Il 6 aprile del 46 a.C. si svolse la battaglia di Tapso, tra le legioni di Giulio Cesare e Metello Scipione, al comando delle forze repubblicane:

«Catone e Scipione dopo la battaglia di Farsalo fuggirono in Africa e con l’appoggio di re Giuba raccolsero un cospicuo numero di uomini. (…) Scarseggiavano i viveri per gli uomini e il foraggio per gli animali, costretti a nutrirli con alghe dopo aver deterso dalla salsedine e mescolato all’erba»

Plutarco, Vite parallele, Cesare, 52

Elefanti contro legionari

La guerra in Africa fu particolarmente ardua per Cesare, che doveva affrontare Metello Scipione e il suo ex luogotenente Tito Labieno. Essi possedevano numerose legioni e diversi elefanti, motivo per cui il futuro dittatore tergiversava. In un’occasione Labieno cercò di far valere la sua cavalleria contro i cesariani accerchiandoli; fu solo grazie al sangue freddo di Cesare che quest’ultimo riuscì a spezzare l’assedio e ritirarsi:

La battaglia di Tapso secondo Palladio

«Da una parte e dall’altra si era in attesa. Mentre Cesare non si muoveva, comprendendo che data la scarsezza dei suoi uomini doveva far fronte alle grandi schiere dei nemici più con l’astuzia che con le sue forze, a un tratto la cavalleria dei nemici cominciò ad allargarsi e a distendersi ai fianchi, cingendo tutt’intorno la linea dei colli, ed essendo sempre più evidente l’insufficienza della cavalleria di Cesare, si preparava all’accerchiamento. I cavalieri di Cesare a malapena potevano tener testa alla moltitudine dei nemici. Intanto mentre le schiere del centro tentavano di venire allo scontro, dalle dense torme nemiche si staccarono i Numidi armati alla leggera insieme ai cavalieri e scagliarono dardi in mezzo alle file dei legionari. Ma dopo avvenne che quando i Cesariani si lanciavano all’assalto contro di quelli, i cavalieri si ritiravano, i fanti invece rimanevano a pié fermo, finché non tornavano di nuovo a gran corsa i cavalieri a dar loro man forte. Cesare, vedendo questo loro nuovo modo di combattere e che per esso le sue schiere nell’avanzare si sbandavano (infatti se nell’inseguimento i nostri cavalieri si allontanavano alquanto dalle insegne, i fanti rimasti col fianco scoperto erano feriti dai Numidi vicini, mentre i cavalieri nemici correndo potevano facilmente evitare i proiettili dei nostri soldati), fece passare tra le schiere l’ordine che nessun soldato si allontanasse dalle file più di quattro piedi. Intanto la cavalleria di Labieno, fidando sulla forza del numero, tentò di accerchiare i nostri ch’erano così pochi in confronto a loro; i pochi cavalieri di Cesare, sopraffatti dalla moltitudine dei nemici e avendo in più i cavalli feriti, a poco a poco cedevano, mentre i nemici incalzavano sempre più. Ad un certo momento tutti i legionari si trovarono circondati dalla cavalleria nemica e le truppe di Cesare erano costrette a combattere tutte come entro un recinto sbarrato. Labieno stava a cavallo in prima fila a capo scoperto; ora esortava i suoi, ora parlava così ai legionari di Cesare: «Perché, o cappellone, sei tanto furiosetto? Anche a voi questo Cesare ha infarcito la testa di ciance? Vi ha spinto, per Bacco, in un bel rischio. Ho proprio pietà di voi». Allora un soldato lo rimbecca: «Non sono un cappellone, o Labieno, ma un veterano della decima legione». Dice Labieno: «Non vedo la divisa dei legionari della decima». Ma il soldato rintuzza: «Or ora conoscerai chi sono»; e subito si toglie l’elmo dal capo perché possa essere riconosciuto da lui, scaglia con tutte le sue forze un giavellotto cercando di colpire Labieno e colpisce gravemente in mezzo al petto il cavallo e dice: «Labieno, sappi che questo colpo è di un legionario della decima». Cionondimeno gli animi di tutti e specialmente dei coscritti erano volti al terrore: guardavano quel che faceva Cesare e si curavano solo di evitare i dardi dei nemici. Ma Cesare, resosi conto del disegno dei nemici, fece distendere più che potè in lunghezza il suo esercito e fece fare successivamente a ciascuna coorte una conversione in modo che una venisse a trovarsi davanti e un’altra dietro le insegne. Assalendo con l’ala destra e con l’ala sinistra, così spezzò nel mezzo il cerchio dei nemici; muovendo dall’interno con la cavalleria separò i nemici in quel punto in due parti, ne assalì una divisa dall’altra con la fanteria dell’ala destra e scagliando dardi la volse in fuga, ma non andò molto lontano nell’inseguimento temendo qualche insidia e si ritirò tra i suoi; l’altra parte della cavalleria e della fanteria di Cesare all’ala sinistra fece lo stesso attacco contro la parte nemica che aveva di fronte. Dopo aver respinto lontano con questi attacchi i nemici e aver loro inflitto perdite, cominciò a ritirarsi nello stesso ordine nei suoi presidi.»

