Settimio con la moglie Giulia Domna e i figli Caracalla e Geta

Tra il 193 e il 235 si instaurò a Roma una potente dinastia africana-siriaca, quella dei Severi. Primo imperatore tra questi fu Settimio Severo, originario di Leptis Magna, in Tripolitania. Quando a Roma venne ucciso Commodo il 31 dicembre del 192, gli successe Pertinace, il quale però non venne gradito dai pretoriani per la sua durezza, che lo uccisero pochi mesi dopo. La persona che offrì il donativo più alto alla guardia imperiale fu il ricchissimo senatore Didio Giuliano; tuttavia alla notizia della morte di Pertinace le legioni cominciarono ad acclamare i loro comandanti come imperatore: Pescennio Nigro in Siria, Clodio Albino in Britannia, Settimio Severo in Pannonia.

Fu proprio quest’ultimo, nonostante la scarsa esperienza militare, a prendere per primo la porpora essendo il più vicino a Roma. Subito dopo sciolse i pretoriani, rei di aver venduto la porpora al miglior offerente (sebbene l’offerta di Giuliano non fosse più alta del donativo di successione dato da Marco Aurelio ai suoi tempi), riformandole con elementi pannonici a lui fedeli. Alleatosi con Clodio Albino, cui promise il titolo di Cesare, si rivoltò contro Pescennio Nigro, sconfiggendolo a Isso, nello stesso luogo dove Alessandro Magno aveva vinto Dario III, per poi qualche anno dopo attaccare anche Albino, che vinse a Lugdunum dopo due giorni di scontri nel 197. L’imperatore africano, rimasto unico a comandare, inviò come monito la testa di Albino al senato, che in parte epurò in quanto sostenitore dello sconfitto:

«La loro fuga fu rovinosa, e i soldati di Severo li inseguirono, facendo strage, finché giunsero alla città. Quanto al numero dei caduti dalle due parti, e dei prigionieri, gli storici del tempo lo valutarono ciascuno a modo proprio. I vincitori saccheggiarono e incendiarono Lione; sorpresero Albino, e avendolo decapitato portarono la sua testa a Severo. Essi avevano trionfato sui nemici dell’Oriente e del Settentrione: nulla invero può paragonarsi alle campagne e alle vittorie di Severo, né per l’entità degli eserciti, né per gli sconvolgimenti delle province, né per il numero delle battaglie, né per la lunghezza e la rapidità delle marce. Grandi furono, senza dubbio, le battaglie fra Cesare e Pompeo, l’uno e l’altro alla testa di eserciti romani, e poi fra Ottaviano e Antonio, o fra Ottaviano e i figli di Pompeo, nonché le imprese compiute da Mario e da Silla, o da altri, nelle guerre civili; ma non è facile citare un altro uomo che abbia sopraffatto con l’astuzia il presidio di Roma, e abbia eliminato, vincendoli con il suo valore, tre imperatori già padroni del potere: l’uno già insediato nel palazzo imperiale; un altro da tempo signore dell’Oriente, e invocato come principe dai Romani; un terzo che aveva il titolo e l’autorità di Cesare. Cosí dunque morí Albino, dopo aver goduto per breve tempo di un potere che lo condusse alla rovina. Severo scatenò senza indugio il suo odio furibondo verso coloro che nella capitale avevano parteggiato per il suo avversario. Mandò a Roma la testa di Albino, ordinando di esporla in pubblico; e inviò un messaggio al popolo annunciando la propria vittoria. Aggiunse alla fine che aveva mandato la testa e aveva ordinato di esporla sotto gli occhi di tutti per suscitare il timore e per mostrare con evidenza la sua ira contro i Romani. Quindi sistemò gli affari della Britannia, dividendo l’amministrazione di quel territorio in due province, e organizzò la Gallia nel modo che gli parve migliore; mise a morte tutti i seguaci di Albino, sia che lo avessero seguito spontaneamente, sia per forza; e avendo confiscato i loro beni, si affrettò verso Roma, conducendo con sé tutto l’esercito per incutere maggior timore. Compiuto il viaggio con grande rapidità, com’era suo costume, entrò a Roma pieno di foschi propositi contro gli amici di Albino ancora superstiti. Il popolo gli andò incontro con rami di alloro, manifestando in ogni modo rispetto e omaggio; anche i senatori lo salutarono, per la maggior parte sconvolti dal timore. Pensavano infatti che egli non li avrebbe risparmiati, essendo per natura un temibile nemico, solito ad accontentarsi, per colpire, di un minimo pretesto; in quel momento poi sembrava che avesse ottime ragioni per farlo. Severo dunque si recò al tempio di Giove, e compí anche gli altri sacrifici rituali; quindi si ritirò nel palazzo, e concesse al popolo, per celebrare la vittoria ottenuta, una generosa distribuzione di cibi. Elargí ai soldati un abbondante donativo, e conferí loro molti privilegi che prima non avevano. Infatti per primo accrebbe il loro stipendio; permise inoltre che portassero l’anello d’oro e che contraessero matrimoni legittimi: tutte cose che solevano considerarsi nocive alla disciplina militare, e alla capacità guerriera. Ed egli fu il primo che minò la loro forza, l’austerità, la resistenza alle fatiche, l’obbedienza e il rispetto dei capi, insegnando loro a desiderare la ricchezza, e abituandoli al lusso. Dopo aver preso tali provvedimenti, che a lui sembravano opportuni, si recò al senato; e sedutosi sul trono imperiale accusò violentemente i partigiani di Albino, esibendo lettere segrete di alcuni senatori che aveva trovato negli archivi di quello, e rinfacciando ad altri di avergli inviato ricchi doni. Cosí continuando a investire tutti con varie accuse (i senatori delle province orientali, per aver sostenuto Nigro, quelli di occidente, per essere stati complici di Albino), sterminò senza misericordia tutti quelli che allora emergevano nel senato, nonché i piú ricchi e nobili dei provinciali; come pretesto adduceva la punizione dei suoi nemici, ma il vero movente era la sua smoderata brama di ricchezze. Nessun imperatore si lasciò dominare dall’avidità a tal punto: infatti, quanto per energia spirituale e fisica, e per abilità di condottiero, egli emergeva fra i piú celebrati, tanto grandeggiava in lui un cieco amore del denaro, che lo spingeva ad arbitrarie uccisioni. »

Erodiano, Storia di roma dopo marco aurelio, III, 7,2 – 8,9

Settimio Severo arruolò poi tre nuove legioni partiche, e la II Parthica venne stanziata nei Castra Albana, vicino Roma; la pressione di truppe fedeli all’imperatore attorno l’Urbe non era mai stata così forte. Le altre due rimasero in oriente, in Osroene e Mesopotamia. Tutte e tre furono affidate a prefetti equestri; ormai il ceto equestre, cui faceva sempre più affidamento l’imperatore romano, stava prendendo sempre più funzioni e mansioni dell’amministrazione e dell’esercito, a discapito del senato.

Inoltre l’imperatore aumentò la paga dell’esercito, mentre la moneta stava cominciando a svalutarsi. Diede anche all’esercito nuovi benefici, come la possibilità di sposarsi, mentre i centurioni primipili ottennero il rango equestre. Dopo essere rientrato a Roma e mandato a morte l’ingombrante Plauziano, Settimio si rivolse anche alla Britannia, dove il vallo di Antonino cadeva a pezzi. Probabilmente nei suoi piani c’era l’annessione di tutta l’isola.Tuttavia, mentre combatteva a nord, morì a York, il 4 febbraio del 211 d.C. Secondo Cassio Dione in punto di morte avrebbe detto ai figli Caracalla e Geta di non preoccuparsi di nient’altro che arricchire i soldati e andare d’accordo fra di loro

Gli africani e i siriani al potere

Per legittimare la sua posizione poi Severo decise di auto adottarsi in maniera postuma a Commodo, diventando Marco Aurelio Antonino e Pertinace, di cui era vendicatore. Di fatto rendeva il suo potere, all’apparenza, una continuità con quello istituito da Nerva e Traiano. Nella realtà tuttavia le cose cambiarono: Severo fu estremamente duro con i senatori, molti dei quali fece uccidere.

