Nel 298 a.C. i lucani chiesero aiuto a Roma contro i saccheggi dei sanniti:

« Pregavano il senato sia di prendere i lucani sotto la protezione di Roma, sia di liberarli dalla violenza e dalla prepotenza dei sanniti. Da parte loro, pur avendo già fornito una prova di sicura lealtà scendendo in campo contro i sanniti, erano comunque disposti a consegnare degli ostaggi. »

Tito Livio, Ab Urbe condita libri, X, 11

Ancora per una volta, la terza e ultima, fu guerra con i romani. Stavolta i sanniti chiesero aiuto a galli, umbri ed etruschi contro i romani, che si affrontarono a Sentinum: fu una battaglia delle nazioni.

L’equipaggiamento e le tattiche

I romani avevano adottato, probabilmente nel corso delle stesse guerre sannitiche, un nuovo modo di combattere e nuovo equipaggiamento. Le legioni, ripartite tra velites (i più giovani, 1200, in prima linea, con equipaggiamento leggero: generalmente nessuna armatura, delle pelli a coprirli, uno scudo tondo chiamato parma, una spada e molti giavellotti, creavano scompiglio nelle file avversarie), hastati (un po’ meno giovani, con scutum ovale, quasi rettangolare e concavo, probabilmente copiato dai sanniti stessi e un’armatura che poteva essere una piastra di metallo o, se si era più ricchi, una cotta di maglia. Completava l’equipaggiamento un’elmo in bronzo sormontato da un pennacchio o un crine di cavallo per sembrare più alti, un giavellotto pesante (anch’esso con ogni probabilità copiato dai sanniti), detto pilum, fatto per essere lanciato e penetrare lo scudo, che soppiantava l’antica hasta, la lancia da cui avevano preso il nome e una spada, che qualche decennio dopo sarebbe stata sostituita da Scipione dal gladio hispaniesis. I principes, più anziani, formavano il reparto successivo, ed erano altrettanti. Avevano lo stesso equipaggiamento, ma con ogni probabilità erano molto più diffuse le loricae hamatae. Infine, per ultimi, i triarii, in numero di 600, i più anziani in assoluto e i soli a combattere con delle lance, attendevano in ginocchio la battaglia e venivano impiegati solo in caso di assoluta necessità, tanto che per i romani “arrivare ai triari” equivaleva al nostro “arrivare alla frutta”. La legione era divisa in 30 manipoli di 2 centurie ciascuna (di circa 60 uomini l’una, divise in 10 contubernia – ossia l’unità tattica più piccola – di 8 uomini), che si supportavano a vicenda, per un totale di circa 4.500 combattenti per ogni legione. Alla fanteria, disposta dunque su tre linee (e preceduta dai veliti che creavano scompiglio), a forma di scacchiera (i principi colmavano le linee degli hastati e i triarii quelle dei principi, da cui il nome triplex acies, si affiancavano 300 cavalieri romani, divisi in dieci turmae. Centurie e manipoli erano comandati da centurioni, di cui il più alto in grado era detto primus pilus, mentre comandanti subordinati e superiori dei centurioni erano i tribuni militum, in numero di 6, che guidavano settori dello schieramento. A comandare l’esercito, nel IV-III secolo erano i consoli (successivamente anche proconsoli, pretori, propretori e infine legati a cui erano assegnate singole legioni). I romani si schieravano sempre al centro e ai fianchi, generalmente in numero pari o simile, si schieravano i socii, ossia gli alleati, comandati da praefecti, organizzati in alae per la cavalleria e cohortes per la fanteria, reparti militari che saranno poi copiati dai romani nei secoli successivi (le coorti raggrupperrano 3 manipoli e diventeranno l’unità tattica di base della legione, formata da 10 coorti ciascuna, a partire dalla fine del III secolo a.C.).

Sentinum

Per il delicato compito di combattere i sanniti vennero scelti l’anziano Quinto Fabio Massimo, già dittatore durante la seconda guerra sannitica e Publio Decio Mure; i due erano anche amici. I due schieramenti si incontrarono infine, dopo una serie di scaramucce, a Sentinum. I romani si erano stabiliti sull’Aesis (Esino), presso Fabriano, studiando i movimenti dei nemici, guidati da Gellio Egnazio: la coalizione antiromana intendeva dividersi con i sanniti e i galli che avrebbero affrontato i romani in battaglia e gli etruschi e gli umbri che avrebbero assaltato l’accampamento. Tuttavia i romani vennero a conoscenza dei piani nemici; Fabio avanzò verso Chiusi, costringendo gli etruschi a ripiegare.

Gli eserciti continuarono a contrapporsi per un paio di giorni; lo scontro avvenne il terzo giorno. Fabio Massimo manteneva i soldati sulla difensiva, cercando di fiaccare l’impeto gallico e di stancarli con il caldo. Ma Decio Mure, più giovane e impetuoso, che comandava l’ala sinistra, condusse l’attacco della cavalleria. Fu allora che i romani, dopo aver creato il caos nelle file nemiche, si trovarono contro i carri gallici, che gettarono nello scompiglio la cavalleria romana. La cavalleria, ripiegando, travolse le legioni, gettandole nel disordine, per combattere il quale Decio Mure, come aveva già fatto il padre, invocò la devotio:

