Nel 74 a.C. Cesare decise di intraprendere un viaggio di istruzione (che facevano molti romani) a Rodi, ma vennecatturato dai pirati. Mandò i suoi compagni e servi a Mileto e nei dintorni a raccogliere la somma del riscatto (offrì ai suoi rapitori 50 talenti contro i 20 richiesti); la situazione era diventata irreale: Cesare si comportava in tutto e per tutto come il capo dei pirati, che erano in parte irretiti dalla figura del romano, che prometteva loro scherzosamente che li avrebbe fatti impiccare. Ottenuto il riscatto, venne liberato e raccolse delle forze con cui catturò i suoi rapitori. Il proconsole Marco Iunco tergiversò, sperando forse di intascare il bottino dei pirati, allora Cesare decise di prendere l’iniziativa, recandosi alla prigione di Pergamo e crocifiggendoli, forse dopo averli prima strangolati, come aveva promesso loro.

«Non passò però molto tempo che s’imbarcò di nuovo, ma giunto al largo dell’isola di Farmacussa fu catturato dai pirati, che già allora dominavano il mare con vaste scorrerie e un numero sterminato di imbarcazioni. I pirati gli chiesero venti talenti per il riscatto, e lui, ridendo, esclamò: «Voi non sapete chi avete catturato! Ve ne darò cinquanta!». Dopodiché spedì alcuni del suo seguito in varie città a procurarsi il denaro e rimasto lì con un amico e due servi in mezzo a quei Cilici, ch’erano gli uomini più sanguinari del mondo, li trattò con tale disprezzo che quando voleva riposare gli ordinava di fare silenzio. Passò così trentotto giorni come se fosse circondato non da carcerieri ma da guardie del corpo, giocando e facendo ginnastica insieme con loro, scrivendo versi e discorsi che poi gli faceva ascoltare, e se non lo applaudivano li redarguiva aspramente chiamandoli barbari e ignoranti. Spesso, scherzando e ridendo, minacciava d’impiccarli, e quelli, attribuendo la sua sfrontatezza all’incoscienza tipica dell’età giovanile, a loro volta gli ridevano dietro. Ma appena giunse da Mileto il denaro del riscatto e pagata la somma fu rilasciato, allestì subito delle navi e dal porto di quella stessa città salpò alla caccia dei pirati. Li sorprese che stavano alla fonda nelle vicinanze dell’isola, li catturò quasi tutti, saccheggiò i frutti delle loro razzie, fece rinchiudere gli uomini nella prigione di Pergamo e si recò difilato dal governatore d’Asia, Marco Iunco, che in qualità di propretore [con imperium proconsulare, ndr.] aveva il compito di punire i prigionieri. Ma quello, messi gli occhi sul bottino (piuttosto cospicuo, in verità), disse che si sarebbe occupato a suo tempo dei prigionieri. Allora Cesare, mandatolo alla malora, tornò di corsa a Pergamo e tratti fuori dal carcere i pirati li fece crocifiggere tutti quanti, così come […], con l’aria di scherzare, gli aveva spesso pronosticato.»

Plutarco, vita di Cesare, 1-2

Severo, ma giusto

L’episodio di Mileto fu forse il primo che mostrò a tutti il carattere fermo e deciso, ma giusto di Giulio Cesare. Tornato a Roma, ricoprì tutte le cariche politiche: tribuno militarequestore nel 69 aC.,  edile nel 65 a.C., pretore. Fu coinvolto probabilmente nella congiura di Catilina del 63 a.C.: sebbene forse simpatizzasse per Catilina, tanto da proporre ai ribelli la prigione a vita piuttosto della morte (Cicerone, console in carica, opterà invece per uccidere i congiurati), si mantenne comunque al di fuori della congiura. Il discorso appassionato, in senato, per salvare la vita ai ribelli fu stroncato da quello molto più duro di Marco Porcio Catone Uticense. C’è un particolare aneddoto riguardo la questura in Spagna nel 69 a.C.: pare che Cesare, a Gades, scoppiò in lacrime davanti la statua di Alessandro Magno; il macedone infatti alla sua età aveva già conquistato il suo impero, mentre Cesare non aveva fatto ancora nulla. Ma Cesare era anche un uomo giusto:

«Quanto alla temperanza di Cesare in fatto di cibo, si suole citare questo episodio: un giorno, a Milano, Valerio Leone, ch’era suo ospite, invitatolo a pranzo, gli servì degli asparagi conditi con burro invece che con olio. Cesare li mangiò senza esitare, criticando gli amici che storcevano la bocca disgustati. «Se non vi piacciono, perché li mangiate?», esclamò. «È da gente rozza disprezzare questo cibo solo perché è rustico». Una volta, mentre si trovava in viaggio, sorpreso da una tempesta, riparò nella casupola di un poveraccio e poiché c’era solo una stanzetta che a malapena poteva ospitare una persona ordinò che la occupasse Oppio. «Fra i potenti», disse, «bisogna cedere il posto a chi sta più in alto, ma fra gli amici ai più deboli». E passò la notte con gli altri sotto la gronda della porta.»