Caracalla

Caracalla

Caracalla da bambino era da tutti ammirato e si credeva sarebbe stato buonissimo. Ma quando diventò imperatore, alla morte del padre, il 4 febbraio del 211, si dimostrò tutt’altro che buono. Infatti odiava profondamente il fratello Geta, co-imperatore, e credeva volesse ucciderlo. Infine Caracalla lo fece fuori, adducendo come motivazione il fatto che il fratello stava per fare lo stesso. I pretoriani reagirono male e Caracalla dovette calmarli con una largo donativo. Subito dopo, in senato, si difese, adducendo il suo gesto come un atto difensivo; ma si era presentato in senato con la corazza sotto la toga, temendo di essere assassinato. Ossessionato dalla sua sicurezza personale (chiedeva continuamente a maghi, indovini e sacerdoti informazioni sulla sua sicurezza personale), mandò a morte molti senatori e cavalieri, tra cui il prefetto al pretorio Papiniano, fatto a pezzi letteralmente a colpi di scure davanti i suoi occhi, reo di non aver appoggiato l’omicidio di Geta:

«In seguito, alla sua presenza fu ucciso a colpi di scure dai soldati Papiniano: al che l’imperatore si rivolse all’uccisore dicendo: «Con la spada avresti dovuto eseguire il mio ordine!». Per suo ordine fu pure ucciso Patruino, davanti al tempio del divo Pio, e il suo cadavere, insieme con quello di Papiniano, furono trascinati attraverso la piazza senza alcun ritegno dettato da sentimenti di umanità. Mise a morte anche il figlio di Papiniano, che solo tre giorni prima aveva allestito, in qualità di questore, splendidi giochi. In quegli stessi giorni furono uccise moltissime persone che erano state partigiani di suo fratello; furono eliminati anche i liberti che avevano curato gli affari di Geta. Si ebbero poi stragi in ogni luogo. Vi fu anche chi venne sorpreso nel bagno, e molti furono uccisi persino mentre erano a tavola, e tra essi anche Sammonico Sereno del quale ci sono rimaste molte dotte opere.»

Historia Augusta, Caracalla, 4, 1-4

L’imperatore si dedicò anche a una prima campagna militare in Germania, dove ottenne il titolo di Germanicus. Era molto amato dai soldati, secondo Erodiano (ben più ostile è l’Historia Augusta nei suoi confronti, additandolo come nemico del senato). Ammirava oltremodo Alessandro Magno, e forse c’è anche questa ammirazione alla base del provvedimento che, nel 212 d.C., lo vide concedere la cittadinanza romana a tutti i liberi dell’impero (ormai già da molti decenni il diritto romano distingueva genericamente tra honestiores e humiliores, la Constitutio Antoniniana. In ogni caso, l’evento, che può apparire storico, venne trascurato dai contemporanei e a malapena citato. Cassio Dione riporta che le motivazioni furono puramente fiscali; infatti i provvedimenti imperiali del tardo II secolo – inizio III lasciano intendere che chi acquisiva la cittadinanza al periodo continuava a pagare le imposte precedenti e in aggiunta quelle come cittadino romano. Inoltre Caracalla in questo modo imitava Alessandro, con un presunto universalismo analogo a quello del macedone, e disponeva di molte più reclute per l’esercito.

