SILLA, 5

Silla approfittò della posizione di potere, essendo il più alto magistrato in zona, per trattare direttamente con i parti sui confini della regione. Ritornato a Roma, Silla comandò insieme a Mario alcuni degli eserciti impegnati nella guerra sociale; grazie anche alla cattura di Aeclanum, capitale degli irpini, Silla ottenne il consolato per l’88 a.C. Ottenuto poi il comando della guerra mitridatica, Silla dovette affrontare le resistenze di Mario, che con la forza si fece assegnare il comando della guerra grazie all’intervento del tribuno della plebe Publio Sulpicio Rufo. In quel momento Silla si trovava in Italia meridionale in attesa di imbarcarsi: decise di prendere le legioni più fedeli a lui e di marciare su Roma. Mario fu costretto a scappare; Silla fece eleggere come consoli Gneo Ottavio e Lucio Cornelio Cinna, per poi riprendere il comando dell’esercito e muovere guerra a Mitridate.

Nel frattempo a Roma si inaspriva la lotta tra Ottavio, che supportava gli optimates sillani e Cinna, che appoggiava i populares mariani, finendo in scontro aperto. Mario rientrò dall’Africa con un esercito e si oppose a Ottavio insieme a Cinna, entrando a Roma. Cinna venne eletto console per la seconda volta e Mario per la settima e ultima. Partì una feroce repressione e proscrizione verso i sillani, ma Mario morì dopo all’inizio del suo consolato, nell’86 a.C. Alla morte di Cinna, nell’84 a.C., Silla rientrò a Roma, ottenendo anche l’appoggio di Gneo Pompeo, figlio di Strabone, che aveva guidato gli eserciti romani durante la fase finale della guerra sociale.

La battaglia

Silla, di ritorno dalla guerra mitridatica, che aveva brillantemente vinto, sbarcò nella primavera dell’83 a.C. a Brindisi. Subito usò l’esercito per reprime la fazione popolare fedele a Mario, morto nell’86 a.C. Silla e i suoi comandanti, Quinto Cecilio Metello, Marco Licinio Crasso e Gneo Pompeo ottennero successi in Piceno, Apulia e Campania, ma i populares resistevano; nell’82 vennero eletti consoli il figlio omonimo di Gaio Mario e Gneo Papirio Carbone. Molti veterani di Mario si arruolarono e anche sanniti e lucani si unirono ai mariani. In particolare i sanniti odiavano Silla dopo la guerra sociale per la durezza delle sue campagne contro di loro.

Metello Pio e Pompeo attaccarono in Italia Settentrionale Gneo Papirio Carbone, mentre Silla marciava verso Roma. Il giovane Mario fu battuto e si rifugiò a Preneste, mentre la guerra a nord procedeva con alterne vicende. Nel frattempo giunsero da sud i rinforzi sanniti per Mario, comandati da Ponzio Telesino, mentre Marco Lamponio comandava i lucani. Anche Papirio Carbone inviò rinforzi ma vennero in parte annientati da Pompeo. Silla, venuto a conoscenza dei rinforzi in arrivo, decise di ritornare a sud per sbarrare la strada di Praeneste a Ponzio Telesino sulla via latina. Il romano riuscì a bloccare il nemico, mentre attendeva i rinforzi di Pompeo. Ponzio Telesino convinse allora gli alleati a rompere l’assedio di Praeneste e marciare direttamente contro Roma.

I sanniti partirono in piena notte, proseguendo sulla via latina e accampandosi a dieci stadi da Porta Collina. Roma era praticamente indifesa: alcuni cavalieri romani comandati da Appio Claudio uscirono dalle mura ma vennero sbaragliati. Fu allora che Silla, che si era accorto della manovra, prese a marciare a tappe forzate verso Roma. I primi ad arrivare furono settecento cavalieri al comando di Ottavio Balbo. A mezzogiorno giunse anche Silla. Alle calende di novembre dell’82 a.C., il primo novembre, Silla vinceva la sanguinosissima battaglia di Porta Collina contro Ponzio Telesino, capo dei sanniti, divenendo padrone di Roma e in seguito dittatore (senza fine di mandato, anche se poi rimise la carica nel 79 a.C.):