Rubens – la morte di Publio Decio Mure

«Perché sto ritardando il fato che incombe sulla mia famiglia? Questa sorte è stata assegnata alla mia stirpe: offrirsi in sacrificio di espiazione per i pericoli della patria. Ora io offrirò in sacrificio alla terra e agli dèi mani me stesso e legioni nemiche. Queste le sue parole. Poi ordinò al pontefice Marco Livio, cui aveva detto, mentre scendeva in battaglia, di non discostarsi mai da lui, che gli recitasse la formula con cui egli doveva far voto di sé e delle legioni nemiche per l’esercito del popolo romano dei quiriti. Si consacrò in voto recitando la stessa preghiera, indossando lo stesso abbigliamento con cui presso il fiume Veseri (ndr. nei pressi del Vesuvio) si era consacrato il padre Publio Decio durante la guerra contro i latini, e avendo aggiunto alla formula di rito la propria intenzione di gettare di fronte a sé la paura, la fuga, il massacro, il sangue, il risentimento degli dèi celesti e di quelli infernali, e quella di funestare con imprecazioni di morte le insegne, le armi e le difese dei nemici, e aggiungendo ancora che lo stesso luogo avrebbe unito la sua rovina e quella di galli e sanniti – lanciate dunque tutte queste maledizioni sulla propria persona e sui nemici, spronò il cavallo là dove vedeva che le schiere dei galli erano più compatte, e trovò la morte offrendo il proprio corpo alle frecce nemiche. »

Tito Livio, Ab Urbe condita libri, IX, 28

I romani ripresero vigore e Quinto Fabio Massimo mandò dei rinforzi, al comando di Lucio Cornelio Scipione e Caio Marcio. Intanto i galli, mostrando una disciplina superiore sia a quella attesa dai romani che quella descritta da Livio, si riorganizzarono e formarono una specie di testuggine. Allora i romani raccolsero tutti i giavellotti rimasti e li scagliarono contro i galli: nonostante la strenua resistenza cominciarono a cadere uno sull’altro, tra scudi che cadevano sotto il peso dei giavellotti conficcati e altri trapassati. Nel frattempo Fabio decise che era giunto il momento di vincere la battaglia e decise di lanciare la cavalleria romana contro i fianchi nemici, facendo al contempo avanzare le legioni per pressare i sanniti. Quest’ultimi furono travolti dai romani e si diedero alla fuga, mentre i galli resistevano ancora strenuamente ma erano rimasti ormai soli sul campo di battaglia. Allora i romani inviarono anche 500 cavalieri campani ad aggirare i galli, mentre i principes della III legione trucidavano i galli gettati nello scompiglio.

Il console romano, vinta la battaglia, mosse verso il campo dei sanniti, dove questi cercavano riparo. I sanniti si assieparono sulla palizzata nel vano tentativo di respingere i romani, che dopo una furiosa mischia, in cui cadde lo stesso Gellio Egnazio, ebbero la meglio, mentre i galli nel frattempo venivano massacrati. I romani avevano vinto la battaglia, ma come riporta lo stesso Livio le perdite erano state terribili da entrambe le parti: secondo lo storico romano ben 25.000 morti e 8.000 prigionieri nella coalizione antiromana e circa 8.500 romani caduti. Il corpo di Decio Mure fu trovato solo il giorno successivo, sotto una pila di cadaveri galli. Seguirono ancora anni di guerre, finché nel 290 a.C. i romani stabilirono nuove condizioni di pace ai sanniti, stavolta sottomessi a Roma: per quest’ultima si aprivano le porte del sud e del nord Italia. Meno di un secolo dopo la penisola e le sue isole saranno totalmente sotto il controllo romano, a parte alcune zone alpine e Roma si affacciava ormai prepotentemente su tutto il Mediterraneo.

Altri esempi di devotio

Secondo Livio furono ben tre i Decio Mure a immolarsi, nonno, padre e figlio. Il primo caso fu nel 340 a.C.: il console Publio Decio Mure, combattendo i latini al Vesuvio e riscontrando auspici sfavorevoli decise, dopo essersi consultato col pontefice, di utilizzare l’antichissimo e desueto rituale della devotio, ossia un immolazione agli dei. Si indossava la toga praetexta, ci si velava il capo, si chiedeva agli dei la distruzione dell’esercito nemico in cambio della propria vita. Questa fu la formula recitata dal primo dei caduti:

«Oh Giano, Giove, Marte padre, Quirino, Bellona, Lari, Divi Novensili, Dèi Indigeti, dèi che avete potestà su noi e i nemici, Dèi Mani, vi prego, vi supplico, vi chiedo e mi riprometto la grazia che voi accordiate propizi al popolo romano dei Quiriti potenza e vittoria, e rechiate terrore, spavento e morte ai nemici del popolo romano dei Quiriti. Così come ho espressamente dichiarato, io immolo insieme con me agli Dèi Mani e alla Terra, per la Repubblica del popolo romano dei Quiriti, per l’esercito per le legioni, per le milizie ausiliarie del popolo romano dei Quiriti, le legioni e le milizie ausiliarie dei nemici.»

Tito Livio, Ab Urbe condita libri, VIII, 9, 6-8

L’ultimo Decio Mure a immolarsi, nel 279 a.C. contro Pirro, ad Ascoli Satriano, sarebbe stato il figlio del Mure morto a Sentinum. Pirro vinse la battaglia ma a un costo talmente caro da far coniare, proprio in quell’occasione, l’espressione “vittoria di Pirro”.

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La devotio di Publio Decio Mure – il sacrificio per la patria
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