Caracalla riformò anche la moneta, che a quel tempo conteneva ormai poco meno del 50% di argento. Per sopperire alle perdite dovute al minor valore intrinseco del denario, Caracalla aumentò ulteriormente la paga dell’esercito, da cui era amatissimo, e introdusse una nuova moneta, l’antoniniano. Le monete rinvenute hanno un peso mai superiore a 1,6 denari; tuttavia non sappiamo se lo scopo fosse quello di ridurre l’inflazione o di produrre più moneta a un costo inferiore. Infatti, mentre alcuni hanno suggerito che che la moneta potesse valere 1,25 denari e quindi cercare di fermare l’inflazione, dall’altro l’ipotesi più accreditata è che il valore fosse di due denari e che quindi in questo modo potesse disporre di più denaro. La Constitutio Antoniniana, che estendeva il pagamento delle tasse dei cittadini romani a tutti, sembrerebbe confermare l’idea che Caracalla avesse bisogno di denaro.

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Eliogabalo

Caracalla decise di intraprendere una campagna contro i parti, per imitare il suo mito Alessandro Magno. Pare che creò anche dei reparti di falange macedone (o rinominò soltanto in quel modo), dando anche ai suoi generali i nomi dei compagni di Alessandro. Caracalla convinse il re partico Artabano che volesse sposare la figlia, per unire i due imperi (come aveva fatto Alessandro sposando Rossane e costringendo i macedoni a prendere spose persiane).Alla fine il re cedette e Caracalla entrò in territorio partico incontrastato, accolto come uno di loro. Durante un banchetto e una festa notturna però l’imperatore diede l’ordine di massacrare tutti, e i romani ottennero un grande bottino. Artabano si salvò miracolosamente, mentre Caracalla, soddisfatto, tornò indietro. Ma, fermatosi a Carre, venne assassinato, forse dietro ordine del prefetto al pretorio Macrino (che gli subentrò come imperatore).

Vario Bassiano, un lontano cugino di Caracalla, che la madre Giulia Soemia (cugina di I grado di Caracalla) andava spacciando per figlio illegittimo di Caracalla, venne acclamato imperatore poco dopo dalla legio III Gallica. Macrino, che pure aveva associato suo figlio Diadumeno a Cesare, venne sconfitto in battaglia dalle truppe di Bassiano, guidate dall’eunuco Gannys. Vario, che la madre aveva ormai deciso fosse figlio di Caracalla, prese il nome di Antonino Eliogabalo; il primo dal cugino-padre, il secondo perché sacerdote di El-Gabal, la divinità solare di Emesa, città natale della nonna Giulia Mesa. Appena quattordicenne, fece ritorno a Roma, considerandosi più sacerdote che imperatore. Eliogabalo, appena quattordicenne, forse non rendendosi neanche conto degli oneri che la sua carica comportava, si dedicò a tutto tranne governare. Passava le giornate in dissolutezze, che non si addicevano alla morale romana del tempo. Sposò addirittura la vestale Aquilia Severa, cosa vietatissima in quanto le vestali dovevano mantenere la castità.  soldati, e specialmente i pretoriani, non riuscirono a tollerare a lungo questi comportamenti, rivolgendo le loro speranze nei confronti di Alessandro, cugino di Eliogabalo, che era stato nominato Cesare:

Le rose di Eliogabalo – Lawrence Alma-Tadema

«I soldati, dal canto loro, non potevano più sopportare che una tale peste di uomo si mascherasse sotto il nome di imperatore e, prima in pochi, poi a gruppi sempre più numerosi, si consultarono reciprocamente, tutti volgendo le loro simpatie verso Alessandro, che già aveva ottenuto il titolo di Cesare dal senato, ed era cugino di questo Antonino; avevano infatti in comune la nonna Varia, da cui Eliogabalo aveva preso il nome di Vario.»

