Dopo la vittoria nella prima guerra punica (264-241) Roma aveva assunto un ruolo predominante nel Mediterraneo Centrale; la Sicilia divenne la prima provincia e approfittando della debolezza di Cartagine e delle rivolte di mercenari, nel 238 a.C. furono occupate Sardegna e Corsica e trasformate in province nel 231 a.C. Nel 233 a.C. il console Quinto Fabio Massimo (che sarebbe divenuto poi il Temporeggiatore) attaccò i liguri, i quali dietro pressioni dei galli si erano spinti a sud, fino in Toscana. I romani occuparono Lucca e continuarono ad avanzare fino a Genua, l’antica Genova, che stabilì un trattato di amicizia con Roma. Nel 232 a.C. Gaio Flaminio Nepote decise di distribuire molti cittadini romani in nuove colonie lungo l’Adriatico, dopo l’approvazione dei comizi tributi. Venne fondata la colonia di Sena Gallica, dove una volta risiedevano i senoni di Brenno. Nel 229 a.C. i romani avanzarono lungo la costa Adriatica e si scontrarono con gli illiri e la loro regina Teuta, a loro volta spintisi a sud a causa della pressione gallica. La flotta romana costrinse Teuta ad accettare il dominio romano, mentre il console Lucio Postumio Albino strinse rapporti di alleanza nell’Epiro e nei Balcani, con le città di Apollonia, Corcira ed Epidamno che si allearono con Roma. Ci furono i primi contatti con Atene, gli Etoli e gli Achei.

L’ultima spolia opimia

Nel nord Italia c’erano ancora molte tribù galliche, come i boi, gli anari, i longoni, i veneti, i cenomani e gli insubri. Pressati ormai dai romani e dietro sollecitazione dei cartaginesi i galli decisero di passare all’attacco. Nel frattempo Asdrubale il vecchio espandeva i territori cartaginesi in Iberia, con grande disappunto dei romani che nel 226 a.C. cercarono di fermarlo senza successo inviando un’ambasciata. Venne firmato il trattato dell’Ebro, che permetteva ai cartaginesi il dominio al sud di quel fiume. La difesa di Sagunto, città alleata di Roma, ma a sud dell’Ebro, sarà una delle cause delle seconda guerra punica.

L’alleanza gallica che attaccò Roma da nord era formata da gesati, che provenivano da oltre le Alpi, liguri e tribù cisalpine. I romani intercettarono i barbari presso Talamone, nel 225 a.C. Stavolta però i romani erano pronti e non si sarebbe ripetuta la disfatta dell’Allia, anzi i romani accerchiarono il nemico attaccando con due eserciti consolari su due fronti diversi. Il console Gaio Attilio Regolo morì in battaglia, ma il console Lucio Emilio Papo condusse i romani alla vittoria:

«I Celti si erano preparati proteggendo le loro retroguardie, da cui si aspettavano un attacco di Emilio, provenendo i Gesati dalle Alpi e dietro di loro gli Insubri; di fronte a loro in direzione opposta, pronti a respingere l’attacco delle legioni di Gaio, misero i Taurisci ed i Boi sulla riva destra del Po. I loro carri stazionavano all’estremità di una delle ali, mentre raccolsero il bottino su una delle colline circostanti con una forza tutta intorno a protezione. Questo ordine delle forze dei Celti, poste su due fronti, non solo si presentava con un aspetto formidabile, ma si adeguava alle esigenze della situazione. Gli Insubri ed i Boi indossavano dei pantaloni e dei lucenti mantelli, mentre i Gesati avevano evitato di indossare questi indumenti per orgoglio e fiducia in se stessi, tanto da rimanere nudi di fronte all’esercito [romano], con indosso nient’altro che le armi, pensando che così sarebbero risultati più efficienti, visto che il terreno era coperto di rovi che potevano impigliarsi nei loro vestiti e impedire l’uso delle loro armi. In un primo momento la battaglia fu limitata alla sola zona collinare, dove tutti gli eserciti si erano rivolti. Tanto grande era il numero di cavalieri da ogni parte che la lotta risultò confusa. In questa azione il console Caio cadde, combattendo con estremo coraggio, e la sua testa fu portata al capo dei Celti, ma la cavalleria romana, dopo una lotta senza sosta, alla fine prevalse sul nemico e riuscì a occupare la collina. Le fanterie [dei due schieramenti] erano ormai vicine, le une alle altre, e lo spettacolo appariva strano e meraviglioso, non solo a quelli effettivamente presenti alla battaglia, ma a tutti coloro che in seguito ebbero la rappresentazione dei fatti raccontati. In primo luogo, la battaglia si sviluppò tra tre eserciti. È evidente che l’aspetto dei movimenti delle forze schierate una contro l’altra, doveva apparire soprattutto strano e insolito. […] i Celti, con il nemico che avanzava su di loro da entrambi i lati, erano in posizione assai pericolosa ma anche, al contrario, avevano uno schieramento più efficace, dal momento che nello stesso tempo essi combattevano sia contro i loro nemici, sia proteggevano entrambi nelle loro retrovie; vero anche che non avevano alcuna possibilità per una ritirata o qualsiasi altre prospettiva di fuga in caso di sconfitta, a causa della formazione su due fronti adottata. I Romani, tuttavia, erano stati da un lato incoraggiati, avendo stretto il nemico tra i due eserciti [consolari], ma dall’altra erano terrorizzati per la fine del loro comandante, oltreché dal terribile frastuono dei Celti, che avevano numerosi suonatori di corno e trombettieri, e contemporaneamente tutto l’esercito alzava alto il grido di guerra (barritus). C’era un tale rimbombo di suoni che sembrava che non solo le trombe ed i soldati, ma tutto il paese intorno alzasse le proprie grida. Molto terrificanti erano anche l’aspetto e i gesti dei guerrieri celti, nudi davanti ai Romani, tutti nel vigore fisico della vita, dove i loro capi apparivano riccamente ornati con torques e bracciali d’oro. La loro vista lasciò davvero sgomenti i Romani, ma al tempo stesso la prospettiva di ottenere questi oggetti come bottino, li rese due volte più forti nella lotta. E quando gli hastati avanzarono, come è consuetudine, e dai ranghi delle legioni romane cominciarono a lanciare i loro giavellotti in modo adeguato, i Celti delle retroguardie risultavano ben protetti dai loro pantaloni e mantelli, ma il fatto che cadessero lontano non era stato previsto dalle loro prime file, dove erano presenti i guerrieri nudi, i quali si trovavano così in una situazione molto difficile e indifesa. E poiché gli scudi dei Galli non proteggevano l’intero corpo, ciò si trasformò in uno svantaggio, e più erano grossi e più rischiavano di essere colpiti. Alla fine, incapaci di evitare la pioggia di giavellotti a causa della distanza ravvicinata, ridotto al massimo il disagio con grande perplessità, alcuni di loro, nella loro rabbia impotente, si lanciarono selvaggiamente sul nemico [romano], sacrificando le loro vite, mentre altri, ritirandosi passo dopo passo verso le file dei loro compagni, provocarono un grande disordine per la loro codardia. Allora fu lo spirito combattivo dei Gesati ad avanzare verso gli hastati romani, ma il corpo principale degli Insubri, Boi e Taurisci, una volta che gli hastati si erano ritirati nei ranghi (dietro i principes), furono attaccati dai manipoli romani, in un terribile combattimento “corpo a corpo”. Infatti, pur essendo stati fatti quasi a pezzi, riuscivano a mantenere la posizione contro il nemico, grazie ad una forza pari al loro coraggio, inferiore solo nel combattimento individuale per le loro armi. Gli scudi romani, va aggiunto, erano molto più utili per la difesa e le loro spade per l’attacco, mentre la spada gallica va bene solo di taglio, non invece [nel colpire] di punta. Alla fine, attaccati da una vicina collina sul loro fianco dalla cavalleria romana, guidata alla carica in modo assai vigoroso, la fanteria celtica fu fatta a pezzi dove si trovava, mentre la cavalleria fu messa in fuga.»

Polibio, Storie, II, 28-30

La battaglia fu un massacro per i galli, di cui ne morirono forse 40.000 e 10.000 fatti prigionieri, tra cui il re Concolitano, mentre il re Aneroesto, riuscito a fuggire, si suicidò poco dopo. Emilio, inviato il bottino a Roma, continuò ad avanzare contro i boi, di cui saccheggiò i territori e poi fece ritorno a Roma, mostrando come trofeo le collane dei galli e marciando in trionfo. L’anno seguente i consoli Quinto Fulvio e Tito Manlio attaccarono di nuovo i boi, costringendoli alla resa e a chiedere la pace con Roma.

Eletto console per l’anno 222 a.C., il 1 marzo Marcello sconfiggeva gli insubri a Clastidium (Casteggio), in Gallia Cisalpina, unificando per la prima volta la penisola. A tre anni dalla battaglia di Talamone i romani decisero di spingersi a nord per fermare i galli in Italia Settentrionale. Mentre i romani assediavano Acerrae, tra Lodi e Cremona, gli insubri attaccarono gli anamari, alleati dei romani, a Clastidium. I romani però non interruppero l’assedio e inviarono la cavalleria in soccorso, che sbaragliò i galli. Marcello stesso, riconosciutolo sul campo, affrontò e uccise il re nemico Virdomaro, guadagnandosi quindi la spolia opima. I romani, non incontrando più alcuna resistenza, occuparono tutta la Cisalpina e la città di Medhelan, ribattezzata Mediolanum, ovvero Milano. Il console ottenne anche l’onore del trionfo, motivo per cui è infatti citato nei Fasti Trionfali.

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La battaglia di Talamone e Clastidium
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