Cesare, guerra africana, 16,1 -17-2

Proseguiva una guerra di logoramento nella primavera del 46 a.C. tra i cesariani e Metello Scipione, attorno Tapso. Scipione aveva fatto costruire numerose trincee e Cesare stesso tergiversava sul da farsi. La situazione era di stallo, quando Cesare spinse le sue forze a ridosso di un campo di saline vicino l’accampamento nemico, provocandone la reazione e la preparazione allo scontro.

Prima di Tapso Cesare aveva addestrato la legio V Alaudae ad affrontare gli elefanti. Quando, durante la battaglia Metello Scipione glieli lanciò contro, la legione gallica, che era stata posizionata al centro, era pronta. La V Alaudae, supportata dagli arcieri, resistette strenuamente e mandò in rotta gli elefanti, tanto da applicare poi il simbolo del pachiderma sugli scudi e le insegne della legione. La cavalleria di Cesare poi, supportata da 5 coorti, avrebbe travolto il campo avversario, vincendo la battaglia. Contrariamente al solito Cesare fece uccidere i 10.000 che si erano arresi; Plutarco giustifica il gesto adducendo un attacco epilettico del conquistatore della Gallia.

«Quando Cesare giunse colà e vide lo schieramento di Scipione dinanzi alle trincee, con gli elefanti posti nell’ala destra e nell’ala sinistra e che nondimeno una parte dei suoi soldati era alacremente intesa ai lavori di difesa, fece un triplice schieramento ponendo all’ala destra la decima e la nona legione e alla sinistra la quattordicesima e la tredicesima. Formò poi una quarta linea ponendo di fronte agli elefanti cinque coorti della quinta legione in ciascuna delle due ali, in queste distribuì arcieri e frombolieri, e immise in mezzo ai cavalieri degli armati alla leggera. Indi passando a piedi tutt’intorno tra i soldati ne eccitava gli animi ricordando il valore dei veterani nelle passate battaglie e chiamandoli affettuosamente per nome. Esortava anche i nuovi soldati che non avevano ancora mai combattuto in campo aperto ad emulare il valore dei veterani e a desiderare di procurarsi con la vittoria il nome glorioso e la posizione di cui quelli godevano nell’esercito. Mentre andava tra i reparti vide che i nemici intorno alle trincee erano trepidanti e correvano pavidamente qua e là e ora si riparavano dentro le porte, ora ne uscivano senza fermezza e senz’ordine. Ciò fu avvertito anche da moltissimi altri e subito andarono da Cesare alcuni luogotenenti e veterani richiamati, scongiurandolo di non esitare a dare il segnale di battaglia: dagli dèi immortali era offerta loro una sicura vittoria. Cesare titubava e si opponeva a quel loro ardente impulso, gridando che non gli piaceva che si combattesse con irruenza scomposta e cercava in tutti i modi di trattenerli, quando ad un tratto all’ala destra un trombettiere, senza ordine di Cesare, obbligato dai soldati, diede il segnale della battaglia. Allora tutte le coorti cominciarono ad avanzare contro i nemici, mentre i centurioni si opponevano con i loro petti ai soldati e a forza cercavano di fermarli, perché non corressero all’attacco senza l’ordine di Cesare; ma l’opera loro fu vana. Quando Cesare comprese che non si poteva un nessun modo resistere all’impetuoso ardore dei soldati, fece dare il segnale di buon augurio e spronato il cavallo si spinse contro le prime file nemiche. [Intanto dall’ala destra gli arcieri e i frombolieri scagliavano tutti insieme e impetuosamente dardi e sassi contro gli elefanti. Perciò queste bestie atterrite dal sibilare delle fionde, dal lancio delle pietre e delle pallottole di piombo, si voltavano e calpestavano i soldati ammassati dietro di loro e si precipitavano verso le porte del bastione ancora imperfette. [Allora anche i cavalieri mauri, che nella stessa ala erano a sostegno degli elefanti, vedendosi abbandonati, si diedero per primi a fuggire. Così le legioni, circondati in un attimo gli elefanti, s’impadronirono del bastione nemico; mentre pochi avversari che resistettero con valore furono uccisi, tutti gli altri ripararono in fretta e furia nell’accampamento, donde erano usciti il giorno prima. Mi pare doveroso citare qui l’atto di valore di un soldato veterano della quinta legione. Poiché nell’ala sinistra un elefante ferito, reso furioso dal dolore, si era scagliato contro un vivandiere inerme e dopo averlo schiacciato con la zampa lo premeva con il ginocchio e con tutto il suo peso tenendo alta la proboscide e mandando terribili barriti, sino a che l’uccise, questo soldato non poté tenersi di affrontare con l’arma in pugno la bestia. Quando l’elefante lo vide venire