“Ponzio Telesino, capo dei Sanniti, uomo dal carattere deciso, valorosissimo in guerra e profondamente nemico del popolo romano, raccolti circa quarantamila giovani animosi e determinati ad impugnare le armi fino alla fine, si scontrò con Silla alla porta Collina alle calende di novembre di centoundici anni fa, quando erano consoli Carbone e Mario [82 a.C.], e ridusse lui e la repubblica all’estremo pericolo. Allorché vide il campo di Annibale a meno di tre miglia, Roma non corse rischio maggiore di quando Telesino, passando a volo d’uccello da un reparto all’altro del suo esercito e, ripetendo che era giunto per Roma l’ultimo giorno, gridava che quella città doveva essere abbattuta e distrutta, aggiungendo che non sarebbero mai mancati i lupi pronti a strappare la libertà all’Italia se non si tagliava la selva nella quale trovavano rifugio. Finalmente dopo le prime ore della notte, l’esercito romano poté tirare un respiro di sollievo e quello nemico cominciò a ritirarsi. Il giorno dopo Telesino fu trovato esanime: mostrava più il volto del vincitore che non quello di un moribondo. Silla ne fece tagliare la testa e ordinò che venisse portata tutto intorno alle mura di Preneste.”

Velleio Patercolo, Historiae romanae ad M. Vinicium libri duo 2, 27

“La lotta fu violenta come non mai: l’ala destra riportava una brillante vittoria, ma Silla fu costretto a correre in aiuto di quella sinistra, che penava e versava in grandi difficoltà […]. Alla fine l’ala sinistra fu travolta e Silla si unì a quelli che fuggivano, riuscendo a ritirarsi nell’accampamento dopo aver perso molti amici e conoscenti. Non pochi anche di quelli che erano usciti dalla città per assistere ai combattimenti morirono calpestati, sicché si pensava che per la città fosse giunta la fine […] e si vociferava che lo stesso Silla fosse morto per mano dei nemici. […] Silla comandò che i superstiti, seimila uomini in tutto, fossero concentrati nel circo [Flaminio] e subito dopo convocò il senato nel tempio di Bellona. Nel momento stesso in cui prendeva la parola, quelli che ne avevano ricevuto l’incarico iniziarono a massacrare i seimila prigionieri. Le grida di tanti uomini, che venivano scannati in uno spazio limitato, arrivavano naturalmente alle orecchie dei senatori, che rimasero sgomenti, ma lui, con volto impassibile e calmo, proseguiva il suo discorso invitandoli a prestare attenzione e a disinteressarsi di quanto succedeva all’esterno: si trattava solo di alcuni criminali che venivano puniti su suo ordine. Anche il più sprovveduto dei Romani pensò che in quel momento la tirannide non era finita, ma aveva solo mutato volto.”

Plutarco, Vita di Silla, 29-30

Morti entrambi i consoli, Silla venne eletto dittatore a tempo indeterminato dai comizi centuriati grazie alla lex Valeria de Sulla dictatore. Silla possedeva poteri straordinari, compreso il diritto di condannare a morte, presentare leggi, scegliere i magistrati, effettuare confische, fondare città e colonie. Forte della sua posizione Silla decise di riformare la repubblica. Prima di tutto emanò delle liste di proscrizione, mettendo a morte gli oppositori politici; tra loro rischiò anche di finire Cesare (sua zia era moglie di Mario), che riuscì a fuggire in oriente. In sostanza Silla decise di intraprendere una politica di restaurazione del senato a scapito dei cavalieri e dei populares.

Il senato venne portato a 600 membri, mentre veniva fissato il cursus honorum: la questura portava automaticamente alla cooptazione nell’assemblea. Seguiva l’edilità o il tribunato della plebe, la pretura e il consolato. Al senato venne anche restituito il controllo dei processi (quindi nel caso di malversazioni i senatori si giudicavano tra di loro), dato dai Gracchi ai cavalieri. Silla venne rieletto console nell’80 a.C., ma proprio quando era all’apice della carriera politica, nel 79 a.C., decise di abbandonare il potere e ritirarsi a vita privata, morendo nel 78 a.C. L’opera politica di Silla sarebbe stata in parte continuata da Pompeo, ma sarebbe stato uno degli esponenti della fazione opposta, Giulio Cesare, nipote di Gaio Mario, a stravolgere gli equilibri della res publica.

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La battaglia di Porta Collina
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