Plutarco, Cesare, 17

Emblematica era inoltre la vicinanza con i soldati che chiamava commilitoni. Con loro divideva tutto:

«Cesare non giudicava i soldati dai costumi o dall’aspetto, ma solo dalle loro forze, e li trattava con pari severità e indulgenza. Non li costringeva, infatti, all’ordine sempre e ovunque, ma solo di fronte al nemico: soprattutto allora esigeva una disciplina inflessibile, non preannunciando mai il momento di mettersi in marcia né quello di combattere, ma voleva che i suoi uomini fossero sempre vigili e pronti a seguirlo in qualsiasi momento ovunque li avesse condotti. Si comportava così anche senza un motivo, e specialmente nei giorni piovosi o festivi. Talvolta, dopo aver ordinato ai soldati che non lo perdessero di vista, si metteva in marcia all’improvviso, di giorno come di notte, e forzava il passo per stancare chi avesse tardato a seguirlo.
Quando i suoi erano atterriti dalle voci sulle forze dei nemici, non li incoraggiava negandole o sminuendole, ma anzi le esagerava e raccontava anche frottole. […]
Non teneva conto di tutte le mancanze, e non le puniva tutte con la stessa severità. Mentre si accaniva, infatti, nel perseguitare disertori e sediziosi, era molto indulgente con gli altri. Dopo grandi vittorie, a volte dispensava le truppe da tutti i loro doveri, e permetteva che si abbandonassero a una sfrenata licenza. Era solito, infatti, vantarsi dicendo: “I miei soldati sanno combattere bene anche se si profumano”. Nei suoi discorsi, inoltre, non li chiamava soldati ma commilitoni, termine ben più lusinghiero. Voleva anche che fossero ben equipaggiati, e dava loro delle armi decorate con oro e argento tanto per aumentare il loro prestigio quanto perché in combattimento fossero ancora più tenaci, spinti dal timore di perdere armi tanto preziose. Era tanto affezionato ai suoi soldati che, venuto a sapere della disfatta di Titurio, si lasciò crescere la barba e i capelli senza tagliarli se non dopo aver compiuto la sua vendetta.»

Svetonio, Cesare, 65-67

Infine Cesare era noto per graziare i nemici sconfitti, almeno la prima volta. Cosa che fece anche con molti a Farsalo, tra cui Bruto, che si rivelò essere poi uno dei principali cesaricidi:

«Mentre prendeva posto a sedere, i congiurati lo circondarono con il pretesto di rendergli onore e subito Cimbro Tillio, che si era assunto l’incarico di dare il segnale, gli si fece più vicino, come per chiedergli un favore. Cesare però si rifiutò di ascoltarlo e con un gesto gli fece capire di rimandare la cosa a un altro momento; allora Tillio gli afferrò la toga alle spalle e mentre Cesare gridava: “Ma questa è violenza bell’e buona!” uno dei due Casca lo ferì, colpendolo poco sotto la gola. Cesare, afferrato il braccio di Casca, lo colpì con lo stilo, poi tentò di buttarsi in avanti, ma fu fermato da un’altra ferita. Quando si accorse che lo aggredivano da tutte le parti con i pugnali nelle mani, si avvolse la toga attorno al capo e con la sinistra ne fece scivolare l’orlo fino alle ginocchia, per morire più decorosamente, con anche la parte inferiore del corpo coperta. Così fu trafitto da ventitré pugnalate, con un solo gemito, emesso sussurrando dopo il primo colpo; secondo alcuni avrebbe gridato a Marco Bruto, che si precipitava contro di lui: “Anche tu, figlio?”. Rimase lì per un po’ di tempo, privo di vita, mentre tutti fuggivano, finché, caricato su una lettiga, con il braccio che pendeva fuori, fu portato a casa da tre schiavi. Secondo quanto riferì il medico Antistio, di tante ferite nessuna fu mortale ad eccezione di quella che aveva ricevuto per seconda in pieno petto.I congiurati avrebbero voluto gettare il corpo dell’ucciso nel Tevere, confiscare i suoi beni e annullare tutti i suoi atti, ma rinunciarono al proposito per paura del console Marco Antonio e del comandante della cavalleria Lepido»

svetonio, cesare, 82

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La benevolenza e la temperanza di Cesare
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