incontro per ferirlo, abbandonato il morto cinse alla vita il soldato con la proboscide e lo levò in alto. Il soldato, che vedeva di dover mostrare fermezza in un pericolo di tal genere, si diede a tagliare con la sua spada la proboscide da cui era avvinghiato, con tutte le sue forze. L’elefante costretto dal dolore lasciò andare il soldato emettendo furiosi barriti, poi di corsa scappò via verso le altre bestie. Intanto quelli che eran di presidio a Tapso fecero una sortita dalla città attraverso la porta che dava sul mare, o per accorrere in aiuto dei loro compagni, o per salvarsi con la fuga abbandonando la città e così gettatisi in mare con l’acqua fino all’ombelico cercarono di prender terra. Ma furono impediti di toccar terra dai servi e dagli schiavi che erano nell’accampamento, con lancio di pietre e di giavellotti e allora si ritirarono di nuovo nella città. Mentre le schiere di Scipione erano sopraffatte e fuggivano disordinatamente per tutto il campo, le legioni di Cesare le inseguivano senza dar loro il tempo di ricongiungersi. Quelli che riuscirono a rifugiarsi nell’accampamento a cui tendevano, affinché riprendendo coraggio ivi si potessero nuovamente difendere e ricercare un qualche comandante da seguire e sotto il cui autorevole comando potessero rinnovare il combattimento, quando videro che non v’era più nessuno di presidio, gettarono subito le armi e si diedero a fuggire verso l’accampamento del re. Ma quando vi giunsero videro che anche questo era occupato dai soldati giuliani: allora, senza più speranza di salvezza, si fermarono su di un colle e abbassando le armi fecero il saluto militare in segno di resa. Ma anche questo gesto non servì molto a proteggere quei miseri. Infatti i veterani al colmo dell’ira e dello sdegno non solo non potevano essere indotti a perdonare ai nemici, ma anche ferirono o uccisero parecchi illustri cittadini del loro stesso esercito, chiamandoli favoreggiatori . Tra questi vi fu l’ex questore Tullio Rufo, che morì trafitto da un giavellotto lanciato da un soldato che agì di proposito; e così anche Pompeo Rufo, che era stato percosso ad un braccio da un colpo di spada, sarebbe stato ucciso, se non fosse corso precipitosamente presso Cesare. Per questo parecchi cavalieri e senatori romani atterriti si ritirarono dal combattimento, per non essere anch’essi uccisi 〈dai〉 soldati, i quali imbaldanziti da una così grande vittoria s’erano arrogati il diritto di far quel che volevano senza alcun freno, 〈sperando〉 nell’impunità per la straordinaria impresa compiuta. E così anche tutti i soldati di Scipione mentre imploravano la protezione di Cesare, alla presenza dello stesso Cesare che pregava i suoi soldati di risparmiarli, furono uccisi dal primo all’ultimo. Cesare, impadronitosi dei tre accampamenti, dopo che erano stati uccisi diecimila nemici e moltissimi messi in fuga, si ritirò nell’accampamento, avendo subito la perdita di cinquanta uomini e di pochi feriti. Lungo il cammino, senza darsi posa, si fermò dinanzi alla città di Tapso e prese sessantaquattro elefanti nel loro pieno assetto, con le torri e le forniture e così armati li schierò dinanzi alla città, con lo scopo, se poteva, di distogliere Vergilio dalla sua ostinazione, facendogli conoscere la grave sconfitta dei suoi. Egli stesso poi chiamò a nome Vergilio e lo invitò ad arrendersi, ricordandogli la sua generosità e clemenza. Quando vide che non gli dava risposta, s’allontanò dalla città. Il giorno dopo, fatti sacrifici agli dèi, convocata un’assemblea, alla presenza dei cittadini, dalla tribuna lodò i soldati, diede doni a tutto l’esercito dei veterani, ai più valorosi e meritevoli assegnò dei premi; indi ritiratosi immediatamente lasciò il proconsole Rebilo con tre legioni a Tapso e Cn. Domizio con due a Thisdra, che era sotto il comando di Considio, perché vi continuasse l’assedio e, mandato innanzi M. Messala con la cavalleria ad Utica, si affrettò a seguirlo.»

CESARE, GUERRA AFRICANA, 81,1 – 86, 3

Poco dopo, il 12 aprile del 46 a.C., a Utica, moriva Catone l’Uticense. Racconta Plutarco che dopo aver capito che in città molti pensavano di passare dalla parte di Cesare, appena trionfante a Tapso, passò un’intera nottata a leggere il Fedone di Platone, esclamando infine che “la virtù non era altro che una parola” e trafiggendosi con la spada. Ritrovato ancor ancora vivo, venne salvato, ma si riaprì le ferite decidendo di morire.

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La battaglia di Tapso
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