«Assunse alla prefettura del pretorio un saltimbanco, che aveva già esercitato a Roma la sua arte, creò prefetto dei vigili l’auriga Gordio, e prefetto all’annona il suo barbiere Claudio. Promosse alle rimanenti cariche gente che gli si raccomandava per l’enormità delle parti virili. Ordinò che a sovrintendere alla tassa di successione fosse un mulattiere, poi un corriere, poi un cuoco, e infine un fabbro ferraio. Quando faceva il suo ingresso nei quartieri militari o in senato, portava con sé la nonna, di nome Varia – quella di cui s’è detto precedentemente –, perché dal prestigio di lei gli venisse quella rispettabilità che da se stesso non poteva guadagnarsi; né prima di lui, come già dicemmo, alcuna donna ebbe mai a mettere piede in senato, così da essere invitata a partecipare alla redazione dei decreti, e a dire il proprio parere. Durante i banchetti si prendeva vicino soprattutto i suoi amasii, e godeva molto ad accarezzarli e palparli in maniera lasciva, né alcuno più di loro era pronto a porgergli la coppa, dopo che aveva bevuto.»

Historia Augusta, Eliogabalo, 10, 1; 12, 1-4

Ormai cresceva il partito che supportava Alessandro e Eliogabalo temeva per la sua vita. Diede ordine a ogni senatore di allontanarsi dalla città, dopo aver mandato via, dietro richiesta dei soldati, i soggetti ritenuti più inadatti della sua corte. Infine, i pretoriani, non sopportandolo più, lo massacrarono, l’11 marzo del 222:

«Ma i soldati, e particolarmente i pretoriani, sia perché ben conoscevano – essi che già avevano cospirato contro Eliogabalo – sia perché vedevano apertamente l’odio che egli nutriva contro di loro […] e fatta una congiura per liberare lo Stato, prima di tutto i suoi complici […] con un tipo di morte […] dato che alcuni li uccidevano dopo averli evirati, altri li trafiggevano dal di sotto, perché la morte risultasse conforme al tipo di vita. Dopo di che fu assalito lui pure e ucciso in una latrina in cui aveva cercato di rifugiarsi. Fu poi trascinato per le vie. Per colmo di disonore, i soldati gettarono il cadavere in una fogna. Poiché però il caso volle che la cloaca risultasse troppo stretta per ricevere il corpo, lo buttarono giù dal ponte Emilio nel Tevere, con un peso legato addosso perché non avesse a galleggiare, di modo che non potesse aver mai a ricevere sepoltura. Prima di essere precipitato nel Tevere, il suo cadavere fu anche trascinato attraverso il Circo. Per ordine del senato fu cancellato dalle iscrizioni il nome di Antonino, che egli aveva assunto pretestuosamente, volendo apparire figlio di Antonino Bassiano, e gli rimase quello di Vario Eliogabalo. Dopo la morte fu chiamato il «Tiberino», il «Trascinato», l’«Impuro» e in molti altri modi, ogniqualvolta capitava di dover dare un nome ai fatti della sua vita. E fu il solo fra tutti i principi ad essere trascinato, buttato in una cloaca, ed infine precipitato nel Tevere.»

Historia Augusta, Eliogabalo, 16, 5; 17, 1-6

Severo Alessandro

Alessandro era nato a Arca Cesarea (nel Libano), il 1 ottobre del 208. Era figlio di Giulia Mamea, sorella di Giulia Soemia, ed era dunque cugino diretto di Eliogabalo. Associato a lui come Cesare, gli successe dopo il suo assassinio. Il senato, in via straordinaria, visti i disastri combinati dal cugino, gli concede in un’unica soluzione tutti i poteri imperiali. Alessandro si dispose fin da subito con animo benevolo nei confronti del senato, da cui fu molto amato, per i suoi modi sobri e rispettosi. Prima di prendere ogni decisione consultava inoltre un collegio di sedici padri coscritti, e non la ratificava mai se non mancava il consenso unanime. Tuttavia l’influenza della madre, Giulia Mamea, sul giovane Alessandro, si fece sentire. Le donne a corte avevano un potere immenso, in continuità con quanto avvenuto sotto Eliogabalo; la famiglia siriana aveva preso le redini del governo, senza tuttavia riuscire a comprendere che il potere a Roma si fondava sull’esercito, e che il suo supporto non era evitabile. Tuttavia, il governo di Alessandro fu moderato, e in ambito civile fu il migliore dai tempi di Marco Aurelio:

Severo Alessandro

«Quando Alessandro ascese al trono, ebbe soltanto il titolo imperiale e le forme esteriori del potere, ma l’amministrazione dello stato e l’iniziativa di ogni decisione erano in mano alle donne. Queste, in verità, cercavano di seguire in ogni campo criteri saggi e onesti. In primo luogo scelsero sedici senatori, eminenti per l’età veneranda e la vita intemerata, affinché fossero collaboratori e consiglieri del principe; né alcuna deliberazione veniva promulgata e applicata senza che costoro l’avessero in precedenza vagliata e accolta. Il nuovo governo era gradito al popolo e ai soldati, ma soprattutto al senato, in quanto si allontanava dall’assolutismo tirannico, ispirandosi ai principî aristocratici.»

«Governò infatti per ben quattordici anni senza versare sangue innocente; anche quando giudicava su colpe gravissime, egli non comminava la pena di morte, comportandosi in ciò molto diversamente da tutti gli altri successori di Marco, fino ai nostri tempi. Nessuno potrebbe ricordare, sotto il governo di Alessandro, che pure durò tanti anni, un uomo ucciso senza processo.»

Erodiano, Storia dell’impero romano dopo Marco Aurelio VI, 1, 1-2; VI, 1, 7

Ben diversamente si comportò Alessandro in guerra. Non aveva alcuna esperienza militare e l’influenza materna ebbe effetti deleteri su di lui; pare che la madre facesse di tutto per evitare che combattesse, anche quando sarebbe stato necessario per ottenere il supporto dell’esercito. Alessandro fu infatti costretto a recarsi in oriente, dove i parti arsacidi erano stati rovesciati dal persiano Ardashir (Artaserse), che aveva dato via alla dinastia sasanide.Arrivati a dover combattere però, Alessandro titubò, forse pressato dalla madre; per i romani fu una disfatta. Nel frattempo i germani minacciavano i confini e, reputandoli un pericolo ben maggiore per l’Italia, Alessandro decise di affrontarli, lasciando l’esercito orientale a contenere i persiani, per lui sufficiente. Ma, nonostante avesse portato con sé arcieri parti e cavalieri mauri, oltre ad aver organizzato l’esercito per combattere, decise di intavolare trattative diplomatiche, evitando ancora una volta lo scontro. I soldati, esasperati, non ne poterono più ed elessero loro imperatore Massimino, comandante delle reclute:

«Alessandro aveva in tal modo disposto le operazioni; tuttavia gli sembrò opportuno inviare al nemico ambasciatori e intavolare trattative di pace. Prometteva di dar loro quanto avessero chiesto, e di prodigare le sue ricchezze. Questo è, per i Germani, un argomento assai persuasivo; poiché sono molto desiderosi di arricchirsi, e sempre mercanteggiano con i Romani la pace a peso d’oro. Alessandro preferiva contrattare con essi la tregua anziché cimentarsi in una guerra. Ma i soldati mal sopportavano questo indugio, che consideravano inutile, e si sdegnavano perché Alessandro non tentava di compiere imprese gloriose sul campo di battaglia; si distraeva invece fra le corse equestri e i piaceri, mentre urgeva prendere l’offensiva e punire i Germani della loro tracotanza.»

Erodiano, Storia dell’impero romano dopo Marco Aurelio VI, 7, 9-10

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La dinastia dei Severi
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